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“Un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere”, arrivato in Italia dall’Egitto con mani e piedi legati nella cucina di un barcone e morto a 18 anni carbonizzato in una cella del carcere San Vittore.
Suicidio, incidente od omicidio colposo, reato per cui la Procura indaga il suo compagno di cella, lo stabiliranno le indagini.
È una storia breve tanto quanto disperata quella di Joussef Barson, che sembra toccare molti punti fragili dell’accoglienza, della giustizia e della gestione del disagio mentale. Per due volte da minorenne era stato assolto per vizio totale di mente perché una perizia psichiatrica aveva certificato che non era in grado di intendere e di volere e, quindi, non poteva stare in una prigione. Per questo i giudici del Tribunale dei Minori avevano disposto l’applicazione della misura di sicurezza della comunità terapeutica ritenendolo ‘socialmente pericoloso’.
Nello studio degli esperti datato 9 ottobre 2023 si legge che i dati clinici acquisiti “permettono di concludere per la necessità di cura di un contesto altamente protetto che assicuri condizioni di cura integrate in cui è da ritenersi essenziale un’adeguata terapia farmacologica”.
Perché stava in carcere? Il suo attuale legale aveva chiesto al gip di acquisire la perizia psichiatrica e proprio poco prima che morisse aveva ricevuto la fissazione della data del processo immediato. Quella di prima ‘non valeva’ anche se è difficile pensare che nel giro di pochi mesi Barson avesse acquisito forza mentale e lucidità per affrontare una detenzione tanto più nell’istituto più sovraffollato d’Italia.
Anzi, dalla narrazione dell’avvocata Monica Bonessa, che si commuove pensando a questo destino infelice, la sua esistenza da adulto era stata ancora più tragica.”Era arrivato in Italia dall’Egitto, passando per la prigione in Libia, a bordo di un barcone quando era minorenne – racconta la legale che lo ha assistito fino al compimento della maggiore età -. L’ avevano trovato legato nel bagno del barcone, punito per i suoi comportamenti respingenti verso gli altri. Ci siamo spesi tantissimo col Comune di Milano e con l’Ussm (servizi sociali per i minorenni per i minori autori di reato)del carcere Beccaria per aiutarlo nel corso degli anni. È stato in almeno cinque comunità diverse, dall’ultima è scappato quest’estate e da allora viveva in strada dove ha commesso l’ultima rapina ai danni di una signora. Faceva anche uso di stupefacenti”.
Barson aveva difficoltà ad avere relazioni col prossimo: “Ogni volta che veniva avvicinato mostrava reazioni violente, era un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere, non sapeva tenere in mano nemmeno una penna. Negli ultimi mesi era stato ricoverato due volte, in una l’ospedale gli aveva fatto firmare una lettera di auto-dimissioni nonostante la sua patologia psichiatrica. Ai primi di luglio era stato accoltellato alla gola in strada e aveva provato a bussare all’ultima comunità in cui era stato dove però non erano riusciti ad accoglierlo anche per il suo stato di alterazione”.
“È una storia tremenda con molte situazioni che potevano essere gestite in modo diverso – commenta l’avvocata. “A Milano aveva solo il fratello che non era in grado di gestirlo. Ultimamente chiedeva spesso della madre e del padre rimasti in Egitto e avevamo pensato di fare domanda per il suo rimpatrio, ma non c’è stato tempo”. (manuela d’alessandro)