giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

‘Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada’

 

Non si è mai vista piangere tanta gente in un’aula, compreso un giudice popolare che si copriva gli occhi per pudore. Non si è mai visto un pubblico ministero (Tiziana Siciliano) porgere dei fazzoletti a un testimone dicendole che era stata fino a quel momento “sin troppo forte”. Non c’è nessun commento alle parole della fidanzata e della sorella di Dj Fabo, morto in Svizzera col suicidio assistito, che qui riportiamo come le abbiamo ascoltate nel processo a Marco Cappato, imputato per ‘aiuto al suicidio’.

VALERIA, LA FIDANZATA DI FABIANO

Fabo

“Ci conoscevamo da 25 anni, prima da amici, poi da una decina di anni da fidanzati. Con lui non non ci si poteva annoiare mai, c’era sempre qualcosa che proponeva, era vivo, era l’essenza della vita. Aveva voglia di vivere ogni secondo al massimo. Non stava mai un attimo fermo, a volte litigavamo per questo, per lui le giornate dovevano durare 48 ore. L’incidente è ‘ arrivato nel momento migliore della nostra storia. Avevamo deciso di trasferirci a Goa. Eravamo felici. Lui avrebbe fatto il dj, io la psicologa e l’insegnante di pugilato per i bambini indiani. Eravamo tornati in Italia per salutare gli amici e la famiglia.

L’incidente

Quella sera, il 12 giugno 2014, lui doveva suonare al compleanno di un amico in un locale a Milano. La festa andò bene, c’era un sacco di gente, era contento di suonare in un posto prestigioso. Dopo la serata, Fabiano decise di tornare nella casa di famiglia sul lago, a Ispra, dove voleva terminare dei lavori, nonostante io gli avessi detto ‘Fermati, sei stanco’. Quando  sua madre mi comunicò dell’incidente, saltavo per la casa per il nervoso  perché glielo avevo detto di non mettersi in auto, ma se lui decideva una cosa neanche il Papa gli faceva cambiare idea.

Lo specchio

In ospedale gli ho portato uno specchio, volevo che vedesse che la faccia era come prima. Lui non poteva parlare, era tracheotomizzato. Gli dicevo: ‘Ti vedi?’, ma lui guardava verso l’alto. ‘Guarda che bello questo bracciale che ti hanno regalato’, ma lui alzava gli occhi al cielo. Ho capito che era la fine. Fabiano forse poteva vivere da tetraplegico ma non da cieco. Amava gli amici forse più della fidanzata, essere circondato dalla gente, vedere le reazioni di gioia o anche di odio che sucitava, perché  o l’amavi o lo odiavi. Non avrebbe potuto vivere senza vedere la gente che ballava quando suonava.

 Le staminali e le ombre

Andiamo in India a tentare il trapianto delle staminali, anche se i medici italiani ci dicono che è inutile. Lui non mollava, sognava di tornare a Goa a suonare sul mare. La mia speranza era che gli restituissero almeno delle ombre. Sembrò succedere qualcosa, riusciva a stringermi la mano, me la strinse un sacco di volte e mi diceva che non vedeva più tutto nero, ma un po’ più chiaro. Era contento. Ma l’effetto svanì presto e quando tornammo in Italia vedeva tutto nero di nuovo.

L’amore

Dopo l’India era cambiato. Non voleva più fare la fisioterapia. Un giorno mi ha detto: ‘Valeria, che vita è questa, per me non ha più senso’ e mi ha chiesto di aiutarlo a morire in Svizzera. Era la primavera del 2016. Non sono rimasta stupita, dissi a sua madre, che persa la speranza delle staminali non ne aveva altre, e senza speranza non poteva vivere. Questa scelta di morire faceva parte di Fabiano, lui che era vita all’ennesima potenza. A questo punto io che ero diventata la sua protesi decisi di aiutarlo. Se non l’avessi fatto avrebbe significato che non lo amavo.

L’ultimo giorno

Il giorno prima abbiamo fatto una prova per posizionare il pulsante nel modo migliore possibile. Fabiano era agitato, non capiva gli infermieri che parlavano in italo – tedesco. Ci siamo innervositi tutti, poi si è calmato e abbiamo scherzato e parlato di tutto per tutto il giorno. La mattina del 27 febbraio 2017 mi sono infilata con lui nel suo letto, mi sono appoggiata vicino al suo orecchio per fargli sentire che c’ero. Si sveglia e mi dice ‘Ci siamo’ , io rispondo che può ripensarci. Mi chiede uno yogurt. Poi lo mettono un po’ seduto sul letto per fargli schiacciare il pulsante. Io e sua mamma usciamo, dopo 5 minuti arrivano gli infermieri e annunciano che è morto.

