giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Giardiello presto in aula nel processo della strage
Lettera dei legali al giudice: non siamo pronti

L’assassino torna sempre sul luogo del delitto? Immaginatevi che Claudio Giardiello voglia tornare in aula. Ne ha diritto: è imputato di un processo per bancarotta, è detenuto a Monza, ma alle udienze che lo riguardano può prendere parte, come chiunque. Persino gli imputati di mafia al 41bis possono chiedere di assistere in videoconferenza ai loro processi.

Ecco, stando a fonti legali, Giardiello avrebbe intenzione di partecipare alla prossima udienza, il 14 maggio. Il collegio di giudici non sarà lo stesso davanti al quale ha compiuto la strage del Palazzo di giustizia. Quei giudici si sono astenuti: non avrebbero avuto la serenità per giudicare chi davanti a loro ha ucciso due persone, ha quasi ammazzato un coimputato, ha ferito un testimone appena fuori dall’aula per poi dirigersi verso la stanza di un altro magistrato e colpirlo con due proiettili letali.

Ora, fate un altro sforzo di immedesimazione: immaginate di essere uno degli avvocati che il giorno della strage erano in aula. Avete assistito alla sparatoria, avete visto morire due persone davanti a voi, ne avete soccorsa una terza in fin di vita. Con quale stato d’animo tornereste sul posto, a distanza di poche settimane, per celebrare il medesimo processo? Con un imputato ancora grave in ospedale, e uno – l’assassino reo confesso – pronto a presentarsi davanti a voi? E’ quello che si domandano alcuni legali che per questo hanno scritto al presidente del nuovo collegio, Lorella Trovato, chiedendole una pausa. Valutando di rinviare il dibattimento a dopo l’estate. “Non è così che si volta pagina”, spiega uno di loro. I giudici non sono “le uniche figure in toga a meritare la necessaria serenità delle udienze”, gli fa eco un collega, spiegando come non vi siano ragioni d’urgenza per riprendere a ritmo serrato. Quello a carico di Giardiello e dei suoi coimputati è infatti un processo senza detenuti e senza problemi di prescrizione. Semmai da parte dei giudici, ritengono i legali, potrebbe prevalere un ragionamento di “opportunità e rispetto di tutti”, spiega un avvocato che chiede tempi più rilassati per un processo assai teso. C’è persino chi inizia a ipotizzare un’istanza di remissione: processo via da Milano. In questo Palazzo di Giustizia mancherebbe del tutto la serenità per un processo equo.

Lo choc è ancora troppo vivo nell’animo di chi era in aula. Parafrasando Jonathan Safran Foer: “molto forte, incredibilmente vicino”.

Chi entra senza tessera, chi no e come: le nuove regole di accesso al Palazzo

Piu’ carabinieri a presidiare le aule dove si svolgono le udienze, tornelli con badge personalizzato in prospettiva e controlli random degli utenti professionali a tutti e quattro gli accessi del Palazzo di Giustizia di Milano. Arrivano le nuove regole di accesso deliberate dalla Commissione Manutenzione degli Uffici Giudiziari (le potete leggere qui: nuove regole accesso) che si e’ riunita il 28 aprile scorso per valutare una serie di proposte da portare al Ministero della Giustizia dopo la strage compiuta da Claudio Giardiello. (cronaca di una giornata di morte)

La Commissione ha deciso – si legge nel verbale della riunione – di “mantenere la divisione dei varchi di accesso tra quelli riservati al pubblico e quelli riservati, previa esibizione di tesserino di riconoscimento con foto, agli utenti professionali (magistrati,personale amministrativo e avvocati di tutti i Fori)”. E’ stata inoltre “condivisa” la “necessita’, in prospettiva, di procedere  all’installazione di tornelli con apposito badge personalizzato e con controllo random manuale a sorpresa”. Si e’ deciso poi “di rivolgere all’Arma dei Carabinieri l’invito a incrementare il numero dei carabinieri presenti nel Palazzo di Giustizia e a effettuare una vigilanza dinamica nei corridoi e nei pressi delle aule di udienza” e di “dare avviso a tutti gli utenti professionali che, pure se in possesso di regolare porto d’armi, non e’ loro consentito l’accesso con armi nel Palazzo di Giustizia”. (il notaio con la pistola).  Per “potenziare” il controllo random a tutti gli accessi, la Commissione evidenzia “l’opportunita’ di avere la disponibilita’ di uno strumento che consenta il controllo random programmato regolarmente dopo un certo numero di accessi di utenti”. (manuela d’alessandro)

