giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

“A cosa serve il carcere? A niente”. Il libro di Ricciardi

 

 

 

“Bisogna ‘reinserirsi’ tramite il lavoro, dicono, ma se il lavoro lo cercavi prima e non lo trovavi oppure quello che trovavi faceva schifo e per questo hai ‘infranto la legge’ che si fa? Si ricomincia da capo? Istituzioni locali, associazione e cooperative si affannano a progettare lavori per i detenuti perché, dicono, col lavoro, una volta usciti, non si torna a delinquere. Ma mi domando: tanto entusiasmo per l’inclusione sociale e lavorativa per chi finisce in carcere, perché non lo si mette in pratica prima che quei ragazzi costretti alla disoccupazione si rivolgano a pratiche illegali?”. Salvatore Ricciardi, ex ergastolano condannato per fatti connessi al tentativo di rivoluzione fallito tra gli anni ’70 e ’80, racconta la sua vita passata. “Cos’è il carcere? Vademecum di resistenza” è il titolo del libro editato da “Derive e approdi”, 125 pagine con la prefazione di Erri De Luca: ” Come un mal di denti torna nelle pagine di questo libro la domanda: a che serve? Con tutta l’esperienza accumulata e con l’addestramento che trasmette, la risposta non ci solleva dal grado zero sul livello del niente”.

“Cosa vuol dire ‘riportare il carcere alla legalità? Quale legalità? Le leggi esistenti sono nel loro insieme la legalità, sennò che altro sono? Abbiamo fatto cose non previste dalle leggi, vietate, illegali per dare una spinta alla modificazione delle regole in senso più inclusivo e aperto, perchè ogni pensiero critico ma anche ogni pensiero in sè si sviluppa fuori dalle legge altrimenti è qualcosa di stagnante, non è un pensiero”, scrive Ricciardi per impersonare lo scetticismo cosmico sulla possibilità di “riformare” il carcere, afferma che non è vero che il carcere è meno violento di prima. Muoiono 200 detenuti l’anno, 60 per suicidio. “Il cosiddetto carcere violento, quello delle rivolte, non registrava una strage delle dimensioni del carcere pacificato che ha triplicato i suicidi… Il suicidio è l’unica cosa che puoi fare in carcere senza dover compilare la perenne ‘domandina’”.

Salvatore Ricciardi è spietato con se stesso: “Questa è la mia storia e non uso la mia storia per sentirmi vittima del sistema anche perchè non mi ritengo vittima perchè le mie sono sempre state scelte di vita. Non me le ha imposte lo Stato nè la società. Sono scelte legate per ragioni economiche….”.

E’ un libro che invita a riflettere. Con Adriano Sofri avrebbero dovuto invitare anche Ricciardi a quella famosa riunione ministeriale sul carcere alla quale l’ex leader di Lotta Continua decise di non partecipare per evitare che una polemica già assurda si allargasse ancora in un paese devastato da decenni di “emergenze” diventate prassi di governo, dove il carcere viene usato come discarica sociale e al fine di regolare lo scontro politico. E dove l’opinione pubblica cosiddetta troppo spesso sembra più forcaiola dei magistrati, delle forze dell’ordine, dei politici (quando non sono loro a essere toccati) e dei media. (frank cimini)

‘Cos’è il carcere? Vademecum di resistenza’ di Salvatore Ricciardi. Editore Derive e Approdi, 125 pagg, 12 euro

 

 

“Non passa lo straniero”, Steccanella dipinge di rosa il calcio autarchico

 

 

In porta ‘Kamikaze’ Giuseppe Palazzi, il numero uno del Bari che non usava mai i guanti. In difesa, Giovanni ‘Nini’ Udovicich, dal 1958 al 1976 sempre con la maglia azzurra del Novara, il calciatore più bandiera di tutti nelle figurine di quegli anni. A centrocampo, il ‘poeta’ Enzo Vendrame che vicino alla linea di porta tornava indietro per “salvare un’emozione” (diceva). Sulla fascia, il ‘marziano’ della Samp Alviero Chiorri: giocava con gli scarpini spaiati e ora folleggia a Cuba. In attacco l’interista Sandro Vanello, il calciatore più abbronzato e donnaiolo d’Italia. Stiamo sfogliando lo sfavillante album degli “eroi dimenticati” allestito da Davide Steccanella nel suo racconto sugli anni (1966 – 1980) del calcio autarchico italiano, quando le frontiere vennero sigillate dopo l’umiliazione degli azzurri ai mondiali contro la Corea del Nord.

C’era una volta che in panchina al massimo si siedevano due calciatori e alle sfide ai rigori le squadre potevano decidere di far tirare i penalty sempre dallo stesso giocatore. Il piccolo Davide, poi avvocato, esordì a San Siro scattando decine di fotografie a Gigi Riva che sfidava col suo Cagliari tricolore il Milan di Nereo Rocco. “Per l’emozione non usai lo zoom e nelle foto apparve solo un gran manto verde del campo con degli omini piccolissimi, lontani, quasi surreali…”.  Quegli ‘omini’ ora ci appaiono giganteschi protagonisti di un libro affatto nostalgico ma cronaca gioiosa e ispirata da uno stile che rimanda a quel Sandro Ciotti capace di introdurre le partite con espressioni quali “inapprezzabile ventilazione” sul campo di gioco. Ciascuno dei capitoli intitolati con l’anno del campionato si sofferma su vincitori e vinti, offrendo ‘chicche’ e statistiche. La goduria però arriva alla fine di ogni resoconto con le storie degli “eroi dimenticati”, figurine che riemergono spensierate e intatte coi più bei colori della nostra infanzia. Davide riesce a incollarcele per sempre sul cuore. (manuela d’alessandro)

Davide Steccanella – “Non passa lo straniero (ovvero quando il calcio era autarchico)”. Edizioni Jouvence, pagg. 153, euro 14.

