giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

“Aiuto, ci tagliano lo stipendio”, le paure delle toghe sul governo M5S

“Un conto è il taglio degli stipendi pubblici (tutti, però) nell’ottica di un risparmio generalizzato. Tutt’altra cosa è che una forza politica che si presenta come nuova ma che di nuovo, rispetto ai tradizionali populismi del passato, ha solo le forme del suo postmoderno linguaggio propagandistico, individui la magistratura, nell’ambito della pubblica amministrazione, quale unico settore a cui tagliare, peraltro maldestramente, gli stipendi”.

Considerazioni acuminate di uno dei magistrati che partecipa al dibattito più caldo del momento nella mailing list di Anm, quello sul possibile Governo a 5 stelle e sull’attuazione del programma per la giustizia stilato dal Movimento   ”Non raccontiamoci storie – prosegue – in questo caso non c’entra nulla l’Unione Europea, che ormai è diventata solo l’alibi dei fallimenti nazionali e che l’internazionale sovranista e populista, a trazione russa, prende a pretesto per agguantare facilmente il potere e ridisegnare i futuri assetti geo – politici. Si tratta solo di un espediente demagogico che ha facile presa nel ‘popolino’ ignorante e/o superficiale e in certe élite rancorose e disoneste”.

Il tema è, anzitutto, come interpretare il punto del programma sulla retribuzione dei magistrati: “il riconoscimento dell’indennità aggiuntiva avvenga solo per coloro che ricoprono davvero il ruolo corrispondente (ad esempio, l’indennità magistrato di Cassazione valga solo per coloro che lavorano in Cassazione”.  Che vuol dire? Stipendio e indennità sono sinonimi? Ecco qualche ipotesi provenienti da vari partecipanti alla discussione (sono magistrati che lavorano in diverse sedi). Dice uno: “La parola stipendio è molto più chiara…però hanno usato la parola indennità…non sopravvalutiamoli…purtroppo semplicemente non sanno”. E un altro: “E’ ovvio che intendono stipendio, ma dovendolo spiegare al diciottenne e al disoccupato poco scolarizzato, hanno utilizzato il loro tipico linguaggio social – media popolare, con categorie retributive comprensibili, come indennità”. E un terzo, più tecnico: “Il timore è che la cosa potrebbe essere intesa nel senso che lo stipendio previsto un anno dopo la terza sia dato solo a chi svolge funzioni di appello, quello della quinta solo a chi sta in Cassazione e via così. (il riferimento è alle valutazioni periodiche che danno luogo all’aumento di grado e stipendio, ndr). Ovviamente è tutta una follia, ma viste le premesse…”.

Un altro, netto: “La buona notizia è che non esiste già alcuna indennità aggiuntiva…la cattiva è che evidentemente non sanno nulla di ciò di cui parlano”.  Un’altra gli risponde: “Nel programma ci sono anche proposte di tagli dei nostri stipendi, non più progressione per anzianità, ma per le funzioni effettivamente svolte”.  Non tutti hanno paura di un eventuale esecutivo guidato da Luigi Di Maio. E anzi ci vanno giù pesante coi colleghi: “Certi privilegi vanno meritati, oppure sono sentiti come ingiusti. Per il nuovo che avanza siamo solo parte della razza padrona. Ed effettivamente, ormai tutti avvoltolati nelle nostre questioni impiegatizie, di carriera, di rancori che non si riesce a sopire, di miserabili ambizioni, come certe volte appariamo, anche nei dibattiti in questa lista, incapaci di andare oltre la nostra pancia, possiamo facilmente essere scambiati come tali”. E un altro, riferendosi al sorteggio per la composizione del Csm pure ipotizzato nel programma, scrive: “C’è una parolina che terrorizza centinaia e centinaia di magistrati…Sarà questo che comincia a preoccupare alcuni nostri rappresentanti associativi e correntizi?”. (manuela d’alessandro)

Perché la separazione delle carriere non è il rimedio al male

 

E’ di questi giorni la raccolta firme a sostegno dell’iniziativa popolare per la separazione delle carriere della magistratura promossa da UCPI (Unione Camere Penali Italiane) e annunciata nella Gazzetta Ufficiale, serie generale n. 93 del 21 aprile 2017.

