giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Giustizia per la triste striscia pedonale

C’erano delle strisce. Erano oblique, forse un po’ malinconiche, non rispettavano il canone-universale-di-bellezza-della-striscia-pedonale, per quell’andamento diagonale appena accennato, ma univano funzionalmente l’ingresso di via Freguglia al marciapiede, schivando opportunamente i parcheggi riservati, quelli gialli.

Poi hanno aggiunto due posti, due. E la striscia ha fatto largo, raddrizzandosi non del tutto, ma un pochino. Lucida, bianca come il latte. Ora punta dritta verso via Sant’Antonio Maria Zaccaria. In mezzo alla strada.


C’era un ingresso carraio. Quello per le auto, sempre in via Freguglia, pochi metri più in là. Il sabato pomeriggio, si entra solo da lì a palazzo, pure a piedi. Ma niente strisce bianche e niente intervalli neri. Hanno pensato di metterle. Così. Un ponte lanciato verso il mare aperto, un brivido urbanistico.


Il giorno dopo il puzzle ha cominciato a comporsi, pur tra gli interrogativi e gli occhi sbalorditi di chi ogni 24 ore si è preso la briga di raccogliere testimonianze fotografiche dell’opera, perplesso per la discutibile creatività del Comune.


L’ispirazione a M.C. Escher del progetto alimenta tra i residenti dubbi sulle ragioni di tale dispendio di energia e vernice per pochi posti auto, e sulla sagacia del progetto.


Attendiamo di vedere il disegno completo, con quelle belle righine sfavillanti, per una equilibrata valutazione dell’opera. Intanto però: giustizia per la striscia pedonale.

Il buco nero delle informazioni sul carcere Beccaria

Dunque dopo mesi di incendi, evasioni tentate e riuscite il governo interviene sul carcere Beccaria silurando il comandante Daniele Alborghetti individuato, sostiene il sindacato UILPA della polizia penitenziaria, come il “capro espiatorio”. “L’avvicendamento non era affatto concordato – scrive il segretario Gennarino De Fazio -. Il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, lungi dall’affrontare compiutamente i problemi, per tentare di salvare la faccia, percorre la via più semplice e breve e trova un capro espiatorio”.

Quello che è certo è che, dopo gli arresti e le sospensioni di 21  agenti ad aprile per presunte torture e violenze, al Beccaria il fermento e le fibrillazioni dei giovani detenuti non sono mai cessate e, come sempre, di quello che è successo dentro all’opinione pubblica sono arrivate solo poche istantanee e nessuna spiegazione. Alcuni cronisti hanno visto la sera dell’uno settembre dei fuggiaschi essere catturati nella vegetazione che costeggia l’istituto dopo una rivolta che, riferiscono fonti di diverse sigle sindacali, era durata per tutta la notte e aveva visto coinvolti tutti e 58 i giovani ospiti della struttura.

Secondo il Dipartimento per la Giustizia Minorile invece la sommossa era stata “prontamente sedata senza alcun tentativo di evasione dei detenuti”. Il carcere, secondo le informazioni diffuse dai sindacati, era stato ridotto “ai limiti dell’agibilità”.

Cosa sta accadendo nel Beccaria? Mentre scriviamo altre tre persone sono evase. Nei giorni scorsi abbiamo provato a chiedere al Dipartimento di poter porre delle domande proprio al Comandante Alborghetti. La risposta era stata che, dopo un’istruttoria per vagliare l’istanza, si era deciso che no, le domande non potevano essere poste. Senza argomentare il diniego. Alla nostra obiezione che sarebbe stato importante per i cittadini poter conoscere un punto di vista importante su quello che succede in questo carcere così travagliato, ci era stato risposto così: “Noi facciamo le cose per bene”. (manuela d’alessandro)

 

Il ragazzo morto bruciato in carcere che era stato assolto per un vizio totale di mente

“Un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere”, arrivato in Italia dall’Egitto con mani e piedi legati nella cucina di un barcone e morto a 18 anni carbonizzato in una cella del carcere San Vittore.