 

Cronaca di una giornata di morte nel Palazzo

Mancano pochi minuti alle undici quando il tranquillo via vai di una mattina di sole nel Palazzo di Giustizia di Milano viene trafitto da improvvisi colpi di pistola. “Hanno sparato! Hanno sparato!”, si sente urlare nei corridoi. Qualcuno corre senza una meta, altri vanno a barricarsi negli uffici. I volti di tutti sono terrei.

Un uomo, Claudio Giardiello, 57 anni, ha appena finito di ‘regolare’ i conti col suo destino di imprenditore fallito con 13 colpi esplosi da una pistola Beretta. Il tremendo copione viene svolto in due momenti. Un  primo atto nell’aula al terzo piano dove è in corso il suo processo per bancarotta: qui uccide Giorgio Erba, coimputato per il crac dell’Immobiliare Magenta di cui Giardiello era socio di maggioranza, e il suo ex avvocato, Lorenzo Alberto Claris Appiani, che nell’udienza di oggi era chiamato a testimoniare. Sempre in aula ferisce Davide Limongelli (socio di Giardiello). Scendendo al secondo piano, gambizza sulle scale Stefano Verna, commercialista testimone del processo sul fallimento.

“Claris Appiani  – è il racconto dell’avvocato Gian Luigi Tizzoni, presente in aula -  non ha neanche finito di leggere la formula del giuramento, che è stato colpito dai proiettili. Ho sentito un botto pazzesco, poi ho visto il braccio di Giardiello proteso, non ho capito se verso il pm Luigi Orsi o verso il testimone. Tutti ci siamo diretti verso la camera di consiglio, io ho preso con me l’avvocato di parte civile, che era immobile, incredula”.

Giardiello sta per lasciare il Palazzo, quando ci ripensa e torna indietro. Vuole chiudere l’estremo ‘conto’ con chi ritiene gli abbia distrutto la vita. Il giudice Ferdinando Ciampi in quel momento sta parlando con la sua cancelliera perché la stampante non funziona. Ha 75 anni, a dicembre andrà in pensione, dopo una vita spesa a far di conto sui bilanci delle società fallite. Giardiello entra senza problemi nella stanza e fredda Ciampi con due colpi sotto gli occhi dell’impiegata. Sotto gli eleganti marmi del Piacentini ora è il terrore. Decine di carabinieri e poliziotti, alcuni in borghese perché lavorano negli uffici del Tribunale, cercano il killer in ogni angolo del vasto edificio. Il personale viene invitato a restare chiuso nelle stanze, mentre gli ingressi vengono bloccati.  C’è chi manda sms ai parenti per rassicurarli. Circa un’ora dopo, Giardiello viene fermato a Vimercate, dove risiede, e ai carabinieri  confida di volere uccidere ancora un’altra persona nel suo paese “per vendicarsi”. Dopo un breve ricovero per un calo di pressione, decide di non rispondere alle domande dei magistrati. L’inchiesta, condotta dalla Procura di Brescia (che è competente sulle indagini relative al tribunale di Milano), dovrà chiarire come Giardiello sia potuto entrare in tribunale con una pistola. Le telecamere hanno ripreso il killer mentre parcheggiava il suo scooter in via Manara (accesso secondario del Palazzo di Giustizia) e mentre entrava dall’ingresso alle 9.19. “Dalle analisi dei filmati – ha detto il procuratore Bruti Liberati -  si vede che mostra qualcosa, evidentemente un falso tesserino di riconoscimento”. All’ingresso di via Manara, ha spiegato ancora il magistrato, non c’è un metal detector, “perché si tratta di un ingresso riservato solo al personale, magistrati e avvocati”. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha assicurato che saranno individuate “eventuali falle nel sistema disicurezza”. Nel pomeriggio, magistrati e avvocati si sono riuniti in aula magna per ricordare con un minuto di silenzio le vittime. E mentre Vinicio Nardo, ex presidente della Camera Penale, ricorda le ultima parole alla madre del giovane Claris Appiani, 36 anni (“Vado a testimoniare, nella vita ci vuole coraggio”), alcuni magistrati dell’Anm sostengono che il “clima mediatico poco simpatico” sulle toghe potrebbe avere influito sullo scempio di oggi. (manuela d’alessandro)