Il nucleo centrale risiede nella sostituzione dell’attuale primo comma dell’art. 106 della Costituzione che dovrebbe, nell’intenzione dei proponenti, diventare il seguente: “le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”.

Le ragioni a sostegno dell’iniziativa (che potremmo dire quasi “rivoluzionaria” nel nostro paese) sono plurime, e per la gran parte già note, posto che trattasi di problematica di cui si discute ampiamente da anni e da più parti, ma sostanzialmente si condensano nella volontà di meglio garantire la necessaria “terzietà” del giudicante rispetto ad una delle due parti in contesa, in coerenza con quel “modello accusatorio” che fu il principio ispiratore del codice di rito del 1989.

“Giocheresti una partita arbitrata dal fratello del tuo avversario?” si legge sul sito web del comitato promotore (separazionecarriere.it.) per evidenziare, con efficace slogan, quello che viene ritenuto essere il vizio capitale dell’attuale ordinamento giudiziario: il comune concorso di provenienza.

Da un lato perché chi proviene da una stessa selezione non potrebbe in futuro conservare giusta equidistanza da chi verrebbe comunque visto come un ex “compagno di scuola” e dall’altro perché quella comune legittimazione concorsuale consente successivi passaggi di funzione ulteriormente rafforzanti lo spirito di “colleganza” tra giudicanti e requirenti.

Ne deriva che eliminando quel vizio originario il giudizio penale riacquisterebbe, secondo i promotori, la sua giusta natura di leale confronto tra due parti in perfetta par condicio di fronte al Giudice.

Le motivazioni sono certamente più che lodevoli, ma personalmente non ritengo efficace il rimedio proposto, e non tanto per ragioni “culturali” o “politiche”, ma per un motivo ben più pratico, che cercherò di spiegare.

Se il punto dolens, e su questo siamo ovviamente tutti d’accordo che lo sia, è che a noi difensori capiti talvolta di incappare in giudici palesemente sbilanciati verso la pubblica accusa, la ragione dipende esclusivamente dalla persona di quel giudice che ha evidentemente sbagliato mestiere.

Chi sceglie di esercitare una funzione così delicata, che incide direttamente sulla vita delle persone, deve infatti avere molto chiaro che il suo lavoro consisterà unicamente nel valutare in assoluta oggettività lo spessore delle prove raccolte dalle parti in contesa, e senza il benché minimo condizionamento aliunde, qualunque esso sia.

Un giudice che invece pronuncia una sentenza “in nome del popolo italiano” (evidentemente formato anche da soggetti diversi dai suoi “compagnucci di concorso”) tenendo anche conto della diversità d’ufficio di una delle due parti, è un pessimo magistrato per tara genetica e resterà un pessimo giudice vita natural durante.

Chi nasce pessimo giudice non migliora in forza di legge, né l’imparzialità di giudizio può essere garantita a colpi di commi.

Nella mia professione ho incontrato, come tutti, pessimi giudici e ottimi PM, e come non ho mai pensato che un pessimo PM potesse trasformarsi in futuro in ottimo giudice, altrettanto vale per quei pessimi giudici che non sarà certo un diverso concorso a trasformarl in bravi magistrati.

So bene che mi si obietterà che la riforma di un sistema prescinde dalle singole individualità, e che in ogni caso “il meglio è nemico del bene”, ma proprio perché il tema della terzietà del giudice è fondamentale, temo le soluzioni foglia di fico un po’ ipocrita.