Suicidio, incidente od omicidio colposo, reato per cui la Procura indaga il suo compagno di cella, lo stabiliranno le indagini.

È una storia breve tanto quanto disperata quella di Joussef Barson, che sembra toccare molti punti fragili dell’accoglienza, della giustizia e della gestione del disagio mentale. Per due volte da minorenne era stato assolto per vizio totale di mente perché una perizia psichiatrica aveva certificato che non era in grado di intendere e di volere e, quindi, non poteva stare in una prigione. Per questo i giudici del Tribunale dei Minori avevano disposto l’applicazione della misura di sicurezza della comunità terapeutica ritenendolo ‘socialmente pericoloso’.

Nello studio degli esperti datato 9 ottobre 2023 si legge che i dati clinici acquisiti “permettono di concludere per la necessità di cura di un contesto altamente protetto che assicuri condizioni di cura integrate in cui è da ritenersi essenziale un’adeguata terapia farmacologica”.

Perché stava in carcere? Il suo attuale legale aveva chiesto al gip di acquisire la perizia psichiatrica e proprio poco prima che morisse aveva ricevuto la fissazione della data del processo immediato. Quella di prima ‘non valeva’ anche se è difficile pensare che nel giro di pochi mesi Barson avesse acquisito forza mentale e lucidità per affrontare una detenzione tanto più nell’istituto più sovraffollato d’Italia.

Anzi, dalla narrazione dell’avvocata Monica Bonessa, che si commuove pensando a questo destino infelice, la sua esistenza da adulto era stata ancora più tragica.”Era arrivato in Italia dall’Egitto, passando per la prigione in Libia, a bordo di un barcone quando era minorenne – racconta la legale che lo ha assistito fino al compimento della maggiore età -. L’ avevano trovato legato nel bagno del barcone, punito per i suoi comportamenti respingenti verso gli altri. Ci siamo spesi tantissimo col Comune di Milano e con l’Ussm (servizi sociali per i minorenni per i minori autori di reato)del carcere Beccaria per aiutarlo nel corso degli anni. È stato in almeno cinque comunità diverse, dall’ultima è scappato quest’estate e da allora viveva in strada dove ha commesso l’ultima rapina ai danni di una signora. Faceva anche uso di stupefacenti”.

Barson aveva difficoltà ad avere relazioni col prossimo: “Ogni volta che veniva avvicinato mostrava reazioni violente, era un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere, non sapeva tenere in mano nemmeno una penna. Negli ultimi mesi era stato ricoverato due volte, in una l’ospedale gli aveva fatto firmare una lettera di auto-dimissioni nonostante la sua patologia psichiatrica. Ai primi di luglio era stato accoltellato alla gola in strada e aveva provato a bussare all’ultima comunità in cui era stato dove però non erano riusciti ad accoglierlo anche per il suo stato di alterazione”.

“È una storia tremenda con molte situazioni che potevano essere gestite in modo diverso – commenta l’avvocata. “A Milano aveva solo il fratello che non era in grado di gestirlo. Ultimamente chiedeva spesso della madre e del padre rimasti in Egitto e avevamo pensato di fare domanda per il suo rimpatrio, ma non c’è stato tempo”. (manuela d’alessandro)