Da Milano a Brescia a occuparsi di colleghi appena lasciati, Csm: ok

Da Milano a Brescia a occuparsi di indagini che vedono i colleghi appena lasciati come indagati o parti offese, ma per il Csm è tutto ok. Accade questo. In sede di commissione il Csm ha proposto come procuratore aggiunto a Brescia il pm milanese Carlo Nocerino. Nella città della leonessa c’è già un altro aggiunto Sandro Raimondi, anche lui proveniente da Milano, incaricato di trattare i fascicoli in cui sono coinvolti magistrati in servizio nel distretto di Milano. E con ogni probabilità sarà affiancato da Nocerino. Ovviamente qui non è in discussione l’onestà personale di Raimondi e Nocerino. Il problema è che l’organo di autogoverno della magistratura avrebbe dovuto tenere presenti ragioni di opportunità e di trasparenza.

E’ giusto che un magistrato si trovi a dover decidere la sorte di colleghi che certamente conosce e con cui ha lavorato fino a pochissimo tempo prima? Non sarebbe stato meglio evitare soprattutto di mettere in imbarazzo un magistrato che va a lavorare proprio nella sede titolare dei cosiddetti “articoli 11″? Non mancavano di certo altre candidature altrettanto autorevoli per il posto da aggiunto a Brescia che sarà lasciato libero da Fabio Salamone che scade per la regola dell’ultradecennalità. E’ il caso di Roberto Di Martino, attuale capo della procura di Cremona, coordinatore delle indagini sul calcio scommesse, e di Francesco Piantoni, pm a Brescia da molti anni.

Carlo Nocerino è un magistrato di grande esperienza che nel recente passato si è occupato dei casi Enipower e Parmalat quando era nel dipartimento relativo ai reati societari e prima ancora delle indagini sull’omicidio di Maurizio Gucci. E’ a Milano da moltissimi anni. Il Csm accogliendo la sua domanda di fare l’aggiunto a Brescia, nel caso l’ok della commissione dovesse essere confermato dal plenum, potrebbe metterlo in una situazione di non serenità, di imbarazzo. Evidentemente avranno pesato altre valutazioni, senza rispettare il principio che un magistrato, anche e forse soprattutto quando deve giudicare il comportamento di colleghi, non solo deve essere ma apparire indipendente, nel senso di non essere condizionato da rapporti di conoscenza, amicizia frequentazione. (frank cimini)

19 anni e milioni di euro dopo, l’aula bunker di Opera non è finita e fa ruggine

 

Quando iniziarono a progettarla, Michael Johnson bruciava ogni record alle Olimpiadi di Atlanta e Antonio Di Pietro decideva di entrare in politica. Correva l’anno 1996. A Milano, sull’onda lunga di ‘Tangentopoli’, si pensava in grande con la costruzione di un’aula bunker vicino al carcere di Opera dove celebrare i maxi processi. Diciannove anni, molti appalti, molti milioni in lire e in euro dopo, quel progetto è diventato un osceno prefabbricato in calcestruzzo a cui si sta cercando con molta fatica di ridare una dignità. La Procura Generale e la Corte d’Appello di Milano hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti e uno alla Procura della Repubblica per capire cosa sia successo.

Un gioiello tra i fontanili

Opera è un comune appena fuori Milano, famoso per il suo carcere, uno dei più vasti in Italia e quello col maggior numero di detenuti con l’arcigno regime del 41 bis. Il progetto elaborato dal Provveditorato lombardo alle Opere Pubbliche prevedeva di affiancare alla prigione, costruita negli anni ottanta, un edificio con un interrato riservato alle celle e due piani in grado di contenere due aule bunker e le camere di consiglio con bagni annessi.

