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“Parlate della misericordia ma io vedo solo la cultura della sanzione”. L’avvocato Nerio Diodà irrompe dal “fronte”, come lui stesso lo definisce, a spezzare l’aura di pace che gli interventi del presidente della Cassazione Giovanni Canzio, del capo della Sorveglianza Giovanna Di Rosa e dell’arcivescovo Angelo Scola hanno creato al convegno organizzato in aula magna dall’associazione Laf (Libera associazione forense) sul tema ‘Diritto, giustizia e misericordia’.
Alle raffinate enunciazioni di principio degli alti oratori, Diodà oppone parole stridule. “Io sto nell”ospedale da campo’, condiviamo i grandi principi ma dal fronte i segnali che arrivano sono faticosi e difficilmente rimovibili. Cosa c’entra la misericordia col mestiere di avvocato? Apparentemente c’entra poco anche se nella storia della nostra professione ci sono molte cose più nobili di quelle che la comunicazione diffonde. Dal fronte vedo che molte volte la vera pena sono il processo, la custodia cautelare e la comunicazione mediatica. Lo dico con molta fatica, ma sono fatti veri che non riguardano solo i poveri ma anche i ‘colletti bianchi’, che io spesso difendo, nella stessa misura”.
“La custodia cautelare – argomenta il legale protagonista di tanti, importanti processi – è spesso o quasi sempre un meccanismo perverso per cui la vita di una persona che subisce il carcere spesso è devastata e poi si apre un periodo indefinito che forse porta alla Cassazione dopo anni in cui la pena ha logorato pressoché totalmente la persona”. Sulla misericordia, concetto evocato dagli altri oratori come elemento integrante di una buona giustizia, Diodà spegne ogni illusione. “Non c’è neppure il presupposto per parlarne. La giustizia non funziona non perché gli avvocati presentano eccezioni sui timbri ma per le ragioni che ho spiegato. Ho un grandisssimo rispetto per i giudici dell’esecuzione ma finché si farà il discorso della sanzione pari al bene leso e non ci sarà un nuovo umanesimo seguendo la via della giustizia riparativa non si cambierà. Il nostro compito è diventare ‘facilitatori’ nell’interpretare la legge come strumento di modifica profonda della persona”. (manuela d’alessandro)