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Le proteste e le mobilitazioni, si è parlato addirittura di uno sciopero, dell’Associazione Nazionale Magistrati e delle sue correnti dopo le leggi sulla riduzione delle ferie e sulla responsabilità civile dei giudici devono essere comprese nel loro reale significato. La posta in gioco non è qualche giorno in più o in meno di ferie estive e non è nemmeno il timore di essere trascinati in un giudizio di risarcimento dai propri ex imputati.
Lo scontro è essenzialmente simbolico, una prova nei rapporti di forza tra poteri. La magistratura, con lo spazio che si è conquistata nella vita del Paese, grazie ai demeriti altrui (del ceto politico – amministrativo in particolare), ai propri meriti e anche a dispetto di suoi torti non marginali, non intende essere declassata da “Potere giudiziario” a semplice “Ordine giudiziario”, come peraltro scritto con qualche ambiguità nell’articolo 104 della Costituzione. Dalla posizione conquistata, in sostanza, non intende rinunciare ad una sorta di “privilegio” non scritto di farsi da sé le norme che regolano la sua attività, tramite il Csm soprattutto, facendole al posto del Parlamento che dovrebbe promulgare solo quelle che la magistratura stessa approva. E tantomeno intende subire un declassamento dal Governo che è seguito ai governi di centrodestra che la magistratura stessa con le sue indagini ha obiettivamente tanto contribuito a far scomparire.
Uno scontro simbolico perché in realtà tutti sanno che le ultime leggi del governo Renzi sono destinate a non cambiare nulla o quasi. Sulla questione delle ferie autorevoli magistrati e lo stesso CSM hanno quasi deriso il Governo perché avrebbe confuso la sospensione estiva delle udienze e dei termini di legge con le ferie dei giudici, riducendo maldestramente da 45 a 30 giorni solo la prima e non le seconde. Ma, comunque sia, la riforma è in concreto ben poca cosa.
E’ noto che i giudici non sono tenuti ad obblighi di presenza, non timbrano – e giustamente – il cartellino, lavorano in modo flessibile e “autogestito”, in pratica di più o di meno quando vogliono e sono tenuti solo ad una accettabile “produttività” media, quantitativa e, si spera, qualitativa, annuale.
I capi delle correnti si sono sollevati immediatamente contro la riduzione perché in realtà, dicono, parte delle ferie sarebbe già consumata da buona parte dei giudici per scrivere le motivazioni delle sentenze e dei provvedimenti rimasti indietro. Ma è un’immagine del tutto ingannevole perché se fosse vera implicherebbe che tutti i giudici e i PM seggano ogni giorno e sino al giorno precedente l’inizio del periodo estivo in udienza, per cominciare infelicemente a scrivere l’indomani quando sarebbero già in vacanza.
Invece non è vero. Tutti coloro che frequentano i Palazzi di Giustizia sanno che in realtà già nella seconda metà di luglio le udienze sono rarefatte e anche la ripresa a settembre è assai lenta. Molti sono gli spazi vuoti anche nei periodi normali. Non fissando qualche udienza in calendario, ci si concede una o due settimane bianche durante l’anno per riposare o magari anche per scrivere. Basterà incrementare un po’ questo meccanismo, da sempre consentito e accessibile a tutti tranne che ad un ristretto numero di uffici e di Procure di punta, in pratica non fissare un altro paio di udienze durante l’anno, per annullare di fatto l’effetto della legge Orlando sulle ferie.
Eppure si minacciano ricorsi al TAR o alla Consulta, ma, lo si ripete, solo perché si tratta di uno scontro simbolico, più o meno come le sfide a duello. Anche la riforma della legge Vassalli del 1988 sulla responsabilità civile dei giudici non è una corsa verso l’abisso, come qualcuno vorrebbe farla passare. Alcune modifiche al vecchio sistema sono ragionevoli, altre non sono un capolavoro.
Il filtro di ammissibilità alle azioni di responsabilità andava eliminato perché non aveva dato in concreto buona prova di sé e si era trasformato in una barriera più che un filtro. La responsabilità dei giudici resta comunque “indiretta” anche se l’obbligo di rivalsa dello Stato che ha sostituito la semplice facoltà evita che la scelta di rivalersi rimanga affidata a motivazioni oscure e non controllabili.