“Avete voluto la separazione delle carriere ? Allora non lamentatevi più” e i pessimi giudici e le pessime sentenze avranno pure l’avallo di una imparzialità per…legge.

avvocato Davide Steccanella

Da avvocato dico che non era il momento di sventolare la toga

Non era quello il momento di ostentare la propria toga.
Mi dispiace dovere intervenire su un fatto tragico come quello vissuto da molti di noi nel Tribunale di Milano quella drammatica mattina del 9 aprile, solo un doloroso e rispettoso silenzio infatti avrebbe dovuto essere a parer mio garantito all’immenso dolore privato di chi è stato direttamente coinvolto nei suoi affetti più cari da una catastrofe così “assurda”.
Ma quanto mi è toccato di sentire e di leggere “dopo” da parte di alcuni, anche autorevoli, rappresentanti di categoria (termine orrendo), siano stati magistrati oppure “colleghi” mi ha creato non poco disagio, perché bene o male in quel Tribunale ci lavoro anche io da anni, e dentro a quel Tribunale ci lavorano molti miei amici, magistrati e “colleghi”.
Non mi importa per niente stabilire oggi “chi dei due abbia cominciato prima”, chi sostenendo che quell’efferata strage sarebbe stata figlia di un “clima ostile” e chi vantando invece la nobiltà della propria professione, magari evocando, entrambi, antiche figure di una storia passata dove inconcepibilmente assimilare, a seconda del dichiarante, storie tra loro così diverse come quelle del giudice Alessandrini o dell’avvocato Ambrosoli.
L’impressione per chi leggeva e sentiva, o almeno così è stato per me, è stata quella di veder trasformare una tragedia ancora “a caldo” (ammesso che in un caso del genere ci possa mai essere un “a freddo”) in una pubblica rivendica di ruolo, se non addirittura di “eroismi” di categoria.
Quanto sono soli e incompresi i magistrati e quanto sono nobili e fondamentali gli avvocati ed ecco perché rischiano la vita tutti i giorni in Tribunali privi di difesa, insomma, un morto per uno e pari e patta di pubblico memento sulle opposte ribalte del lutto e pace fatta, dopo gli inziali attriti, tra le due fazioni.
Il dizionario suggerirebbe per tutto questo il verbo “strumentalizzare”, io non mi permetto di volere leggere cosa passava nella testa di chi subito dopo esternò. Forse la violenta emozione  per un fatto di tale eccezionalità ha giocato qualche brutto tiro a chi è stato indotto a dovere per forza dire a tutti i costi qualcosa di significativo, ma sta di fatto che come avvocato mi sono sentito un po’ in imbarazzo verso tutti quelli che pure lavorano ogni giorno in altre arti e mestieri. Poteva accadere ovunque e a chiunque.
Una moglie straziata piangeva appena fuori dal Palazzo il marito freddato a pochi mesi dalla pensione ed il giorno dopo una madre dentro quel palazzo il proprio giovane figlio ad una pubblica commemorazione sentita e commossa di centinaia di partecipanti silenti e attoniti.
Sono morte due persone, anzi per la verità tre, vi sono stati anche feriti, e una ulteriore famiglia, quella del “killer” (come si legge sui media), sta vivendo il peggiore degli incubi.
Non era quello, a mio parere, il momento migliore per ostentare al mondo la propria toga, ma in Italia, si sa, le morti, soprattutto quando sono eclatanti, raramente inducono i più a commenti all’altezza della tragicità dell’evento.
Davide Steccanella

Da giudice vi spiego perché la riforma Renzi non è una catastrofe

Le proteste e le mobilitazioni, si è parlato addirittura di uno sciopero, dell’Associazione Nazionale Magistrati e delle sue correnti dopo le leggi sulla riduzione delle ferie e sulla responsabilità civile dei giudici devono essere comprese nel loro reale significato. La posta in gioco non è qualche giorno in più o in meno di ferie estive e non è nemmeno il timore di essere trascinati in un giudizio di risarcimento dai propri ex imputati.

