giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Steccanella: perché lascio la difesa di Vallanzasca

 


Visto che ieri è emersa la notizia a seguito dell’articolo sul carlino di Bologna, Ti mando la lettera-segnalazione che il 29 giugno ho inviato al Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano in cui racconto la (pessima) esperienza direttamente sperimentata nel caso in oggetto in questi 4 anni, motivando le ragioni della mia (dolorosa) rinuncia al mandato depositata il giorno stesso (24 giugno) in cui mi è stato notificato l’ennesimo rigetto dopo l’ultima udienza del 23 giugno.

Chiarisco che la Presidente del TDS di Milano (Dr.ssa Di Rosa) gode della mia massima stima, ma quanto accaduto nel caso in oggetto dimostra l’assurdo di un sistema organizzativo che prevedendo un continuo turn over fa si che ogni singolo magistrato che si trova quel giorno in udienza adotti decisioni che quello successivo disattende, risultando quindi incomprensibili e come tali non spiegabili al cliente (o almeno io non ci riseco non capendole io per primo).

Con grande amarezza ho quindi dovuto rinunciare ad un incarico che avevo assolto per oltre 4 anni con il massimo impegno e senza alcun compenso al solo fine di consentire per una persona che aveva trascorso 50 anni in galera (credo sia il record assoluto in Itala) il rispetto della nostra Costituzione che, contrariamente a quanto ritengono i vari Salvini et similia, non prevede che debba “marcire in galera” per un tentato furto di mutande di sei anni fa, neppure se si chiama V.

In sintesi mi sono sentito “preso in giro” anche nella mia (evidentemente ritenuta inutile) funzione oltre che vedere frustrato un faticoso lavoro di anni con operatori del carcere di Bollate, mediatori, cooperative di recupero ecc (tutti, debbo dire, straordinari)

Non ho neppure ritenuto di leggere il provvedimento di rigetto nella sua interezza dopo avere visto scritto che necessita di un percorso graduale un detenuto 70enne che ha trascorso l’intera vita dietro le sbarre e al quale restano non troppi anni di vita. (Avvocato Davide Steccanella)

 

 

 

 

 

 

 

La rivolta dei direttori contro le possibili carceri comandate dalla polizia

E’ in atto, anche se per ora sottotraccia, la rivolta dei direttori delle carceri italiane contro la possibile riforma che  gli toglierebbe molti poteri a vantaggio dei comandanti della polizia penitenziaria nell’amministrazione degli istituti di pena. Anche l’Unione delle Camere Penali e il portavoce del Garante dei detenuti si sono espressi contro la possibile approvazione definitiva, entro il 30 ottobre, di un decreto legislativo del governo in materia di revisione dei ruoli delle forze di polizia che potrebbe mutare in modo radicale i rapporti di potere all’interno delle carceri.

“Depotenziare il nostro ruolo – scrivono oltre cento  dirigenti penitenziari in una missiva a Franco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria – sottraendogli alcune prerogative fondamentali per governare con i necessari equilibrio e terzietà la difficile e complessa realtà penitenziaria significa creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, di contro, lasciarne intravedere i vantaggi; significa minare la governabilità degli istituti, attesa la indefettibile funzione di coordinamento del Direttore rispetto alla coesistenze delle diverse istanze interne al ‘sistema’ carcere (trattamentali, amministrative, contabili) che devono necessariamente interagire con quelle di sicurezza e i cui operatori non possono, ovviamente, riferirsi al Comandante di Reparto quale loro vertice”. Inoltre, secondo i direttori si metteranno a rischio quei “principi di equità e umanità” affidati dal legislatore ai vertici degli istituti, sulla base anche di quanto sancito dalla Costituzione. “Spesso a guidare le carceri sono vicedirettori con una delega. Quello che potrebbe succedere – immagina Alessandra Naldi, ex garante dei detenuti del Comune di Milano – è che queste figure sarebbero subordinate ai comandanti della polizia giudiziaria”

Netta l’avversione espressa in una nota anche dall’Unione delle Camere Penali secondo la quale “affidare al Corpo di Polizia Penitenziaria il potere disciplinare, della valutazione dirigenziale, della partecipazione alle commissioni selettive del personale e ai consigli di disciplina significa far regredire il sistema penitenziario a un’idea del carcere esclusivamente punitiva, annullando la figura del Direttore che possa mediare tra le esigenze trattamentali e quelle si sicurezza”. “Preoccupazione” viene manifestata pure dal portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasia, che sottolinea come ai direttori verrebbe anche tolta “la valutazione di ultima istanza nell’uso delle armi prevista dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario”. “Dare più poteri ai comandanti delle forze di polizia – commenta Eugenio Losco della Camera Penale di Milano – significherebbe  andare ancora di più nella direzione di una eccessiva severità delle carceri”. (manuela d’alessandro)

 

 

Scoppiano le carceri, superata la quota storica di 60mila

I reati sono sempre meno ma nelle carceri si è abbattuta di nuovo la soglia delle 60mila presenze.  Non accadeva dal 2013, quando la sentenza della Corte europea sul caso di Mino Torreggiani condannò l’Italia perché stipava i detenuti  violando il principio della dignità umana e le impose di varare provvedimenti urgenti contro il sovraffollamento. Tanti reclusi piegati sulla loro ombra in cella hanno ottenuto risarcimenti dallo Stato in nome della battaglia vinta da quell’uomo che scontò la pena in due metri quadri.