“L’ultimo fucilato” a Milano, processi, feste e morte nella città liberata

Ci sono 1432 tombe nel campo perenne riservato ai morti della Repubblica Sociale Italiana che si trova nel Cimitero Maggiore di Milano. Un piccola parte sono stati uccisi in combattimento o durante agguati partigiani nell’ultimo scorcio dell’avventura mussoliniana, gli altri sono tutti caduti per giustizia sommaria all’indomani della Liberazione.

Tutti, meno uno, l’unico fucilato in esecuzione di una regolare sentenza: Giovanni Folchi, ufficiale della Rsi, fascista della prima ora, e ultimo  condannato a morte nella storia della città.

E’ la Milano “festante, crudele e caotica” di quei giorni intorno all’aprile del 1945 quella in cui il cronista giudiziario Luca Fazzo immerge “L’ultimo fucilato”, la storia di un ragazzo che a 29 anni viene mandato alla più cruenta delle fini. La sentenza arriva dopo un solo giorno di processo nell’aula della Prima Corte d’Assise del Palazzo di Giustizia, stipata da ex partigiani che applaudono al verdetto, ed è firmata da Luigi Marantonio, presidente del collegio e magistrato con in tasca  fino a pochi giorni prima la tessera del Partito del Duce. Continua a leggere

“Crimini contro l’ospitalità”, un libro spiega bene perché chiudere i Cie

“Non è possibile umanizzare una istituzione che porta con sé inscritta la violazione dell’umanità. I Cie vanno chiusi”. In 103 pagine, un po’ reportage dal centro di “accoglienza” di Ponte Galeria, un po’ saggio, Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, spiega perché i Centri di identificazione ed espulsione, isitituiti con una legge che reca il nome dell’attuale capo dello Stato, sono incostituzionali. Scrive la’utrice: “La porta blindata che si chiude sulla libertà dell’immigrato si chiude anche sulla nostra democrazia”.

Perché nei Cie vengono privati di libertà e dignità persone che nessun reato hanno commesso. La loro colpa è essere “clandestini”. “Gli stranieri temporaneamente privi di passaporto o carta di identità diventano illegali. Una contingenza burocratica è assurta così a proprietà costitutiva e dominante di un essere umano. Su questo passaggio illecito e contrario a ogni logica si è fondato il reato di clandestinità” scrive l’autrice. Continua a leggere

‘Pistole e palloni’, gli anni ’70 nel racconto della Lazio campione.
Una squadra di “pazzi, selvaggi e sentimentali”.

Guy Chiappaventi, giornalista di La7 romano e laziale che si proclama insofferente agli spigoli della nostra città, da qualche anno si aggira col suo taccuino per i corridoi del Palazzo di Giustizia con l’aria sorniona di chi viene da un altro pianeta. Ora, leggendo il suo libro ‘Pistole e Palloni’ (Editore Castelvecchi),  intravvediamo finalmente da quale pianeta sia calato e, dobbiamo ammetterlo, una storia così a Milano, almeno in quella sportiva, non potrebbe mai essere stata scritta. Guy offre ritratti luminosi, dal portiere Felice Pulici al mister Tommaso Maestrelli,  dei ragazzi che vinsero il primo scudetto nella storia della Lazio il 12 maggio 1974, mentre lui era in prima elementare e l’Italia diceva sì al divorzio e all’aborto col disappunto di Pasolini, le cui riflessioni incorniciano non per caso i momenti più intensi di questo libro.  Sono le parole dell’intellettuale, comunista e omosessuale, a disegnare i confini del ‘campo’ in cui giocò quella squadra di “irregolari”, machista e missina, che per la prima volta nel dopoguerra strappò il tricolore al nord, e dove “le teste erano calde, andavano di moda le pistole e i paracadute, le partitelle di allenamento finivano a schiaffi, gli spogliatoi erano divisi per clan”.

“Io giravo con la pistola, una 44 magnum. Poteva servirmi in certi casi. Ma non l’avevo presa per autodifesa, alla Lazio eravamo quasi tutti armati. Con le armi ci passavamo i ritiri all’Hotel Americana”. Questo è Giorgio Chinaglia che per Pasolini era un centravanti “goffo e delirante”, per i tifosi un amatissimo “re Luigi XIV degli anni settanta”, in grado di poter battersi il petto con la foga che lo spingeva in area di rigore, urlando: “La Lazio? C’est moi.”

Tanti di quei giocatori ammiravano Giorgio Almirante ed esibivano pose neo – fasciste, pur senza essere consapevoli della matrice storica dei loro comportamenti, proprio negli anni del  ’riflusso’ che spegne il ’68 e porta dritto alla lotta armata.  L’ossessione della polvere da sparo bruciò il volo di Luciano Re Cecconi, l’angelo biondo a cui un gioielliere con una revolverata tolse la vita a 28 anni perché per scherzo inscenò una rapina nella sua bottega. Di quella squadra di “pazzi, selvaggi e sentimentali” spezzata da tali rivalità che i giocatori si cambiavano in due spogliatoi fisicamente distinti (quelli che stavano con Chinaglia e gli ‘altri’)  molti ebbero una sorte nera, dalla mezzala Frustalupi,  morto in un incidente stradale all’allenatore Maestrelli, il più dolce di tutti che sapeva come ammansire le sue belve e finì in una bara a un passo dalla panchina dell’Italia.  Tanti finirono risucchiati in inchieste giudiziarie, calcio scommesse, falsi in bilancio, passaporti truccati.  Long John Chinaglia è stato folgorato da un infarto in America da latitante, il 16 settembre di un anno fa. (manuela d’alessandro)