Lo scontro è essenzialmente simbolico, una prova nei rapporti di forza tra poteri. La magistratura, con lo spazio che si è conquistata nella vita del Paese, grazie ai demeriti altrui (del ceto politico – amministrativo in particolare), ai propri meriti e anche a dispetto di suoi torti non marginali, non intende essere declassata da “Potere giudiziario” a semplice “Ordine giudiziario”, come peraltro scritto con qualche ambiguità nell’articolo 104 della Costituzione. Dalla posizione conquistata, in sostanza, non intende rinunciare ad una sorta di “privilegio” non scritto di farsi da sé le norme che regolano la sua attività, tramite il Csm soprattutto, facendole al posto del Parlamento che dovrebbe promulgare solo quelle che la magistratura stessa approva. E tantomeno intende subire un declassamento dal Governo che è seguito ai governi di centrodestra che la magistratura stessa con le sue indagini ha obiettivamente tanto contribuito a far scomparire. Continua a leggere

Tao Scatenato fa tutto da solo
Falsifica un legittimo impedimento e si smaschera
Dieci mesi, per lui neanche le generiche

Un po’ pasticcione, ma l’audacia non gli manca mai. Per questo è il numero uno. Da avvocato o da imputato, poco cambia, Carlo Taormina mena sempre colpi micidiali. Qualche volta per se stesso. E’ Tao Scatenato.

Vi avevamo raccontato qui della sua recente condanna a dieci mesi. Tutto per un legittimo impedimento non esattamente legittimo, corredato da un piccolo falso. La storia è ancora meglio di quanto credessimo. Perché leggendo le motivazioni della sentenza, si scopre che il Taormina ha combinato tutto da solo: tenta un trucchetto, si accanisce contro un giudice e si smaschera da solo. E così rimedia la condanna.

L’8 maggio 2009 invia un fax al Gup di Milano Giorgio Barbuto con un’istanza di legittimo impedimento. Chiede il rinvio dell’udienza del 15 maggio, in cui sarà imputato per diffamazione ai danni dell’ex procuratore di Aosta Maria Del Savio (le loro strade si erano incrociate nell’inchiesta sul delitto di Cogne). Avvisa che gli sarà impossibile essere in udienza dovendo quello stesso giorno difendere, come unico difensore, un imputato per droga in Sardegna. E allega la citazione della Corte d’Appello di Cagliari.
Il 13 maggio Taormina “trasmetteva segnalazione al Presidente del Tribunale di Milano e al Presidente dell’Ufficio Gip nella quale evidenziava che il suo difensore – nel corso di un colloquio del 12 maggio – aveva percepito che il magistrato, che si era riservato di decidere in udienza, avrebbe potuto non ritenere valido l’impedimento addotto”. Il Tao-legale-imputato lamentava, si legge nelle motivazioni, “la particolare attenzione al processo che lo riguardava da parte del Gip e una ‘solerzia’ così accentuata da parte del magistrato che se avesse riguardato tutti i processi di Milano avrebbe consentito ‘l’eliminazione di ogni più pesante arretrato’”. Insomma Taormina calca la mano sul povero Gip Barbuto. Passa all’attacco: “l’atteggiamento del dott. Barbuto si configurerebbe in caso di celebrazione dell’udienza, illegittimo e inopportuno in quanto per un verso pregiudizievole per l’esercizio del diritto di difesa e per un altro non adeguato alla trattazione di una constroversia penale di non eccessivo rilievo, se non fosse che controparte del sottoscritto siano due magistrati”. Altra bordata. (Saggio è chi evita di attaccare un giudice per la sua solerzia nel celebrare un processo con altri magistrati in veste di parte civile). Ai due presidenti, allega di nuovo la citazione. Solo che questa volta compare un nome che invece non compariva in quella spedita al giudice Barbuto. Compare un codifensore di Taormina nel processo sardo. Mannaggia. E che è successo? Per il Tribunale di Milano, è successo che dell’originale era stata fatta una prima fotocopia oscurando il nome del codifensore. Mentre ai due presidenti era arrivato per fax l’originale. Fatto il confronto, svelato l’inganno. Continua a leggere