giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La notte che tutti erano liberi al carcere di Opera

Una serata di “Rinascimento”, così la introduce Angelo Aparo, lo psicologo che da anni porta i detenuti a parlare coi ragazzi nelle scuole. E sembra proprio immaginarla maiuscola la ‘R’ di rinascimento perché c’è una cattedrale di bellezza che fiorisce in questa notte speciale al carcere di Opera dove si trovano assieme magistrati, carcerati, vittime e giornalisti, ispirati dal documentario ‘Lo Strappo – quattro chiacchiere sul crimine’.

Assieme davvero: nessuno parla per sé ma il dialogo è continuo, un filo che tutti tessono tra le mani, che a volte brucia ma non si spezza per un secondo. Tutti in cerchio, attorno allo stesso fuoco. Come Adriano Sannino, che sta scontando la pena, e l’ex procuratore antimafia, Franco Roberti. Si erano sfiorati, anni fa. “Dopo avere sentito le lettere della vittime, mi sento piccolino vicino a questo dolore così  forte. In passato ho usato tante ‘maschere’ in carcere, ora per me è un onore stare a fianco del dottor Roberti, che conosce  quei processi in cui ero coinvolto. Io vengo da Poggioreale, sono campano, come lui. Ero dall’altra parte della giustizia, ero lì per distruggere la società. Chiedo scusa alle vittime in sala perché ho ucciso. Ma ho incontrato delle persone che mi hanno preso per mano e mi hanno fatto innamorare della vita. Grazie al direttore Giacinto Siciliano (ora a San Vittore, ndr), al ‘Gruppo della trasgressione’ di Aparo, a chi lavora in carcere”.

O come Alessandro Crisafulli, 45 anni, in carcere da 24, ergastolano. Lui ha in testa un ponte. “Siete voi, familiari, i coraggiosi, voi siete la parte che ha subito, sono io che devo fare degli sforzi per venirvi incontro. Sono un ex assassino, non ci sono parole ma io devo trovare qualcosa da dire se vogliamo costruire questo ponte a cui tutti ambiamo. Se oggi potessi incontrare il ragazzo che uccideva, 25 anni fa, più che parlargli, ascolterei i silenzi che gravavano su di lui che viveva in una famiglia silenziosa dove non era riconosciuto in alcun modo”.

Non è una strada dritta, quella dei detenuti che provano a essere liberi in una prigione. Chiede un giovane recluso dal pubblico: “Perché alcuni del ‘Gruppo della trasgressione’ quando escono in permesso commettono ancora reati?”. “E’ difficile dirlo. Io quando esco – ragiona Crisafulli – mi dico: come posso tradire chi mi ha preso in una discarica e mi ha messo su una strada? Come posso tradire ancora quel ragazzo che ero?”.

Non era nemmeno un ragazzo l’avvocato Umberto Ambrosoli quando suo padre Giorgio venne assassinato l’11 luglio del 1979.  Alla domanda dal pubblico su cosa si aspettino i familiari delle vittime dalla giustizia, rianima un episodio che ammutolisce: “Uno dei tre condannati per l’omicidio di mio padre  ripresentò,  5 anni dopo una prima richiesta respinta, una domanda di grazia. Venni chiamato dai carabinieri, com’era già successo la prima volta, che mi consegnarono un modulo per esprimere il mio eventuale consenso.  In quei giorni, mi arrivò la mail della figlia che diceva che il padre era un uomo ormai molto anziano, aveva sbagliato tutto nella vita ma aveva il diritto a morire vicino ai suoi figli.  Rimasi pietrificato, non avevo mai pensato che quell’uomo potesse avere un figlio. Degli altri due conoscevo alcuni dettagli della famiglia, ma non mi ero mai posto domande sul terzo. Mi sono sentito in colpa perché avevo perso un’occasione di curiosità per fare un percorso. Qualche settimana dopo quell’uomo è morto senza che si completasse l’iter processuale”.