L’area destinata all’iniziativa è la verde campagna attorno al centro abitato dove scorrono ameni fontanili, un dettaglio che, come vedremo, non verrà tenuto in giusto conto nel piano originario. La grandeur iniziale porta ad immaginare anche un parcheggio e una strada lunga circa 300 metri che consentano ad avvocati, magistrati, forze dell’ordine e pubblico di raggiungere il bunker. Il costo dell’intervento, compresi gli oneri di esproprio e urbanizzazione (marciapiedi, linea telefonica, reti di collegamento fognario), viene valutato in 12 miliardi e 644milioni di lire. Si parte a rilento con la prima pietra posata solo nel 1999 e si va avanti peggio. Sorgono problemi di varia natura con le imprese che si sono aggiudicate i lavori e nel 2002 viene stipulato un nuovo contratto di appalto. La Commissione di manutenzione della Corte d’Appello di Milano e il Provveditorato ritoccano il progetto, eliminando una delle due aule bunker previste per fare spazio a una zona archivio. Nel 2006  la direzione dei lavori comunica che entro un paio di mesi sarebbero stato completato il primo lotto ma esige un altro finanziamento di 5 milioni e mezzo di euro. L’epilogo dei lavori viene spostato all’inizio del 2010.

Scende la pioggia nel bunker    

Il Ministero della Giustizia sborsa la somma richiesta mettendola a a disposizione del Provveditorato che, a luglio 2011, annuncia un ulteriore ritardo nel completamento dell’opera. C’è un intoppo non da poco. I locali sottoterra si allagano a causa dell’innalzamento della falda freatica e una perizia accerta che i lavori non potranno essere completati prima del giugno 2012. Troppo ottimismo. Una delle due imprese impegnate nel cantiere va in liquidazione volontaria e le bizze della falda provocano infiltrazioni d’acqua dal tetto. Caos. Una seconda perizia dimostra che l’impermeabilizzazione del tetto eseguita a suo tempo non è più idonea. A novembre 2013 la società che sta portando avanti i lavori, una ditta veneta, stila un elenco delle opere ancora da realizzare e rassicura la Corte d’Appello che non ci sarà bisogno di nuovi finanziamenti. Previsione smentita perché sei mesi dopo sembra emergere la necessità di denaro fresco. Finalmente qualcuno nel Palazzo di Giustizia decide di interessarsi della vicenda. Nella primavera del 2014, alcuni magistrati effettuano un sopralluogo del cantiere. L’esito è drammatico: il cantiere appare abbandonato e le opere portate a termine sono in stato di degrado.

La promessa del Provveditore

“Io sono arrivato nell’aprile del 2012, questa cosa era già qua”. Pietro Baratono, responsabile delle Opere Pubbliche in Lombardia, ha l’aria sconfortata di chi si è  trovato sulla scrivania un dossier tremendo, ormai compromesso da troppi pasticci. “Questo appalto  – spiega – è nato male, ‘diviso‘ in due, con gare all’inizio solo per le strutture dell’opera e poi con altre gare per il resto. Quindi, senza una visione unitaria. Sicuramente ci sono delle responsabilità anche nostre, ma le diverse esigenze dell’ente usuario che si sono manifestate nel tempo non hanno aiutato”. A un certo punto i magistrati, sottolinea Baratono, “hanno chiesto anche di aggiungere gli alloggi per dormire in vista di possibili camere di consiglio che durino più giorni”. Ricapitolando: il progetto attuale prevede le celle nel seminterrato e ai due piani un’aula bunker, un archivio, due camere di consiglio con annesse otto stanzette per i magistrati qualora le riunioni per le sentenze dovessero protrarsi. “Ora i lavori dopo un periodo di sospensione per effettuare le perizie sono ripresi – garantisce Baratono – e per luglio 2015 ho promesso al Presidente della Corte d’Appello Canzio che sarà tutto pronto”.