Ora ci risiamo. Le statistiche mensili del Ministero della Giustizia ci informano che il 30 novembre in gabbia si contavano 60.002 persone contro una capienza regolamentare (9 metri per singolo detenuto) di 50.583. Gli stranieri sono circa un terzo. Un’altra volta negli ultimi tre decenni era stata superata la soglia, e sempre in un momento in cui scoppiavano le prigioni. Era alla vigilia dell’ultimo provvedimento di indulto, nel 2006, che concesse uno scontro di tre anni per i reati commessi entro il maggio di quell’anno. Eppure, spiega Alessandra Naldi, garante per i detenuti del Comune di Milano, “se  si guardano i tassi di criminalità delle singole tipologie di reato, con qualche eccezione come la violenza sessuale che però ora si denuncia di più, sono tutti diminuiti”. E allora la spiegazione non può che essere una: si arresta di più. Anche perché, ipotizza Naldi, “c’è un controllo sul territorio molto più forte determinato anche dagli allarmi sicurezza che però non trovano riscontro nelle statistiche sul numero dei reati. Numeri che è necessario far conoscere all’opinione pubblica perché abbia meno paure”. (manuela d’alessandro)

Sconta 2 volte la stessa pena, per i giudici è anche colpa del detenuto che non si è attivato

Il detenuto ha scontato 208 giorni di carcere in più per un errore della magistratura ma è in parte colpa sua perché “non si è attivato per fare in modo di far pervenire, anche mediante la direzione generale del carcere, un’istanza direttamente all’autorità giudiziaria anche eventualmente chiedendo l’ausilio per la redazione ad altri detenuti di nazionalità italiana con maggiore esperienza e capacità”. Insomma, il marocchino di 28 anni, che aveva scontato due volte la stessa pena per furto e resistenza, avrebbe dovuto travestirsi da avvocato o quantomeno interrogare i compagni di cella, ai quali vengono attribuite conoscenze da lucidi giuristi.

Sorprendono le motivazioni con le quali i giudici della corte d’appello di Milano spiegano che l’indennizzo massimo di 49 mila euro previsto in casi come questo dalla giurisprudenza per ingiusta detenzione “deve essere congruamente ridotto a 25 mila euro per la condotta colposa dell’istante (seppure non connotata dal requisito della gravità, in considerazioni delle sue condizioni personali e culturali)” consistita nel non essersi attivato “per far valere il diritto alla scarcerazione” e anche perché era già detenuto al momento dell’errore giudiziario. I giudici non gli riconoscono  una somma di denaro più consistente anche considerando che il “soggetto è aduso non sporadicamente al regime detentivo” e l’ingiusta detenzione non gli ha causato “particolare pregiudizio di ordine patrimoniale” dal momento che era già dietro le sbarre quando l’errore gli moltiplicò la pena.

Amine Cherouaqi potrebbe essere stato punito il doppio del dovuto per una svista nel nome trascritto con una lettera diversa nel database dell’esecuzione della pena. Aveva mandato una missiva all’ufficio matricola del carcere in cui spiegava  che aveva già passato in galera gli 8 mesi e 20 giorni. “Lui scriveva che doveva uscire  - racconta il suo legale Debora Piazza – ma loro non gli credevano e rispondevano che tutti dicono che devono uscire”.  (manuela d’alessandro)

 

 

Detenuto si ferisce con una lametta in aula, tre domande

 

I fatti. Il ragazzo, cinese, classe 1989, ascolta la sentenza di condanna in appello a 6 anni nella gabbia riservata ai detenuti, ha una crisi di nervi, si taglia con una lametta da barba collo e polsi. Esce un po’ di sangue. Intervengono gli agenti della polizia penitenziaria per calmarlo e chiamano un’ambulanza. Viene portato in codice giallo all’ospedale Fatebenefratelli dove lo ricoverano. Nulla di grave, ma neanche proprio un graffietto.

E le domande.

1) Come ha fatto l’imputato a uscire dal carcere e portare con sé una lametta da barba in Tribunale? “E’ un ragazzo che ha dei problemi – spiega il suo avvocato Mauro Straini – ha solo 25 anni e 5 li ha trascorsi in carcere  per reati di droga. E’ un piccolo spacciatore, il suo ruolo nelle indagini è stato sovradimensionato. L’idea di farsi altri anni in prigione lo ha fatto crollare”.

2) Perché non si è atteso l’arrivo dei soccorsi nell’aula della quinta sezione d’appello e si è trasportato subito il detenuto nelle camere di sicurezza del Palazzo di Giustizia, rischiando di aggravare (in teoria) le sue condizioni?

3) Dal momento in cui l’ambulanza è arrivata, poco prima delle 12, a quando il giovane cinese è stato messo sulla lettiga sono trascorsi più di dieci minuti perché i soccoritori non riuscivano a trovare le camere di sicurezza, infilate in un cunicolo del cortile dopo un percorso da giramento di testa. “Dove sono le camere si sicurezza?”, hanno chiesto a chiunque incontravano gli uomini e donne in tuta arancione, smarriti.  Nessuno degli addetti ai lavori  è stato in grado o ha avuto la pazienza di indicarglielo. Lo hanno fatto dei giornalisti, che erano lì perché incuriositi dalla loro presenza.  Si ripropone il problema di come orientarsi in Tribunale. In teoria, i famosi fondi Expo per la giustizia, quelli impiegati per esempio nei monitor spenti da due anni che adornano tutto il Tribunale, sarebbero dovuti servire anche per la segnaletica. (manuela d’alessandro)