Mario, ergastolano, pone un’altra domanda che farebbe paura in ogni luogo, ma non qui, stasera. “Dopo tanti anni coi compagni del Gruppo, ci siamo guardati dentro e oggi ho preso coscienza della mia colpa. Spero di poter restituire qualcosa di significativo del mio cambiamento, anche se sembra un’offesa dirlo davanti alle vittime. Ce la stiamo mettendo tutta, anche coi ragazzi delle scuole (alcuni sono in sala, ndr). La mia domanda è: cosa faccio della mia colpevolezza?”. Manuela Massenz, magistrato di Monza, risponde col coraggio che merita una domanda così:”Prendendo per mano quei ragazzi, come poteva essere Alessandro 25 anni fa, in un certo modo restituite quello che avete tolto”. Se non si dovesse chiudere per motivi di ‘palinsesto’, la sensazione è che si potrebbe andare avanti fino all’alba. C’è tempo anche per l’ammissione dei giornalisti, Paolo Colonnello e Max Rigano, che lo ‘strappo’ per i media, disinteressati alle carceri, non c’è ancora stato. Tocca al direttore Silvio Di Gregorio, che ha raccolto l’eredità preziosa di Siciliano, mandare tutti a dormire: chi fuori, chi dentro. Non prima di avere ringraziato gli straordinari della polizia penitenziaria “che sta lavorando per l’occasione dalle 8 di stamattina”. Una cattedrale ha bisogno di tutti per diventare alta e bella. (manuela d’alessandro)

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Il video della serata a Opera girato da Radio Radicale

 

Mafia, a Opera i detenuti leggono i nomi delle vittime e incontrano i familiari

C’è il silenzio denso e la ritualità assorta delle cerimonie mistiche. Stanno in coda, stringendo il foglio con la lista. Uno a uno, chi con voce tenue, chi spavalda, si avvicinano al leggio in ferro e pronunciano con cura i nomi, ripetendoli quando inciampano nel pronunciarli.

Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia.   Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria.

“Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce.  Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.

L’idea era nata a settembre durante uno scambio tra la mamma di una ragazza uccisa e dei carcerati nell’ambito delle attività del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano e del Gruppo della Trasgressione.

Quello che provano adesso lo raccontano loro, col viso rivolto ai parenti delle vittime accanto ai quali occupano le dieci poltrone bianche sul palco, vuote durante la lettura.

“Mentre leggevo i nomi, mi sono venute in mente le persone che ho ucciso io. Mi è venuta in mente la prima volta che ho ucciso un uomo e la soddisfazione che ho sentito. Quell’uomo si chiamava Roberto. Fino a che sono entrato in carcere, non mi ricordavo come fosse fatto, poi, dopo il lungo lavoro che ho fatto qui dentro, ho cominciato a mettere a fuoco lui, i suoi figli. In quel momento è cominciata la sofferenza ma anche la purificazione. Il nostro dolore è diverso dal vostro che, come vittime, dimostrate una grande apertura dialogando con noi. Cosa possiamo fare per riparare? Noi del Gruppo della Trasgressione ci stiamo relazionando coi ragazzi in bilico che incontriamo nelle scuole. Questo è il nostro modo per dire che siamo vivi, per dare un senso al nostro passato. Il vostro coraggio è un modo per darci forza”.

“La voce mi tremava, mi sono sentito piccolo piccolo davanti a voi. Quando dall’altra parte c’è chi, come voi, non guarda il reato ma la persona, si avverte una grande forza dentro. La parola perdono è una parola grande, però il dialogo mi fa vivere”. Continua a leggere

Quando chiudiamo gli occhi ‘la mafia siamo noi’

Dov’è la mafia? La mafia è qui, basta allungare una mano e palparne la consistenza oscena nella pagine del libro del cronista giudiziario milanese di ‘Repubblica’ Sandro De Riccardis. Se volete toccare la potenziale Cosa Vostra, annusarla e valutare se ce l’avete addosso anche voi o chi vi sta accanto o i vostri eroi, questo è il libro giusto.

- Sandro, perché la mafia siamo noi?

- La mafia non è un corpo a sé stante, separato dalla società, non c’è il nero o il bianco di due mondi distinti. Qui parliamo soprattutto del comportamento di quella che si considera la parte sana e che invece non lo è per indifferenza o per connivenza.