Cospito ricorre e insiste per poter avere farina e lievito

“Nel caso tali prodotti fossero veramente pericolosi per l’ordine e la sicurezza interna ed esterna dell’istituto nessun istituto italiano li avrebbe consentiti non solo nel regime ordinario, ma men che meno nel regime del cosiddetto carcere duro cosa che invece è prevista e possibile. Inoltre, previsto e possibile è l’acquisto di tali beni anche nel reparto del 41 bis OP della CC di Bancali – Sassari per altri reclusi ed anche per altro detenuto appartenenti ad altri gruppi di socialità che essendo in possesso di ordinanze ormai definitive sono autorizzate all’acquisto, al possesso e all’utilizzo della farina e del lievito creando così un evidente, pacifico e palese disparità di trattamento”. L’anarchico Alfredo Cospito insiste per poter disporre di farina e lievito nonostante la Cassaziibe recentemente abbia bocciato il ricorso di un altro detenuto in regime di 41bis. L’avvocato Maria Teresa Pintus ha impugnato la decisione del magistrato di sorveglianza di Sassari e resta in attesa della fissazione di un’udienza davanti al Tribunale.
“È evidente che se i rischi paventati dall’Amministrazione, ovvero il fatto che i prodotti possano essere vietati solo ed esclusivamente perché infiammabili – allora non si capisce perché la carta, l’olio, il legno, ecc. non siano proibiti – fossero reali il
Garante Nazionale non avrebbe mai invitato ad introdurre tali generi nel mod. 72 in quanto pericolosi – si legge nel ricorso -
Vi è tra l’altro da chiarire che la capacità infiammatoria della farina è legata solo ed esclusivamente alla polvere creata dalla stessa al momento della sua formazione procedimento chimico che avviene esclusivamente nelle fabbriche e che proprio per tale motivo si è ovviato a livello industriale con degli accorgimenti atti ad impedire qualsiasi tipo di pericolo per i lavoratori”.
È vero che rientra nel potere dell’amministrazione disciplinare le regole della vita detentiva che può pertanto variare da istituto a istituto, è altresì vero che le limitazioni possono essere imposte solo in virtù di motivate esigenze di sicurezza – si conclude nel ricorso – E poiché nel caso in esame le esigenze di sicurezza – se è vero che mai ce ne fossero ovvero dell’infiammabilità della farina – sono state ampiamente confutate da tecnici specializzati ne consegue che il divieto di acquisto imposto al sig. Cospito è oltrechè immotivato illegittimo e come tale deve essere eliminato”.
(frank cimini)

Sharon, arriva la la “zona rossa” di Terno d’Isola

Nella storia dell’infinita emergenza italiana arriva la “zona rossa” di Terno d’Isola in provincia di Bergamo. Non c’entrano stavolta i black block. Chiudono le strade per ragioni investigative, le indagini sull’uccisione di Sharon Verzeni. Si cerca nei tombini ora a un mese dal delitto il coltello, l’arma che secondo il quotidiano che perde più copie in Europa era stata trovata nei giorni immediatamente successivi al fatto. Era una bufala, non la sola in questa inchiesta spettacolarizzata dai media dove ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere per una ragazza ammazzata a coltellate.
Le strade sono state chiuse per decisione dell’autorità giudiziaria, una procura fin qui assente e silente anche perché senza capo che si insedierà il 9 settembre.
L’idea della chiusura era stata probabilmente sollecitata dai carabinieri ai quali finora l’indagine è completamente delegata. Come si suol dire in questi casi gli inquirenti brancolano nel buio e sentendosi tra l’altro ingiustamente colpevoli per non aver ancora scoperto l’assassino al fine di dimostrare che lavorano adottano iniziative clamorose che colpiscono.
Così si arriva alla zona rossa di Terno d’Isola. Forse ci si poteva pensare prima ai tombini. I cento testimoni ascoltati finora non sono serviti. Compreso il presunto supertestimone che poi si è scoperto essere abbastanza circo e sordo. Dai coltelli sequestrati in giro e mandati al Ris di Parma non è arrivato nulla. E nemmeno dalle tracce sul corpo di Sharon. Intanto era stato preso il Dna offerto volontariamente da una quarantina di residenti. Un altro buco nell’acqua. L’assassino sicuramente non offre il Dna. I paragoni con il caso Yara sono frutto di ignoranza e superficialità. Lì c’era un dato dal quale partite l’ormai famoso Ignoto1. Qui siamo a zero.
Però la zona rossa fa scena, molta scena. Come le convocazioni di testimoni in caserma a favore di telecamere e i sopralluoghi con il fidanzato di Sharon, Sergio Ruocco, formalmente non indagato. Solo formalmente però. In realtà pressato. Lui continua a dirsi tranquillo e a rilasciare interviste in cui formula ipotesi di cui potrebbe anche fare a neno.
(frank cimini)