giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Archiviazione per 45 No Expo (e 80 mila euro di intercettazioni)

Il gip di Milano ha archiviato su richiesta conforme della procura le accuse di devastazione e saccheggio a carico di 45 militanti NoExpo in relazione alla manifestazione del primo maggio del 2015. Il costo delle intercettazioni durate  fino a maggio del 2017 ammonta a 79.294 euro e 8 centesimi. La somma di denaro sicuramente non ingentissima ma comunque significativa non è stata utile a trovare riscontri all’ipotesi dell’accusa. Il giudice in accordo con la procura ha deciso che il “gesticolare” dei presunti promotori degli incidenti che invitavano i manifestanti ad andare avanti non è sufficiente per supportare in aula l’accusa di aver coordinato le azioni violente quel giorno in cui venne inaugurata l’esposizione universale.

Sulla decisione del giudice può aver pesato il fatto che altri manifestanti già portati a processo più o meno con lo stesso quadro accusatorio erano stati assolti dal reato più grave sia in primo che in secondo grado. Anche se resta da celebrare il processo a 5 manifestanti, tra i quali  4 greci  destinatari della misura cautelare in carcere ma a piede libero ad Atene perché la corte d’appello locale aveva negato l’estradizione spiegando che non esiste la responsabilità penale collettiva ma solo quella personale. Secondo i giudici greci non sarebbero stati indicati elementi specifici a carico degli indagati.

Tra le 45 posizioni archiviate dal gip c’è quella di Pasquale Valitutti figura storica dell’area anarchica, “l’unico manifestante in carrozzella” scrive il giudice. “E’ vero che indossava il casco ma non si trattava di travisamento essendo già identificato dalla carrozzella.

Valitutti la notte tra il 14 e il 15 dicembre del 1969 era nella stanza accanto a quella del commissario Luigi Calabresi da dove volò giù Pino Pinelli, fermato in relazione all’indagine sulla strage di Piazza Fontana. Insomma un pezzo di storia dell’anarchismo che non smette di manifestare facendosi aiutare da una carrozzella.(frank cimini)

La verità, 30 anni dopo: il ‘nuovo’ codice ha fallito

Alla fine del 1989 veniva introdotto in Italia il “nuovo” Codice di Procedura penale che, dopo lunga gestazione e il contributo di alcuni tra i maggiori giuristi del tempo, mandava definitivamente in cantina quello “glorioso” del 1930. Si disse, con certa enfasi, che il “nuovo” processo, costruito secondo il modello accusatorio di matrice anglosassone e non più inquisitorio, vetusto retaggio del vecchio regime, sarebbe stato più “garantista”. Bizzarro neologismo posto che, riferendosi al rispetto delle garanzie di legge dell’imputato, sembrerebbe accreditare l’esistenza di qualcuno che altrettanto legittimamente non lo fa.

Il nuovo processo penale prevedeva alcuni capisaldi destinati, sulla carta, a rivoluzionare quello precedente. Una fase inziale di ricerca della prova da parte dell’accusa dalla durata massima di sei mesi e sotto il rigido controllo dell’Autorità Giudiziaria sulle indagini di Polizia prima di dare accesso alla difesa. Una seconda fase di preventiva verifica, da parte di un Giudice terzo, della effettiva necessità o meno di celebrare un processo sulla base del materiale raccolto da entrambe le parti. Una terza fase di verifica dell’effettiva fondatezza dell’accusa da parte di un Tribunale del tutto ignaro di quanto in precedenza avvenuto, previa l’acquisizione orale delle prove presentate a dibattimento dalle parti in contraddittorio in condizione di assoluta parità.

I due successivi gradi di impugnazione invece non differivano troppo dal rito abrogato, il primo restava una rivalutazione di merito di quanto acquisito in primo grado ed il secondo un controllo di legittimità sulla sentenza ricorsa. A latere del “modello” base furono introdotte alcune significative “novità”, le tre principali erano: 1) la previsione di riti alternativi “snellenti” che introducevano incentivi in punto di pena (ma non solo) per l’imputato che rinunciava al pubblico dibattimento, 2) la rivisitazione del regime cautelare previgente per circoscrivere allo stretto necessario la limitazione della libertà di un cittadino non ancora condannato e 3) l’abolizione della vecchia formula assolutoria per “insufficienza di prove” secondo il principio che la responsabilità penale dell’imputato deve essere provata dall’accusa “al di là di ogni ragionevole dubbio” dovendo lo stesso, in caso contrario, essere assolto. La “ratio” alla base della scelta del legislatore era quella di ridurre il numero dei processi penali ai soli casi veramente meritevoli di un compiuto accertamento dibattimentale e non solo per velocizzare i tempi della giustizia ma anche per non sottoporre a lunghi, costosi e logoranti processi cittadini che magari dopo anni di sofferenze risultavano innocenti.

A distanza di quasi 30 anni possiamo dire che di quell’idea inziale è rimasto ben poco. Le indagini “segrete” del PM si protraggono ben oltre il limite di legge, essendosi nel tempo trasformata, la prevista facoltà di chiedere al Giudice una proroga, da eccezione a regola, e l’abuso della “delega di PG” da parte dei PM ha fatto sì che le indagini si risolvano molto spesso in accertamenti di Polizia Giudiziaria cui il PM mette solo il proprio finale avallo. Nei procedimenti costruiti per lo più sull’esito di intercettazioni, di cui viene fatto largo uso e per un numero sempre maggiore di reati, l’iniziale brogliaccio di PG che ricostruisce il contenuto di mesi di ascolto finisce con l’essere il fulcro del “file” sul quale viene formulata dal PM la richiesta di provvedimenti cautelari al GIP che a sua volta li trafonde nell’Ordinanza applicativa che molto spesso diventa a sua volta il tessuto motivazionale di una Sentenza in sede di Giudizio abbreviato di altro GIP poi confermata dalla Corte d’Appello e ratificata dalla Corte di Cassazione. Continua a leggere

L’omicidio del codice di procedura penale che ‘compie’ 25 anni

Sono passati più di 25 anni dalla introduzione in Italia di quel “nuovo” codice di procedura che nel finale del 1989 avrebbe dovuto, si disse, eliminare il vigente “rito inquisitorio” a favore del più anglosassone “rito accusatorio”. In questi anni la gran parte dei principi cardine che avevano ispirato quella trasformazione procedurale sono morti e sepolti con il risultato che l’odierno processo penale risulta meno garantista, per usare un termine tanto abusato quanto osceno, di quello dei nostri padri, rivelandosi soprattutto per l’imputato innocente una trappola esiziale.

