Categoria: Sanità
La storia d’amore del chirurgo carcerato Brega Massone
Si incrociano anche delle storie d’amore nei Tribunali, potenti come possono essere quelle che attraversano le gabbie dei carcerati. Lui è Pier Paolo Brega Massone, 54 anni, da dieci in gabbia (un solo permesso di 3 ore per i funerali della madre morta) con l’accusa di avere ucciso i suoi pazienti per fare soldi nella clinica Santa Rita, una smania irresistibile di affondare il bisturi senza necessità terapeutiche, per carriera e per denaro. Lei si chiama Barbara, è bionda ed elegante, gli occhi straziati di chi da un decennio segue il marito a ogni udienza. C’era anche il 21 dicembre 2015 quando, a sera inoltrata, lo arrestarono in aula per pericolo di fuga, una scena inedita tanto che alcuni avvocati avvezzi a tutto ammisero di avere sentito i brividi. Accadde dopo la sentenza d’appello che lo condannò all’ergastolo per 4 omicidi volontari, poi annullata dalla Cassazione che ha chiesto ai giudici di secondo grado di spiegare se Brega entrava in sala operatoria accettando l’idea di uccidere oppure ammazzò senza volontà (omicidio preterintenzionale). Nel nuovo processo, di questa storia ha parlato uno dei difensori di Brega, l’avvocato Nicola Madia. “Questa donna – ha detto indicandola – si è sentita dire tante volte dal marito ‘lasciami, divorzia, vivi la tua vita’ ma lei ha sempre detto di no. Non l’ha mai abbandonato, l’ha sempre amato. Due volte alla settimana va in carcere con la figlia, una ragazza cresciuta bene, bravissima a scuola, diventata grande imparando a vedere il padre in galera”. Per la prima volta in tanti processi, uno chiuso con sentenza definitiva di condanna a 15 anni per truffa e lesioni, oggi Brega Massone, che aveva sempre solo rivendicato di avere agito correttamente, ha chiesto scusa. “Dieci anni in carcere sono lunghi – ha spiegato alla Corte d’Assise d’Appello – c’è voluto del tempo, ho dovuto essere seguito e valutato. Mi dispiace moltissimo per tutte le persone coinvolte perché questa non era assolutamente la mia volontà. Mi dispiace per le tante persone che hanno sofferto”. Il pensiero finale per la moglie: “Vi chiedo di poter vedere la luce, almeno di potere stare con la mia famiglia”. Strategie processuali di avvocato e imputato per addolcire i giudici popolari? Forse. Ma resta quella storia capace di attraversare una gabbia e quella è innocente di sicuro. (manuela d’alessandro)
Giudici, liberi di morire a prescindere dalla malattia
“Liberi di morire come e quando si vuole”, a prescindere dalle condizioni di salute. Dice anche questo l’ordinanza con cui i giudici della Corte d’Assise di Milano hanno trasmesso alla Consulta gli atti del processo a carico di Marco Cappato. Un principio mai esplicitato nel lungo provvedimento ma deducibile, come confermano fonti giudiziarie, dal fatto che, in tutti i passaggi in cui si argomenta l’esistenza del diritto alla “libertà di scegliere come e quando morire”, non si faccia mai cenno alle condizioni dell’aspirante suicida.