E’ vero invece che la possibilità di avviare l’azione per “travisamento dei fatti o delle prove” inserita nella legge non è stata una scelta prudente perché non solo è una formula vaga ma un’espressione che ricalca buona parte dei contenuti dei normali ricorsi per Cassazione. Con il forte rischio che l’azione di rivalsa si trasformi in un “processo al processo” già concluso, in una specie di quarto grado di giudizio, ripetendo argomentazioni già proposte o scartate, per mera rivalsa contro il giudice o per scardinare una sentenza passata in giudicato.
Ma il travisamento, anche nella modifica di legge, vale comunque solo se inescusabile e alla fine quello che sarà accolto come motivo di responsabilità sarà in sostanza solo il travisamento macroscopico o abnorme perché la decisione sui ricorsi spetta comunque ad altri giudici e non a qualche entità esterna e alla fine è l’interpretazione che fa la legge. In fondo questo è il senso del richiamo sull’applicazione della nuova legge fatto l’8 marzo dal presidente Mattarella durante l’incontro al Quirinale con i nuovi magistrati che stanno per entrare in servizio.
Non una catastrofe quindi. Soprattutto la magistratura dovrebbe evitare di evocare il falso scenario secondo cui qualsiasi indagato importante potrebbe paralizzare il “suo Pubblico Ministero” lanciandogli addosso un’azione di responsabilità. L’azione può essere infatti iniziata di norma dopo la Cassazione, a indagini quindi ampiamente concluse. Neppure è vero, come hanno detto altri capi dell’A.N.M., che il giudice, dovendo per la sua funzione dar ragione all’uno e torto all’altro, avrebbe comunque sempre un potenziale nemico e sarebbe quindi molto più esposto di altre categorie. Basti ricordare infatti i medici che operano stretti tra un nemico assoluto, la morte del paziente, e un potenziale nemico rappresentato dalle persone vicine al malato che, per ragioni umane comprensibili, possono essere assolutamente convinte che il loro congiunto avesse invece diritto a guarire.
Negli ultimi giorni l’attenzione si sta spostando sulla riforma delle intercettazioni. Non è difficile capire che la facoltà di svolgere intercettazioni, dopo un decreto ben motivato del giudice, non può essere compressa perché il mondo di oggi è fatto di comunicazione e non vi è delitto che non lasci dietro di sé una bava di contatti, di telefonate, di SMS, di tracce informatiche. Nello stesso tempo le indagini servono per individuare colpevoli e non per far circolare notizie carpite qua e là. Serve quindi ridisegnare l’udienza-filtro in cui solo le parti, il Pubblico Ministero e i difensori possano, con un obbligo di segretezza, prendere cognizione di tutte le conversazioni, e indicare quelle che ritengono davvero utili per l’accusa e per la difesa, prima di spedire al macero tutto il resto.
Altrimenti le parole di un qualsiasi cretino, se indagato e intercettato, potranno sempre essere utilizzate, anche se false, offensive, imbarazzanti e soprattutto inutili per rendere pubblica sui giornali la vita di un terzo non c’entra niente.
Il problema non è un modifica ragionevole delle norme e delle prassi sulle intercettazioni che sarebbe facilissimo fare anche se ne discutiamo da anni. Il problema sono coloro che, negli opposti campi, sono poco in buonafede. Coloro, e tra di essi molti politici, che lamentano la pubblicità dannosa data ai loro discorsi in libertà al telefono ma in realtà vorrebbero eliminare dalle indagini quasi tutte le intercettazioni, pericolose per le loro attività disoneste. Coloro tra i magistrati, certo non tutti, che abbondano in intercettazioni e trascrivono conversazioni a loro dire necessarie per le indagini ma in realtà sono più che soddisfatti anche solo se le parole in libertà non serviranno a condannare ma comunque finiranno sui giornali dando così lustro alla loro inchiesta.
In entrambi i casi si chiama cattiva coscienza, rinnova una scontro che continua da anni ed è perniciosa, per chi fa politica, per i giudici, per la giustizia e per noi tutti.
(Guido Salvini, gip presso il Tribunale di Cremona)