Si volle separare la prima fase segreta delle indagini, monopolio della accusa, da quella successiva dell’accertamento in contesa paritaria davanti al Giudice “terzo” ed estraneo alla prima fase, ma il dibattimento si è da anni trasformato nel luogo ove l’accusa fa direttamente confluire, e senza passare dal via, gli esiti della prima fase e se dimentica di farlo, provvede direttamente il Giudice “terzo” ricorrendo a quei poteri di integrazione istruttoria che, previsti come straordinari, sono diventati la regola sulla base del principio dell’accertamento della verità.

Il ricorso alle intercettazioni, previsto come eccezionale ha finito con il costituire l’ossatura portante di gran parte delle indagini a prescindere dalla tipologia di reato perseguita e la prematura, quando smodata, divulgazione sui media sede primaria dei popolari giudizi al punto che si invocano resistenze al bavaglio anche per quelle che di penale rilevanza non avrebbero un bel nulla. Alcuni processi di criminalità organizzata finiscono direttamente in Cassazione con sentenze motivate sul “copia e incolla” dell’originario “file” delle intercettazioni della Polizia giudiziaria che le trascrive per il Pm che sulla base di quelle chiede al GIP la misura cautelare che sulla base di quelle la applica e che diventano in sede di giudizio abbreviato assunto motivazionale di colpevolezza, confermato dalla Corte d Appello ed insindacabile in sede di legittimità.

Si volle limitare il ricorso alla carcerazione preventiva ma l’applicazione giurisprudenziale fece diventare anche il mero silenzio dell’incolpato duplice segnale di inquinamento probatorio e di pervicacia delinquenziale, sul presupposto che chi non recide il legame con il malaffare rendendosi inaffidabile delatore rimane “intraneo” allo stesso ed introducendo persino quel “giudicato cautelare” dei pure previsti controlli incidentali, che, in assenza di impossibili attivazioni da parte di chi si trova recluso, impedirebbe al Giudice della carcerazione ogni futura rivalutazione fino a scadenza massima.

Quanto ai tanti riti alternativi al processo oggi abbiamo un giudizio abbreviato che, nato per invogliare l’incolpato con uno sconto di pena ad accettare un esito sulla base delle sole carte del PM, da un lato commina ergastoli in una unica udienza monocratica a porte chiuse con la stessa legittimazione di una Corte d’Assise impegnata in un lungo processo dibattimentale, e dall’altro legittima, come nel caso Garlasco, supplementi istruttori persino alla Corte di Appello bis nei confronti di chi è già stato più volte assolto. Il giudizio immediato, nato per consentire al PM di saltare la udienza filtro in caso di evidenze probatorie raccolte nei primi 3 mesi di indagine, viene oggi utilizzato da un lato per processare l’imputato in manette saltando i previsti termini di fase oppure per processare, caso Ruby, un colpevole così poco “evidente” da risultare poi assolto, mentre il patteggiamento, nato per definire con sanzioni non esecutive una rinuncia al processo, oggi costituisce marchio di accertata colpevolezza ed “allargato” titolo per rapide detenzioni definitive di entità tutt’altro che modesta. La stessa udienza preliminare, nata per essere un giudizio sulla indagine, oltre a rivelarsi del tutto inutile, è oggi la sede dove spesse volte il PM integra le proprie prove oltre la scadenza prorogabile, ragion per cui trova la sua essenza solo come momento primo e finale per definire alternativamente la vicenda. Continua a leggere

Da giudice vi spiego perché la riforma Renzi non è una catastrofe

Le proteste e le mobilitazioni, si è parlato addirittura di uno sciopero, dell’Associazione Nazionale Magistrati e delle sue correnti dopo le leggi sulla riduzione delle ferie e sulla responsabilità civile dei giudici devono essere comprese nel loro reale significato. La posta in gioco non è qualche giorno in più o in meno di ferie estive e non è nemmeno il timore di essere trascinati in un giudizio di risarcimento dai propri ex imputati.

Lo scontro è essenzialmente simbolico, una prova nei rapporti di forza tra poteri. La magistratura, con lo spazio che si è conquistata nella vita del Paese, grazie ai demeriti altrui (del ceto politico – amministrativo in particolare), ai propri meriti e anche a dispetto di suoi torti non marginali, non intende essere declassata da “Potere giudiziario” a semplice “Ordine giudiziario”, come peraltro scritto con qualche ambiguità nell’articolo 104 della Costituzione. Dalla posizione conquistata, in sostanza, non intende rinunciare ad una sorta di “privilegio” non scritto di farsi da sé le norme che regolano la sua attività, tramite il Csm soprattutto, facendole al posto del Parlamento che dovrebbe promulgare solo quelle che la magistratura stessa approva. E tantomeno intende subire un declassamento dal Governo che è seguito ai governi di centrodestra che la magistratura stessa con le sue indagini ha obiettivamente tanto contribuito a far scomparire. Continua a leggere