- Ha qualcosa a che fare anche coi ‘professionisti dell’antimafia’ di Sciascia?

- Diciamo che quello che teorizzava Sciascia nel 1987 ha valore oggi, ma non all’epoca in cui lo scrisse. In quel momento lui colpì le persone sbagliate, come Falcone. Oggi invece esiste davvero un’antimafia fatta di parole vuote a cui non corrisponde un concreto impegno sul territorio e per la legalità.

- Addirittura, tu scrivi, c’è un’antimafia che piace alla mafia…

-Si, e gli esempi che faccio sono tanti a cominciare da Bernardo Provenzano che da’ il via libera dalla latitanza all’ex presidente del consiglio comunale di Villabate per costituire un’associazione antimafia che poi organizzò una bella manifestazione contro Cosa Nostra con tanto di premio all’attore Raul Bova, interprete della fiction ‘Ultimo’.

- E poi ci sono i tanti, presunti paladini dell’antimafia.

-Una per tutti,  Rosy Canale,  icona molto attiva dell’antimafia calabrese che girava l’Italia con uno spettacolo teatrale in cui raccontava la sua storia di imprenditrice minacciata dai clan e costretta a chiudere il suo locale. Fonda il ‘Movimento delle donne di San Luca’ e promuove il progetto di una ludoteca nella terra delle faide. Ma una mattina l’arrestano per truffa e peculato perché, risulta dalle intercettazioni, usa i finanziamenti ottenuti con quella che lei stessa definisce “la favolata della legalità” per spese personali: mobili, auto, settimana bianca.

- Come facciamo nella vita quotidiana ad accorgerci se la mafia è anche Cosa Nostra?

- A Milano la mafia si declina soprattutto nel riciclaggio. Possiamo farci della domande su locali nati dal nulla e che sono quasi sempre vuoti.  Spesso alle spalle non hanno degli imprenditori ma dei prestanome che li utilizzano per ‘lavare’ i capitali sporchi.  Leggiamo i giornali, procuriamoci carte giudiziarie o documenti della Prefettura quando c’è un’inchiesta che riguarda il nostro territorio. Non è sempre facile, certo. Pensiamo al circolo ‘Falcone – Borsellino’ di Paderno Dugnano dove si svolgevano le riunioni dei boss in Lombardia. Era gestito dall’Arci, che non si accorse di nulla. Una storia esemplare che racconto è poi quella dei liceali di ‘Cortocircuito’ che, grazie a una semplice visura camerale, si sono accorti di organizzare la festa di fine anno scolastico in un locale legato alla criminalità. E poi si deve fare rete con chi denuncia. In Lombardia un solo imprenditore ha avuto il coraggio di farlo. Un uomo solo, come lo fu all’inizio Libero Grassi a Palermo.

- La parte più intensa del tuo libro è quella dove parli della giustizia riparativa. Perché hai inserito questo capitolo tra tante storie di denuncia?

- Molte vittime hanno l’esigenza di non restare chiuse nel dolore e di dare un senso alla perdita del loro caro. E incontrano chi ha fatto i conti col proprio passato e ha deciso di mettersi accanto a chi vuole sconfiggere i clan. Non stiamo parlando dei pentiti e del pentitismo che è un fenomeno utilitaristico. Ci sono tante storie di chi ha già scontato la pena  e ha voglia di cambiare vita. Penso a Marisa Fiorani che perde la figlia uccisa a colpi di pietra dopo che era finita nella Sacra corona unita. Il suo racconto nel carcere di Opera porta alcuni detenuti ad aprirsi e a parlare di sé. O ai genitori di Michele Fazio che incontrano un ragazzo parte del commando che ha ucciso il figlio dopo che ha finito di scontare la pena. (manuela d’alessandro)

‘La mafia siamo noi’ di Sandro De Riccardis. Add editore, 238 pagg., 15 euro. Presentazione a Milano il 4 marzo alle ore 18 alla libreria ‘Centofiori’.