Resta ferma invece la necessità, più volte ribadita dai giudici, che chi decide di togliersi la vita lo faccia senza che colui che lo agevola abbia influito in alcun modo sulla sua scelta libera e consapevole. Un’ipotetica applicazione applicazione concreta di questo principio porterebbe a considerare non punibile chi accompagni in Svizzera a morire una persona che non abbia alcun problema di salute. Un netto superamento rispetto alla recente legge sul testamento biologico che, come ricordato dal collegio presieduto dal giudice Ilio Mannucci Pacini, “non ha riconosciuto il diritto al ‘suicidio assistito’” e prevede condizioni molto stringenti di malattia fisica per interrompere le cure. Il mancato riconoscimento del diritto al ‘suicidio assistito’, scrive la Corte nel provvedimento, “non può portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre fine alla propria esistenza”. I giudici della Corte Costituzionale comunque decideranno quale percorso interpretativo intraprendere in modo autonomo rispetto alle opinioni espresse dalla Corte d’Assise che si è richiamata a numerosi articoli della Costituzione e anche alle Convenzioni e alla giurisprudenza comunitaria. Nelle loro memorie, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Sara Arduini facevano riferimento alle “condizioni oggettive” di chi versa in uno stato di malattia terminale o irreversibile e a quanto suggerito dal “comune sentire”. La Corte d’Assise va ben oltre, sostenendo il diritto a scegliere come morire anche di chi non versa in gravi condizioni di salute, come Dj Fabo, rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale e afflitto da dolori e sofferenze continue. (manuela d’alessandro)
“Liberi di morire come si vuole”, i giudici chiedono una rivoluzione alla Consulta
Né assoluzione né condanna per Marco Cappato. I giudici della prima corte d’Assise di Milano scelgono la terza via, chiedendo alla Corte Costituzionale di valutare la legittimità di una parte della norma che prevede il reato di ‘aiuto al suicidio’ (articolo 580 del codice penale). Una sospensione del processo ritenuta necessaria per decidere se il leader radicale è colpevole di avere fornito un aiuto materiale alla decisione di Fabiano Antoniani (meglio noto come Dj Fabo) – cieco e tetraplegico a causa di un incidente – di morire nella clinica Dignitas a Zurigo.
Nell’ordinanza, i giudici (presidente Ilio Mannucci Pacini) vanno ben oltre dal sollevare un semplice dubbio sulla costituzionalità della norma perché prendono una posizione molto netta, sostenendo che “deve essere riconosciuta all’individuo la libertà di decidere quando e come morire”, ma solo se chi decide lo fa in modo autonomo e consapevole. E infatti esultano sia Cappato, grato a Fabiano per avere fatto diventare pubblica la sua battaglia, sia il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano che, assieme alla collega Sara Arduini, aveva chiesto in prima battuta l’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’ o, in subordine, gli atti alla Consulta. “E’ un’ordinanza impeccabile – gioisce Siciliano - che fornisce numerosi elementi di valutazione ai giudici costituzionali”. Comunque vada, i massimi interpreti della carta fondamentale fisseranno un punto ‘storico’ nel dibattito sul ‘fine vita’ dopo la recente legge sul testamento biologico che, come precisato dalla Corte d’Assise, “non ha riconosciuto il diritto al ‘suicidio assistito’ ma questo mancato riconoscimento non può portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza”.
Erano due le contestazioni a Cappato, entrambe comprese nella complessa ipotesi di reato di ‘aiuto al suicidio’. Per una, quella di avere “rafforzato il proposito suicidiario’ di Fabiano, va assolto “perché non indirizzò o condizionò la sua decisione di togliersi la vita in Svizzera attraverso le modalità consentite in quello Stato, ma al contrario gli prospettò la possibilità di farlo in Italia, interrompendo le terapie che lo tenevano in vita”. Non ci sono dubbi invece che l’esponente radicale abbia “agevolato” Dj Fabo “avendolo aiutato a recarsi in Svizzera presso la Dignitas”. Ma qui entra in gioco quella che per i giudici è l’incostituzionalità della norma “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito del suicidio”.
Punire chi aiuta una persona a morire – i giudici addirittura non precisano se e in quale grado debba essere malata - non è sanzionabile perché contrasterebbe con gli articoli 2 (diritto inviolabili dell’uomo), 3 (uguaglianza dei cittadini) e 13 (divieto di restringere le libertà personali) delle Costituzione e gli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.Col loro provvedimento, togati e popolari riassumono decenni di decisioni italiane ed europee sul ‘fine vita’ con ampi cenni anche ai casi Welby ed Englaro e ad altre sentenze contrastanti sul reato di ‘aiuto al suicidio’. Un lungo cammino ora a una nuova, possibile svolta. (manuela d’alessandro)
Cappato ai giudici: assolvetemi come dico io, se no condannatemi
La sfida di Marco Cappato per il diritto alla dignità della vita e della morte di Fabiano Antoniani e dei tanti senza nome che accompagna in Svizzera arriva fino a rifiutare un’assoluzione. “Se dovete assolvermi perché considerate le mie condotte irrilevanti - implora la Corte d’Assise, chiamata a giudicarlo per il reato di ‘aiuto al suicidio’ – preferisco che mi condanniate“. Nelle dichiarazioni spontanee prima del verdetto, Cappato spiega di non volere un’assoluzione ‘solo’ perché non ha avuto un ruolo nei brevi istanti dell’esecuzione del suicidio, come ipotizzato anche dalla Procura. No, lui desidera con tutte le sue forze una sentenza che lo dichiari innocente perché ha aiutato Dj Fabo a esercitare il suo diritto alla vita e alla morte dignitosa.