Sarò energia nell’universo   

Credeva in qualcosa sopra di lui, prima di morire mi assicurò che ci saremmo reincontrati, che lui si sarebbe trasformato in energia nell’universo. Dopo la scelta di pubblicizzare la sua scelta di andare in Svizzera alle ‘Iene’, era sollevato. Si sentiva di nuovo utile e vivo. Gli dissi che, da pugile, sentivo di essere stata sconfitta dalla Signora Morte perché lui voleva morire ma lui mi rispose che non dovevo sentirmi sconfitta perché  quella per lui era una vittoria.

CARMEN, LA MAMMA DI FABIANO

Lui e Cappato

I colloqui tra mio figlio e Marco Cappato erano meravigliosi. Parlavano di molte cose, lui gli raccontava dell’India, della sua musica, era diventato un suo amico. E poi erano uomini, lui interagiva solo con donne, con me e Valeria. Cappato lo informò che avrebbe potuto morire a casa sospendendo le cure. Ma lui non voleva, aveva più  paura della sofferenza che della morte, aveva paura di morire soffocato forse o di un’agonia che spiegarono poteva durare anche dieci giorni. Ma di morire no, mi ha sconvolto questo coraggio che non credevo potesse avere”.

Anche solo la tua testa

Un giorno in ospedale  mi hanno informato che voleva parlarmi. Sono entrata nella stanza e mi ha detto ‘Mamma, voglio che tu accetti la mia decisione di andare in Svizzera’. Tutte le infermiere che erano li’ hanno sentito queste parole. Io l’ho ascoltato emozionata e lui mi ha detto’ Vuoi che continui a vivere  cosi’?', e io gli ho risposto: ‘”Ti vorrei anche solo con la testa’. I suoi dolori erano terribili. Mi diceva che si sentiva ‘un diavolo in corpo’, urlava, aveva contrazioni continue. Un medico mi spiegò che, per paradosso, piu’ faceva fisioterapia più diventava sensibile al dolore. Ha lavorato tantissimo con la fisioterapia, ha lottato ma dopo il ritorno dall’India, quando ci siamo accorti che il trapianto delle staminali non ha dato benefici, non faceva che parlare della Svizzera. Era diventato un incubo. Aveva paura che rallentassimo le procedure, minacciava di non mangiare. Quando io e Valeria parlavamo a bassa voce, si arrabbiava perche’ voleva sapere tutto. Era lucido, forse sarebbe stato meglio lo fosse stato meno.

Via Fabiano, la mamma vuole che tu vada

Fabiano ha fatto tutto da solo, è stato  bravissimo. Per fare capire com’era mio figlio, lui aveva capito che non avevo accettato  interiormente la sua scelta e allora per farlo andare via  sereno gli ho detto ‘Vai Fabiano, la mamma puo’ continuare, voglio che tu vada’. E lui ha schiacciato il bottone.

(manuela d’alessandro)

Tutti i no del medico del Policlinico alle “protesi di merda”

“Gli ho detto: ‘Bruno dai, quella protesi lì…e poi guarda che loro sono disposti…anche dietro compenso o che cosa…a modificare lo strumentario’. E lui mi ha risposto: ‘Ti posso dire  una cosa? Non me ne frega un cazzo!‘”.

Il dottor Bruno Arosio era l’ossesione di Fabio Bestetti e Marco Valadé, i due chirurghi del Policlinico di Monza arrestati con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione perché avrebbero ricevuto denaro e viaggi dai rappresentanti della società Ceraver in cambio dell’acquisto di protesi da applicare in sala operatoria. “Protesi di merda”, le definiscono loro stessi nelle intercettazioni, e infatti il dottor Arosio non ne vuole sapere di comprarle per i suoi pazienti. “E’ una protesi di merda quella lì – conferma “furibondo” a colloquio con  Bestetti – Tu puoi montarla però vedrai che ti romperò i coglioni per non farla mettere più una roba del genere perché non ti faccio più proteggere dal Policlinico. Non so come cazzo fai a mettere quella roba lì”. E l’altro, mitemente: “Bruno, dai, tranquillo. Domani ne parliamo. Vai a casa, mangi la pappa, così ti rilassi un po’ e poi domani ne parliamo”.

Ma tutti i domani che ne parlano il dottor Arosio non è mai rilassato. Valadé, dialogando con un venditore della Cerever, Marco Camnasio, anche lui arrestato: “Io gli ho detto ‘ascolta Bruno…vabbé io comunque martedì metterò una protesi di queste qua  perché viene qui proprio il responsabile’. ‘Sono cazzi tuoi mi ha detto..m’ha riposto così, capito? Sono cazzi tuoi. Allora gli ho detto: ‘Ma ascolta Bruno, guarda che loro, sono una ditta in espansione, sono molto disponibili, aiutali magari a modificare qualcosa dello strumentario (…) cioé gli ho fatto capire…non è che te lo fanno gratis, capito? E lui mi ha risposta: ‘Guarda, in questo momento non mi interessa’ “.

