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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Morto D’Ambrosio, dal “malore attivo” di Pinelli a “Mani pulite”

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Se n’è andato “zio Gerry”. Così colleghi, avvocati e cronisti chiamavano Gerardo D’Ambrosio per decenni al palazzo di giustizia di Milano come giudice istruttore, come pm, come coordinatore del pool di “Mani pulite”, capo della procura, prima di diventare parlamentare del Pd.  Chi scrive queste poche righe per ricordarlo ha avuto con lui ottimi rapporti umani, di simpatia tra napoletani, ma abbiamo spesso discusso e litigato soprattutto nel periodo della falsa rivoluzione di “Mani pulite” e a un certo punto sono stato gratificato, primo giornalista al mondo, di una causa civile milionaria dal pool per aver criticato i metodi di indagine e i due pesi e due misure di un’inchiesta che alla fine salvò o poteri forti veri come Fiat e Mediobanca. Farei un torto  alla verità e anche  a lui che amava la schiettezza se mettessi tutto nel dimenticatoio nel momento in cui “zio Gerry” ci ha lasciato.

D’Ambrosio è stato un magistrato, come tanti, schierato, che ha subito volentieri le influenze della politica e non mi riferisco solo al periodo in cui il pool intendeva rivoltare l’Italia come un calzino. D’Ambrosio come giudice istruttore decise che Pino Pinelli, fermato per la strage di piazza Fontana, il 15 dicembre del 1969 morì per un “malore attivo” che lo fece cadere da una stanza della questura di Milano, quella del commissario di polizia Luigi Calabresi. Una ricostruzione assurda che servì a cercare di salvare capra e cavoli e a tutelare in sostanza gli uomini in divisa che a verbale avevano messo “nu cuofane e fesssarie”. Ma si sa il terrorismo di stato è sempre innocente. A prescindere. Comunque zio Gerry riposa in pace. (frank cimini)

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  • luigi vanni ha scritto:

    Caro Frank,
    voglio ricordare Gerardo D’ Ambrosio anche in un altro modo.
    E’ stato un magistrato laico: ha avuto sempre chiari i limiti dei suoi poteri e della sua funzione, anche quando “mani pulite” teneva in pugno i governi del paese, quando il tuo illustrissimo collega Enzo Biagi dedicava sul Corriere l’intera pagina 3 all’infanzia di Antonio Di Pietro, e quando un settimanale metteva in copertina Borrelli a cavallo (senza il suo consenso, pare). Neanche in quegli anni D’Ambrosio ha mai pensato di avere una funzione purificatrice del mondo dai suoi mali, né il potere di redimere con i mandati di cattura la mitica società civile italiana dai suoi vizi secolari.
    Soprattutto, Gerardo D’ Ambrosio è stato un PM che non ha mai rifiutato il confronto con gli avvocati, né in aula, né fuori, forse anche perché non aveva nessuna ragione per temerlo. Aveva una concezione dialettica del processo perché sapeva dialogare, non perché il codice di procedura penale l’ha imposta a tutti, senza alcun successo.
    Non era difficile, per un avvocato, confrontarsi con D’Ambrosio, anche su temi importanti, semplicemente bussando alla porta del suo ufficio, che di solito era aperta. Per mettere a fuoco la differenza di stile, nel passaggio tra epoche storiche prossime: hai mai provato a bussare alla porta di un PM di prima nomina, di quelli appena arrivati, o a chiedergli un appuntamento?
    E’ certamente possibile che D’Ambrosio abbia preso anche decisioni sbagliate, ma per come l’ho conosciuto escludo che le abbia prese per convenienza o per superbia: non è mai stato superbo, ed era libero abbastanza da poter ignorare la convenienza.
    Questo per un magistrato non è poco, anzi: è la ragione per la quale l’ho ammirato, la stessa per la quale lo ricordo con rimpianto.