La dignità è anche la parola ricorsa più spesso nella requisitoria del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Sara Arduini chiusa con le richieste di assolvere ‘perché il fatto non sussiste’ o, in subordine, di mandare gli atti alla Consulta per valutare la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Anche i pubblici ministeri avanzano una richiesta paradossale alla Corte: “Se non lo assolvete, allora dovete mandare alla Procura gli atti perché indaghi la mamma, la fidanzata e perfino il portinaio che quando Fabiano andò in Svizzera gli aprì il portone”.
“Vi invito a pensare che questa norma è nata nel 1930 col Codice Rocco – argomenta Siciliano nel suo intervento ricco di riferimenti alla Costituzione e alla legislazione e giurisprudenza europee - poco dopo la fine della prima guerra mondiale e l’influenza spagnola che aveva ucciso 700mila persone. Non c’erano gli antibiotici, non c’era il cortisone, l’età media era 46 anni. Si suppone che quella norma fosse rivolta solo ai sani che volevano suicidarsi. Fabiano non sarebbe sopravvissuto nemmeno un’ora all’incidente, sarebbe morto per un’infezione (…). Cerco di contenermi, ma la mia mente spazia domandandosi quante siano ora le vite artificiali che siamo chiamati a difendere. Ho visto polmoni irrorarsi da soli sui tavoli, vite solo per la capacità delle cellule di moltiplicarsi. La vita è solo questo? Mi viene da dire pensando a Fabiano, che chiamo così perché ci è entrato nel cuore, con una citazione letteraria: ‘Se questo è un uomo’ e quando dico uomo intendo quello che la Costituzione ci ha insegnato a credere che sia, un uomo che ha il diritto al suo pieno sviluppo e alla dignità. E come fa a esserci una dignità senza la libertà di esercitarla? Possiamo pensare che la condizione di dolore e di negazione della dignità in cui viveva Fabiano potesse essere vita? Noi non possiamo permetterci di stabilire cos’è degno per una persona. Nella Carte Europea dei diritti fondamentali, il diritto alla dignità viene messo per primo, quello alla vita è in ‘seconda posizione’. Nella nostra Costituzione di diritto alla vita non si parla, di questo diritto si parla solo nel codice civile e in questa norma di cui è accusato Cappato. Se Fabiano avesse avuto solo 30 secondi per muoversi liberamente, avrebbe messo fine alla sua sofferenza da solo”.
E c’è un altro libro che Siciliano ‘sfoglia’ nel suo intervento. “Anche nell”Utopia’ di Tommaso Moro nel 1516 si diceva che nel paese ideale c’è nella sofferenza umana un diritto a scegliere la fine, un diritto che viene riconosciuto sotto il prudente controllo del sacerdote e del magistrato. Per le sue idee, Moro è stato giustiziato e poi anni dopo fatto santo. Non dobbiamo arrivare a ‘santificare’ Cappato , dobbiamo imparare dalla storia. Certo, sarebbe meglio se un intervento legislativo desse una certezza su per fissare i limiti al ‘suicidio assistito”. Il 14 febbraio la sentenza o l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte. Oggi abbiamo visto lo sguardo sgomento di una giudice a latere seguire la mamma di Fabiano, la signora Carmen, che a un certo punto ha lasciato l’aula per alcuni minuti squassata dal pianto. Non sarà facile giudicare a cuore freddo. (manuela d’alessandro)