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E’ stata sempre un’abitudine, quasi un automatismo, una comoda scorciatoia linguistica per i capi dell’Anm, alcuni dei quali assurti al Csm, evocare la “delegittimazione” della magistratura dinanzi a qualsiasi critica nei confronti della categoria, anche una semplice inezia, anche non infondata, anche del tutto disinteressata.
Ora tanto l’Anm quanto il Csm tacciono imbarazzati davanti al gesto del Presidente del processo Ruby, tra l’altro esponente non di secondo piano dell’associazionismo a Milano, che si è dimesso, quasi sbattendo la porta, scrivono i cronisti, subito dopo il deposito delle motivazioni della sentenza. A quanto sembra, anche se la vicenda è avvolta in parte nell’ambiguità, la sua sarebbe una protesta contro l’assoluzione di Berlusconi dopo essere stato messo in minoranza dagli altri due giudici. Non è solo un episodio di scarso buon gusto. Il Presidente avrebbe potuto, come qualsiasi altro giudice e come consente la legge, motivare il suo dissenso e lasciarlo scritto in una busta chiusa depositata a futura memoria in cancelleria, senza violare il segreto del voto in camera di consiglio e senza mostrare poco rispetto nei confronti dei due colleghi. E nulla gli impediva, se proprio lo desiderava, di spiegare il suo punto di vista, magari tra qualche anno, in un libro quando anche il processo Ruby, come ogni cosa, sarà diventato storia.
Ma facendo come ha fatto è intervenuto in modo a dir poco distorsivo su un processo ancora in corso, pochi lo hanno ricordato e non l’Anm, che attende infatti ancora il grado di Cassazione. Ha “delegittimato”, questa volta davvero, il processo e la Corte di cui ha fatto parte.
Poniamo infatti attenzione al messaggio che, secondo i beni informati cronisti del Corriere, ha voluto mandare in modo neanche troppo implicito con le sue dimissioni. Il codice di procedura prevede che l’imputato sia assolto quando vi sia anche solo un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza. Quindi, secondo l’interpretazione non smentita dal Presidente, i due giudici che hanno preferito propendere per l’assoluzione, avrebbero fatto una scelta irragionevole, per incompetenza, incapacità o per qualsiasi altro misterioso motivo che non è dato spiegare.
Tale messaggio cifrato di certo inciderà e farà perdere credibilità alla sentenza finale. Se la Cassazione confermerà l’assoluzione potrà sempre dirsi che ciò è avvenuto perché non era comunque stata posta in grado di conoscere i misteriosi eventi che hanno portato un Presidente a dimettersi, per la prima volta nella storia giudiziaria, per quanto successo in camera di consiglio. Se annullerà l’assoluzione tale decisione potrà essere attribuita al messaggio nella bottiglia mandato dal Presidente tale da aver influito sulla Corte e fatto leggere con fondato sospetto la scelta di assoluzione e le motivazioni che egli ha manifestato pubblicamente di non condividere. Nell’ipotesi improbabile che nessuno, in questo caso l’accusa, ricorra in Cassazione ancora peggio perché chiunque potrà sostenere che la dissociazione del Presidente ha comunque il valore di una mezza condanna di Berlusconi oppure che il quadro è diventato indecifrabile e che nessuna sentenza sarebbe più credibile.
In ogni caso il processo Ruby è ormai inquinato. E ciò grazie ad un comportamento che non ha precedenti nei Tribunali, messo in atto senza rischiare nulla, nemmeno un procedimento disciplinare e senza rischiare la carriera, giunta ormai alla fine, ma solo anticipando un pensionamento che sarebbe comunque scattato tra un anno.
Quanto è accaduto e sta accadendo a Milano, compresa la guerra senza esclusione di colpi in Procura, costituisce per la Magistratura, che pur ha meriti alti e indiscutibili, un altro passo verso la perdita della sua legittimazione morale, perdita accelerata da protagonismi personali, strategie parapolitiche, correnti di magistrati trasformate in partiti.
Finisce poi per rafforzare in molti la convinzione che gli avversari più accesi della magistratura hanno sempre sostenuto e cioè che contro Berlusconi, in quanto perseguitato, non poteva e non può essere celebrato un processo “normale”, nemmeno oggi quando ormai si trova politicamente quasi al tappeto e in parte proprio a causa del processo Ruby.
È stato infatti il processo che più ha contribuito a mutare il quadro politico certo per l’impatto mediatico dell’argomento, più degli altri avviati nei confronti dell’ex- Presidente del Consiglio e forse più di ogni altro processo, anche di ben diverso scenario e spessore, mai celebrato contro esponenti politici da Mani pulite in poi.
Per questo non poteva e non può permettersi un finale così ambiguo. Che nessuno degli organi che governano la magistratura lo sottolinei avvalora il sospetto di chi pensa che il processo fosse destinato non ad una “sentenza” ma al “risultato”.
Per finire, dato che come riferisce ‘La Repubblica’ il Presidente sarebbe andato a Lourdes prima di prendere la sua decisione, tento un paragone storico-religioso. C’e almeno un altro processo in cui un giudice si è dimesso. Tutti lo conosciamo. E’ stato quello celebrato circa 2000 anni fa contro un predicatore in Palestina durante il quale Giuseppe d’Arimatea, un autorevole membro del Sinedrio ma, come narrano i Vangeli, persona integra, preferì lasciare l’aula.
Ma in quel caso si trattava di dissociarsi da una condanna contro un innocente già decisa, si “dimise” prima della sentenza e non dopo e andarsene comportava contrastare e sfidare con rischi personali il proprio ambiente. Non solo andare in pensione. Altri giudici, altri imputati, altra forza morale. (Guido Salvini, gip presso il Tribunale di Cremona)