Nel lontano 12 agosto del 1982, vigente ancora il vecchio codice di procedura penale, venne approvata una legge importante per ovviare alle molte carcerazioni preventive che in quegli anni emergenziali venivano disposte sia dai pm che dai Giudici istruttori, perché ai tempi era una facoltà (e talvolta persino un obbligo) di entrambi.
La legge n. 532 istituì quindi un apposito organo speciale del Tribunale composto da tre magistrati diversi da quello che aveva disposto la carcerazione preventiva, appositamente deputati al controllo dell’arresto di un imputato in corso di indagini e non ancora dichiarato colpevole da nessuna sentenza di merito.
In ragione del preciso obiettivo per il quale era stato istituito, detto organo venne chiamato Tribunale della libertà, anche se sin dall’origine la sua competenza era stata estesa anche ai provvedimenti di sequestro di cose, e non solo a quelli relativi alla libertà personale.
Con la successiva introduzione del nuovo codice di rito del 1989, l’istituto venne mantenuto anche se, con il tempo, all’originaria denominazione di Tribunale della libertà si preferì attribuirgli quella più neutra di Tribunale del riesame, anche sulla scorta del testo della norma di cui all’art. 309 Cpp che parla appunto di “riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva”.
Ma quello che ha profondamente modificato nel corso degli anni il significato originario di quell’importante riforma non è certo stato il cambio del nome, bensì l’evoluzione, che a mio parere sarebbe più corretto definire involuzione, che detto istituto ha subito, a causa di una prassi giurisprudenziale che, sempre a mio parere, ha non di poco stravolto quei principi cui si era ispirato il legislatore del 1982.
Tanto che, parlo per esperienza personale (ma credo di interpretare quella più corrente tra i miei colleghi penalisti), ormai si preferisce evitare il ricorso a detto istituto per evitare che la futura posizione processuale del proprio assistito subisca effetti pregiudizievoli.
Elenco le tre ragioni principali che hanno condotto me (ed altri) a una siffatta conclusione, e che sono il risultato di una ormai inamovibile prassi sedimentatasi nel corso degli anni, forse anche al fine di disincentivare un ricorso pretestuoso a detto rimedio che, prevedendo termini di scadenza molto brevi, nonché una competenza territoriale estesa all’intero distretto di Corte di Appello (si pensi che il TDR di Milano ha competenza su Como, Monza e Varese), avrebbe potuto “intasare” il lavoro dei magistrati appositamente preposti.
La prima “innovazione” giurisprudenziale, prontamente avallata dalla Suprema Corte di Cassazione, è stata quella dell’invenzione del cosiddetto “giudicato cautelare”, un singolare principio in materia di privazione “cautelare” della libertà, e che dovrebbe essere, per definizione, soggetta a diuturna rivalutazione fino a sentenza definitiva, che fa si che in caso di rigetto dell’originaria domanda di riesame, il detenuto debba rimanere in carcere fino al termine massimo di durata della misura, salvo che non emergano “fatti nuovi”.
Fatti nuovi che ben difficilmente dall’interno di una cella il detenuto è posto nelle condizioni di reperire, o che ancora più spesso non sono reperibili neppure volendo e potendo, perché, in caso tanto per dire di contestazione sulla qualificazione giuridica e non sul fatto, non ci possono essere “fatti nuovi” se non il futuro esito del processo.
E’ evidente che di fronte a quel rischio, molto “concreto” vista la tendenza alquanto restrittiva dell’odierno Tribunale del riesame, che, non lo si dimentichi, è spesso “investito” da Ordinanze corpose e complesse, per completare le quali un GIP magari ha impiegato dei mesi, sia preferibile evitare il passaggio da quelle “forche caudine”, affidandocisi al tentativo di lentamente convincere il proprio giudice preliminare di un successivo affievolimento della misura originariamente disposta.
E quindi si rinuncia a quel previsto immediato controllo da parte di tre giudici “terzi” sull’arresto preventivo disposto da un GIP in assenza di contraddittorio e sulla sola base della richiesta del PM.
La seconda, e non meno rilevante interpretazione giurisprudenziale, è stata quella di far sempre premettere alle motivazioni di rigetto un’accurata disamina degli indizi a carico del reo fino a redigere una vera e propria sentenza di condanna anticipata, anche quando oggetto di devoluzione (che in materia di impugnazioni dovrebbe costituire un principio cardine del nostro rito) era esclusivamente la sussistenza o meno delle esigenze cautelari che giustificavano l’arresto provvisorio di un gravemente indiziato di reato, e non già la congruità provvisoria del quadro indiziario.
E questo, persino in quei casi in cui ad essere devoluta è solo l’intervenuta attenuazione di quelle esigenze al fine di una sostituzione della misura in atti in altra meno gravosa e pure prevista dall’Ordinamento, perché, tanto per fare un esempio, nel frattempo è intervenuto l’interrogatorio di garanzia avanti al GIP in cui l’indagato ha risposto.
Anche qui è evidente che di fronte al rischio concreto di vedersi costruire una sentenza anticipata di condanna, che magari “raddrizza” alcune lacune dell’iniziale provvedimento del GIP, e così inevitabilmente pregiudicare il futuro processo di merito, un legale preferisca nuovamente evitare detto passaggio.
Non si dimentichi che le ordinanze del TDR vengono acquisite al fascicolo del dibattimento prima che inizi la verifica orale delle prove raccolte dal PM, con tanti saluti al giudice di merito “vergine”, che si voleva preservare con la riforma del 1988.
Infine, neppure la tempistica più rapida del TDR può venire ormai incontro alla legittima esigenza del detenuto provvisorio di ottenere un’urgente valutazione del proprio stato coercitivo, perché da qualche anno viene ritenuto rispettato il termine di decisione con il solo deposito del dispositivo, a nulla rilevando i tempi occorrenti per il successivo deposito della motivazione del diniego.
Accade così che il detenuto apprenda che per il TDR è necessario che continui ad attendere il proprio processo in carcere senza conoscerne le ragioni, e che il suo legale non possa chiedere, nei tempi originariamente previsti dalla legge, il controllo di legittimità della Cassazione su quel diniego, Cassazione che, a sua volta, impiega come minimo qualche mese prima di fissare il ricorso, da quando il fascicolo perviene a Roma.
La conclusione finale è che oggi come oggi l’istituto del Tribunale del riesame ha perduto gran parte delle prerogative per il quale era stato istituito quasi quarant’anni fa, anche se l’emergenza di allora non pare molto mutata, visti i numeri sempre molto alti nel nostro Paese di carcerazioni preventive.
Quello che suona un po’ paradossale è che ai tempi non vi era neppure un ufficio apposito con magistrati incaricati solo di detta funzione, ma si ricorreva alla rotazione di quelli dislocati presso le varie sezioni penali del Tribunale che avevano il mese di turno.
Oggi, che anche per venire incontro al sempre più crescente ricorso alla custodia cautelare è stato tutto meglio organizzato, con magistrati di ruolo, uffici, aula speciale, cancelleria ecc, a quello che era stato il glorioso Tribunale della libertà, non ci si va più, o… quasi.
avv. Davide Steccanella