Questo post è stato letto 8173 volte.
Un uomo all’alba uccide a picconate tre passanti perché ha sentito delle “voci”. A chi lo interroga in carcere mesi dopo racconta di considerare “pazzo” suo fratello che tentò di massacrare con un machete la madre. Quell’uomo col piccone è matto? E, se lo é, va processato o deve essere spedito senza pensarci in un ospedale psichiatrico?
La perizia che ha dichiarato oggi ‘capace di intendere e di volere’ Adam Kabobo, il ragazzo di origini ghanesi che l’11 maggio scorso terrorizzò Milano, interpella il concetto di libertà dell’essere umano. Per gli autori della consulenza disposta dal gip Andrea Ghinetti (consultabile nella sezione ‘Documenti’), Kabobo soffre di schizofrenia ma, quando sferrò a caso il piccone, la sua capacità d’intendere (comprendere il significato delle proprie azioni) “non era completamente assente” e quella di volere (controllare gli impulsi) era “sufficientemente conservata”. In un angolo della sua mente alterata dalle voci che gli consigliavano di uccidere “come stava facendo la popolazione africana”, dalla fame, dalla sete e dalla rabbia verso un mondo inerme alle sue richieste di aiuto (“A Milano tutti mi giravano la faccia”), brillava una fiammella di lucidità. In quel momento, pur se malato, era un uomo libero di scegliere se fare del male, nonostante fosse, nel senso comune, un ‘matto’. ”Anche se – spiegano i consulenti Isabella Merzagora e Ambrogio Pennati – nel determinismo degli atti la patologia ha avuto un ruolo importante, non può dirsi che la malattia abbia agito al suo posto”. La prova è che il giovane africano ricorda la sequenza con cui aggredì le vittime, il loro numero e l’arma usata. Questa traccia nella sua mente ”non é compatibile con una totale assenza di coscienza durante i fatti”. Kabobo, ipotizzano gli studiosi, sulla base anche dei suoi racconti, nutriva “la perversa e recondita motivazione di essere catturato” per placare la fame, la sete, il gelo. Merzagora e Pennati sottolineano però che non era necessario uccidere per finire in prigione e mettere un punto irreversibile alla sua disperazione. Nel delirio, il killer mostra anche una percezione morale di quello che ha fatto: “quando ho visto quella scena lì mi è dispiaciuto tanto ma pur sapendo di avere fatto una cosa sbagliata l’ho fatta…”. (manuela d’alessandro)
flavia ha scritto:
bravi