A un certo punto dalle intercettazioni emerge che Arosio scrive pure una lettera alla Direzione del Policlinico.

Finché i due medici pensano alla soluzione finale. E’ Bestetti a buttarla lì: “Gli diamo il ‘disturbo’ anche a lui”. ‘Disturbo’ è la parola chiave di decine di telefonate: s’intende, scrive il gip, “il compenso, sotto varie forme, promesso come corrispettivo per l’impianto delle protesi Ceraver”. Ma Valadé: “No no no…adesso non parliamo perché sai che Bruno è uno ligio al dovere...capito? Lui lo fa proprio per comodità, per correttezza, per tutto, capito?”. Comodità, dice proprio così. (manuela d’alessandro)

Arrestata la dietologa di fronte al Tribunale, aveva una doppia identità

“Poi le faccio avere la sua dieta”. Cristina Soresina alias Colombo si è rivolta così al gentile carabiniere che stava seguendo il suo caso, riuscendo a difendere l’orgoglio di dietista anche nel momento più duro, dopo che il giudice per le direttissime aveva convalidato gli arresti domiciliari.

Peccato che le diete non le potrebbe prescrivere, almeno come Cristina Soresina che poi è il suo nome vero, perché priva della necessaria attestazione dello Stato per esercitare la professione. Per aggirare l’ostacolo e anche farsi sganciare un finanziamento di 40mila euro dalla società Agos, la signora Soresina si è costruita nel giro di un paio di giorni una seconda identità.

Eccola trasformata in Cristina Colombo, cognome di acclarata milanesità per non dare nell’occhio, ‘dietista, biologa e nutrizionista’ che riceveva nel Manara Medical Center, poliambulatorio di fronte al Palazzo di Giustizia. Una donna nuova, con tanto di foto sul profilo Facebook che non le corrisponde.

Inquietante la facilità con cui è riuscita a cambiare cognome. Stando a quanto ricostruito dalle indagini dei carabinieri, lo scorso 23 giugno la donna si sarebbe presentata negli uffici del Comune di Cocquio Trevisago (Varese) denunciando, come Cristina Colombo, di aver perso i documenti e successivamente al Commissariato di Porta Ticinese, a Milano, dove avrebbe presentato la denuncia fornendo le false generalita’, dicendo di aver smarrito anche la patente, oltre alla carta d’identita’ valida per l’espatrio. Il giorno successivo, il 24 giugno, con la denuncia in mano, è riuscita a ottenere la carta d’identità a nome Cristina Colombo. Solo quando ieri i carabinieri, dopo alcuni accertamenti, sono andati arrestarla la donna ha ammesso di essere Cristina Soresina, con annessi precedenti penali. Ora è  indagata per falsita’ ideologica commessa dal privato in atto pubblico, per l’abusivo esercizio della professione, per sostituzione di persona e truffa.
(manuela d’alessandro)

Per il gip di Cappato “non c’è il diritto alla morte dignitosa in Italia”

 

In Italia “non esiste il diritto a una morte dignitosa”. Lo scrive il gip di Milano Luigi Gargiulo nel provvedimento con cui ha disposto l’imputazione coatta di Marco Cappato  per l”’aiuto al suicidio’ di Fabiano Antoniani. Un diritto che invece per la Procura andrebbe riconosciuto di fronte a “vite percepite, da chi le vive, indegne, inumane e troppo dolorose per essere sopportate”, come nel caso del 40enne Dj Fabo, rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale. Per i pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini l’esponente radicale non doveva subire un processo perché avrebbe ‘solo’ aiutato Antoniani a esercitare un proprio diritto.

Perché per il giudice invece non esiste il diritto alla morte dignitosa? Anzitutto, la sua esistenza “incontra un insormontabile ostacolo nell’assenza di una previsione normativa che facoltizzi questa scelta”. E un giudice non può trsformarsi in legislatore “perché introddurebbe nell’ordinamento un diritto inedito e, soprattutto, ne filtrerebbe l’esercizio, limitandosi ai casi in cui sussistano tali requisiti, peraltro meritevoli di una formulazione generale, astratta e rispetttosa del canone di precisione che una simile materia richiede”.