Un cantiere desolato   

Lunedì mattina di inizio febbraio, sono le nove e mezzo. L’abbaiare furioso dei cani nel recinto del carcere accoglie il nostro avvicinamento al cantiere dell’aula bunker. Per arrivarci camminiamo per qualche minuto nell’erba resa fangosa dalle piogge degli ultimi giorni. Della strada vagheggiata nel progetto iniziale che dovrebbe permettere un facile accesso all’aula non c’è traccia. Ecco la nostra opera: la conosciamo che è già maggiorenne da un pezzo. Una colata cupa e senza grazia di calcestruzzo, il colore che ci si immagina per il più sordido dei luoghi di dolore. Non si vede nessun operaio al lavoro, né ci sono segni del passaggio recente di qualcuno. Cumuli di rifiuti, un tavolo arrugginito, due taniche per terra, solo una betoniera azzurra ravviva il paesaggio di per sé già non allegro ma intristito ancor più dalla costruzione che affianca il carcere.

Visita al labirinto

Proviamo a contattare telefonicamente e via mail l’impresa che segue i lavori da un paio d’anni, senza ricevere risposte. Torniamo al cantiere una radiosa mattina di marzo. Oggi si lavora. Ci intrufoliamo in quello che appare un enorme labirinto con scarsa logica nella divisione degli spazi, dove si sono affastellati gli interventi confusi di chi ci ha messo le mani in questi anni. La ditta che ci sta lavorando, grazie a un affidamento diretto, è animata da buoni propositi ma più di tanto non può fare (“Dieci anni fa un lavoro così non l’avrebbe preso nessuno, ma ora con la crisi…”, confessa una persona presente sul cantiere). L’aula destinata ai processi, il cuore del progetto, sembra quasi finita. C’è una stranezza, però. Il pubblico e i cronisti potranno assistere alle udienze da una specie di acquario sopraelevato con un separè di vetro che non renderà agevole capire cosa succede di sotto. Il grande archivio con tetto fatiscente è ancora vuoto, a breve dovrebbe partire la selezione tra le imprese che vorranno arredarlo. Sconvolgente la visione delle celle nella stanza sottoterra. I detenuti in attesa di giudizio saranno ammassati in pochi metri quadri, in una bolgia oscura  dentro gabbie arrugginite dal tempo a cui non basterà una mano di vernice bianca per tornare nuove, se non nell’apparenza. I quadri elettrici sono vecchi, ma ci viene assicurato che funzionano. L’umidità ha aggredito i muri, chissà cosa ne penserà l’Asl che dovrà valutare le condizioni igienico sanitarie. Quelle umane, se dovesse esaminarle la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, costerebbero all’Italia l’ennesima sentenza di condanna. Ai piani alti, ai quali si accede con una scala tortuosa, c’è ancora molto da fare per rendere presentabili le stanze per i giudici. Un signore ci spiega che dovrebbe anche essere costruito un parcheggio con un centinaio (!)  di posti auto, mentre il progetto della strada pedonale per dare un acceso autonomo al bunker è stato eliminato perché non è stata espropriata l’area dove ricavarla. Quindi per entrare non resta che passeggiare tra i campi oppure passare dal carcere.

Serve davvero quest’opera? 

Quando Michael Johnson era l’uomo più veloce del mondo, a Milano si celebravano molti maxi processi, oggi quasi nessuno; gli archivi erano pieni di carta, adesso si cerca di digitalizzare qualsiasi cosa.  L’Italia era un paese ancora florido, con tanti soldi da mettere a disposizione della giustizia. Oggi è  utile finire quest’opera? Sull’archivio a Palazzo c’è chi dice che servirebbe, chi no. Di certo i costi di manutenzione per celle, aula bunker, alloggi per i giudici sarebbero esorbitanti e forse non sostenibili coi pochi denari assicurati alla giustizia. Si potrebbe ripensare alla funzione di questo edificio, utilizzandolo solo come archivio o per attività meno dispendiose. L’inchiesta della Procura di Milano non potrà portare a nulla perché eventuali reati sarebbero già prescritti, resta invece aperta aperta la possibilità per la Corte dei Conti di valutare i danni alla collettività e gli eventuali responsabili. In ogni caso, il giorno che tutto sarà finito qualcuno dovrà scusarsi per questi 19, incredibili anni. (manuela d’alessandro)