giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Mantovani, sui 13 mesi di ritardo nell’arresto il gip si autoassolve

Con un’ordinanza di cinque pagine il gip Stefania Pepe decide di far restare in carcere l’ex assessore alla salute ed ex vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani, ma non dedica nemmeno mezza riga a quella che era stata l’obiezione più forte della difesa: richiesta di arresto datata settembre 2014 accolta a ottobre 2015 dal giudice delle indagini preliminari.

Mantovani è accusato tra l’altro di concussione e corruzione aggravata. Il contesto, al di là ogni considerazione, non è bello (eufemismo) per l’indagato che allo stesso tempo era assessore alla salute e imprenditore nel settore delle cliniche per anziani. Ma qui non si discute del merito. E’ un problema di esigenze cautelari e soprattutto della loro attualità. Tutti comprendono che c’è differenza tra il settembre del 2014 quando l’allora procuratore aggiunto Alfredo Robledo inoltrò la richiesta al settimo piano e l’ottobre 2015 quando la misura è stata eseguita.

Se allora si poteva senz’altro parlare di attualità, adesso è molto più difficile. E va ricordato che in un’altra inchiesta, un altro gip ha disposto arresti per tangenti poche settimane fa decidendo su una richiesta dei pm datata addirittura 2013. C’è qualcosa che non funziona come dovrebbe, ma a quanto pare tutti quelli che dovrebbero intervenire quantomeno per capire cosa accade fanno finta di niente, dal Csm al ministro con poteri ispettivi.

Impossibile sapere perchél gip abbia scelto di non fornire spiegazioni all’obiezione della difesa sul punto. Magari il giudice si sarà sentito leggermente imbarazzato dal momento che non poteva che essere consapevole dell’anomalia: un anno e un mese per decidere sugli arresti di Mantovani e dei suoi coindagati. Il silenzio sul punto non risolve di certo, anzi finisce per aggravare la situazione. Insomma, dopo il conflitto di interessi di Mantovani c’è pure il conflitto di interessi del gip che si autoassolve. Per l’amministrazione della giustizia non è una vicenda di cui andare fieri (eufemismo 2). (frank cimini)

Formigoni e telecamere, amore finito. Il Celeste non le vuole in aula.

E’ proprio vero, solo i paracarri non cambiano mai idea. E Roberto Formigoni ha cambiato idea. Parliamo di telecamere. Da presidente della giunta regionale della Lombardia le aveva utilizzate per quasi vent’anni, comparendo soprattutto al tg regionale della Rai a colazione, pranzo e cena. Spesso era in diretta negli studi di corso Sempione, dove giornalisti fatti assumere dai partiti nel servizio pubblico, gli stendevano tappeti rossi affinchè esternasse con brevi cenni sull’universo mondo e trattasse tutti gli argomenti possibili e pure quelli impossibili.

Ma adesso non è più aria. Accade nell’aula della decima sezione penale del Tribunale di Milano dove Formigoni, ora nell’Ncd e presidente della commissione agricoltura del Senato è imputato nell’ambito del caso Maugeri di associazione per delinquere e corruzione insieme a Pierangelo Daccò, uomo d’affari sospettato di essere stato di casa al Pirellone, all’ex assessore Antonio Simone e altri. Per bocca del suo bravissimo avvocato Mario Brusa, il Celeste fa sapere di essere contrario alla presenza delle telecamere perché “snaturerebbero il processo”. La tesi ha un suo fondamento, intendiamoci. Ma fa specie che venga sposata da chi utilizzò a piene mani le telecamere come strumento di governo al fine di aumentare il suo potere personale. I giudici si sono riservati la decisione. Con ogni probabilità, come spesso accade in casi del genere, diranno di sì alle riprese solo per la sentenza. (frank cimini)

Un avvocato, mai avuto i brividi come per ergastolo Brega

Quella immagine di ieri sera non se ne va, cerco di soffocarla nel da fare dell’oggi e del domani, di metabolizzarla nella legge che ho imparato e nel mestiere che da più di 25 anni mi occupa tra entusiasmi, delusioni e normalità, provo ad anestetizzarla tra le tante facce amiche o anche solo conosciute che c’erano ieri in quella gigantesca e più volte battuta in questi anni aula, ricorro alla razionalità del sincero rispetto di chi ricopre diverse funzioni e cerco di scacciare lo spettro del carrozzone che come cantava qualcuno “va avanti da sé” mi sforzo di ritornare sui luoghi abituali e necessitati del mio nuovo giorno. Ma ieri sera insieme a tanti ero lì ad ascoltare un verdetto di uomini ed il caso logistico dell’assemblaggio mi volle di poco contiguo ad un altro uomo di cui avevamo tanto e in tanti sentito molto parlare ed accusare. Era in piedi vicino ad una grande gabbia mentre un Giudice lo condannava all’ergastolo specificando poi minuti e minuti di aggiunte per lui evidentemente inutili, dietro la moglie e forse qualche amico se ne ha ancora. Continua a leggere

Ergastolo e arresto shock in aula per Brega

Lui è appoggiato alla gabbia, confuso tra gli avvocati, lo sguardo duro, accanto c’è la moglie, bionda, bella, pronta a difenderlo coi cronisti anche dopo, anche quando la Corte d’Assise pronuncia una sentenza mai ascoltata prima in un’aula di giustizia italiana. Ergastolo con isolamento diurno di 3 anni. “Di più non c’è niente, c’è la morte”, commenta un legale che sfoglia il codice per vedere se di più potrebbe essere dato, tecnicamente, perché col pensiero è difficile andare oltre. La stessa pena di Olindo Romano e Rosa Bazzi, gli assassini nella corte di Erba, tanto per dire. Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica della clinica Santa Rita, passa alla storia come il primo medico condannato per avere ucciso (quattro) suoi pazienti non per errore, come a volte capita, ma perché ha ‘accettato’ la possibilità che potesse accadere (omicidio volontario con dolo eventuale). Lo avrebbe fatto per guadagnare potere all’interno della struttura perché ogni intervento erano soldi pubblici che incassava quell’ospedale poi ribattezzato ‘clinica degli orrori’ dove sarebbero stati asportati polmoni e seni, senza una ragione. Dopo la lettura del verdetto della Corte d’Assise, le telecamere si girano tutte su di lui. Continua a leggere

Saranno felici i figli di chi non potrebbe diventare genitore?

Che vita avranno i figli di “malati terminali, cugini primi, anziani”, genitori “tecnologici” a cui la natura non avrebbe concesso la capacità di procreare?  Questo si chiede in una sentenza piena di tormenti il giudice Gennaro Mastrangelo esprimendo la crisi del diritto “messo con le spalle al muro” di fronte al caso di un uomo di 48 anni e una donna di 54 che hanno ‘affittato’ l’utero di una donna indiana per far nascere il loro erede.   I due imputati sono stati assolti dall’accusa di alterazione di stato per avere fatto ricorso in India alla maternità surrogata totale ed essersi dicharati all’anagrafe di Milano papà e mamma del piccolo, in realtà concepito col seme dell’uomo, l’ovulo di una donatrice e messo al mondo da una terza donna. Una bugia che è costata ‘solo’ la condanna a un anno e 4 mesi di carcere per falsa dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla propria identità.  La mamma “tecnologica” del bimbo, che ora ha due anni, non avrebbe potuto avere figli perché diventata infertile a causa delle cure per un tumore. Continua a leggere