E nemmeno arrivare a questo diritto è possibile, come hanno fatto i pm, rivolgendosi ai principi costituzionali e alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In assenza di “un quadro normativo preciso”, scrive Gargiulo, “ammettendo il diritto a una morte dignitosa (per mano propria, previa altrui agevolazione o direttamente per mano altrui) per coloro che percepiscono la loro esistenza come troppo dolorosa” ci sarebbe  “il rischio assai concreto di un eccessivo, incontrollato accesso a tale opzione: si pensi ai casi di persone che percepiscono l’indegnità della propria vita a causa di patologie depressive, il cui giudizio sulla propria esistenza è pesantemente inficiato da tale condizione”.

Neppure le vicende di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro possono spingere a ipotizzare il diritto alla morte dignitosa.  “Nel contesto attuale – ammette il giudice -  esiste certamente un diritto a lasciarsi morire  per mezzo del rifiuto del trattamento sanitario (articoli 13 e 32 cost.)” ma in questi casi la morte arriva “non già per l’apporto di un elemento esterno ma per la naturale evoluzione delle patologie resa possibile dall’interruzione dei dispositivi che consentivano la protrazione dell’esistenza”.

Infine, anche il disegno di legge sul fine vita in discussione alla Camera “manterrebbe impregiudicata la piena responsabilità penale per chi agevolasse o istigasse l’altrui suicidio”. Insomma, per il giudice in questo momento non c’è nessuna strada percorribile per sancire il diritto a una morte dignitosa e Cappato va processato davanti a una corte d’Assise per un reato che prevede pene da 5 a 12 anni.  (manuela d’alessandro)

Imputazione coatta Cappato

Per il pm “morta perché denutrita” ma la perizia dice che era malata

 

Morta perché denutrita. Questo il mostruoso sospetto della Procura di Novara  che aveva indagato con l’accusa di omicidio colposo i genitori marocchini di una bimba di 5 anni deceduta all’ospedale Maggiore della città piemontese nel gennaio scorso.

Ora, gli esiti della consulenza medico legale disposta dal pm Ciro Vittorio Caramore raccontano tutta un’altra verità. La piccola, arrivata il 4 gennaio al pronto soccorso in coma, si è spenta  a causa della malattia di Leigh, una grave e incurabile sindrome neuro – metabolica da cui era affetta dalla nascita.

All’epoca grandi titoli di giornali sui genitori sciagurati e clandestini basati su una relazione della Questura che parlava di “apparente stato di denutrizione” e su quanto trapelato da fonti sanitarie e giudiziarie.

“Nei prossimi giorni – annuncia  l’avvocato Debora Piazza che assiste i genitori – chiederò alla Procura di archiviare la posizione dei miei assistiti”. “Dal punto di vista strettamente medico – legale – scrive la dottoressa Chen Yao nella sua relazione – l’accertata presenza della sindrome di Leigh, patologia di per sé a prognosi infausta, non consente di stabilire, con certezza o elevata probabilità logica, un nesso di causa tra la condotta inadeguata dei genitori e il decesso della bimba”. Tuttavia, la consulente si sforza di individuare delle responsabilità dei genitori, forse, ipotizza Piazza, “per salvare la faccia a chi l’ha avuta in cura”. “Indipendentemente dall’identificazione dell’agente eziologico che portò al decesso – si legge nel suo studio -  è emerso, sulla base delle testimonianze fornite dai medici che ebbero in cura la paziente, un inspiegabile, ingiustificato ritardo di richiesta di assistenza medica da parte dei genitori. Il ritardo non ha consentito un’idonea somministrazione dei presidi farmacologici necessari alla correzione dello stato di disidratazione e delle conseguente gravissima ipopotassiemia (carenza di potassio, ndr), privando così la bambina delle già poche chanche di sopravvivenza”.

“Nessuna responsabilità da parte dei genitori – ribatte l’avvocato Piazza – anzi potrebbero esserci negligenze  della struttura sanitaria dove era stata ricoverata nel settembre del 2016 e dei medici che l’hanno visitata in questi anni, non riscontrando la sidrome”.

In ogni caso, anche se fosse arrivata prima la diagnosi, questa è una malattia che non lascia scampo perché, spiega il medico legale, “nella maggior parte dei casi l’aspettativa di vita è ridotta a pochi anni”. Le uniche cure possono consistere nella somministrazione di vitamine e in una dieta adeguata. Si manifesta “in genere tra i 3 mesi e i 2 anni e i bambini colpiti presentano un progressivo ritardo dello sviluppo psico – motorio, perdita di appetito, vomito ricorrente” e altri sintomi invalidanti.

Tante scuse ai genitori di questa bambina fragile che, sottolinea il legale, “era stata fortemente voluta dalla mamma in tarda età, quando era già ‘vecchia’ per i dettami della religione musulmana”.

(manuela d’alessandro)