giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Gli incontri in tribunale tra la giudice milanese e le presunte ‘spie’

Milano, Palazzo di Giustizia, pomeriggio del 4 luglio 2023. L’ex poliziotto Carmine Gallo, ora investigatore privato, e l’esperto informatico Nunzio Samuele Calamucci bussano alla stanza 152. La porta è aperta, i due entrano, accolti dalla giudice Carla Romana Raineri.

Il colloquio dura un’ora: quei due che ne hanno viste di tutti i colori, come testimoniano gli atti dell’indagine sulla presunta carovana dello spionaggio che faceva salire a bordo di tutto di più, definiscono l’incontro “surreale”.

La giudice ha un grosso problema con un familiare e si è rivolta a loro “consapevole”, scrive il pm ma ovviamente è tutto da dimostrare e lo farà la magistratura di Brescia, che i due usassero metodi illeciti per informarsi su tre persone da lei indicate legate a ‘quel’ congiunto.

“Lo vuole rovinare, gli deprederà tutte le imprese e tutti gli immobili” sintetizzano  i rappresentanti della società  ‘Equalize’. E per farlo, dicono gli inquirenti, “si è esposta al ricatto”. “Stiamo facendo un favore grossissimo al presidente della sezione civile…” -  spiegano i creatori di dossier a una persona che ha dei grattacapi nel recuperare un credito —. Non dirlo a nessuno, nemmeno a tua moglie…appena tu sai chi è il giudice che si occupa di questo  me la vedo io”.

Gallo e Calamucci affermano che Raineri avrebbe avanzato perfino una richiesta spericolata: “Poi se volete pure intercettarlo abusivamente…”, riferito sempre a ‘lui’.

Quel pomeriggio di luglio non era la prima volta che la coppia andava a trovare la giudice. Il 13 gennaio 2023 Gallo la chiama avvertendola che col socio l’andranno a trovare. “Poi si rivolge a Calamucci ed esclama: ‘Ha detto se possiamo andare a noi al Palazzo di Giustizia, scende lei a prenderci, così ci evita il controllo!”. E così Raineri farà, andando gentilmente ad accoglierli all’ingresso per risparmiargli la noia di  svuotare le borse sul tapis roulant.

La complicata redazione del report con dati bancari, personali e giudiziari, prosegue con qualche affanno mentre la polizia giudiziaria li pedina, ascolta tutto e  scatta le fotografie  degli incontri.  (manuela d’alessandro)

Confessare un reato via instagram

Su instagram ci si innamora, si cucina, si telefona, si diventa ricchi e adesso si confessano anche i reati. Protagonisti sono dei giovani indiani, tra i 19 e i 25 anni, che in un video postato su un profilo riconducibile a uno di loro si vantano in lingua punjabi di avere preso parte a una rissa per la quale erano stati arrestati dei loro amici pochi giorni prima,  prendono in giro i carabinieri e  annunciano di volersi vendicare per i compagni finiti in carcere. Per queste loro esternazioni digitali, il gip di Cremona li ha puniti con la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per due volte al giorno per il reato di rissa aggravata. I tre, che vivono tra Lodi e Piacenza, erano stati sentiti come testimoni dai carabinieri dopo l’arresto di 4 partecipanti a una rissa scoppiata il 22 febbraio scorso tra due gruppi ‘rivali’ di giovani sikh che si erano dati appuntamento, sempre attraverso i social network, per scontrarsi davanti a centinaia di studenti in uscita da alcune scuole vicine e di fronte alla caserma dei carabinieri di Cremona. Nelle immagini postate su Instagram, si sono definiti  “delinquenti” e hanno minacciato di essere in possesso di una pistola che avrebbero potuto utilizzare. Dopo avere visto il video, i carabinieri li hanno identificati e hanno perquisito le loro abitazioni trovando in quella di uno dei ragazzi una pistola  Beretta comprensiva di caricatore a salve . Nel provvedimento cautelare, il gip sottolinea che nel video gli indagati hanno manifestato, oltre alla volontà di compiere altre aggressioni, anche “un’indole particolarmente aggressiva e spavalda facendosi scherno delle forze dell’ordine”. In fondo,  i processi sui social si celebrano già da un sacco di tempo. (manuela d’alessandro)

Per il pm “snob” le offese su Facebook non sono diffamazione

Si legge che in questi giorni la Procura della Repubblica di Roma avrebbe richiesto l’archiviazione della querela di una ragazza, ritenutasi diffamata su un social da chi l’aveva definita “una malata mentale, una bipolare che si imbottisce di psicofarmaci, figlia di un padre ubriaco che la maltratta”.

La motivazione, evidentemente in diritto, stante l’oggettiva portata offensiva della frase in oggetto, si presenta in certo senso “rivoluzionaria”.

Posto che il reato di diffamazione tutela l’altrui reputazione, ritiene la Procura che questa non venga scalfita da quanto riportato su Facebook, in quanto luogo, si legge “popolato dai soggetti più disparati che esternano il proprio pensiero senza l’autorevolezza delle testate giornalistiche e di fonti accreditate”.

Conclude pertanto la Procura che siccome FB “gode di scarsa credibilità”, le espressioni denigratorie ivi usate verrebbero percepite agli occhi dei terzi” solo come un ”modo di sfogarsi o di scaricare lo stress o la propria rabbia”.

In sostanza, poiché il reato di diffamazione è reato di pericolo, ritiene la Procura romana che quanto si legge su FB non metta neppure “in pericolo” l’altrui reputazione per totale assenza di autorevolezza.

Il ragionamento potrebbe anche apparire condivisibile, se non peccasse di un certo soggettivismo “snob” che ci fa domandare in che “mondo ideale” viva l’estensore di siffatta richiesta.

Siamo tutti d’accordo che nessuno dovrebbe formarsi opinioni sulla base di quanto si legge su FB e proprio per le medesime ragioni indicate dalla Procura, ma questo se vivessimo in un mondo interamente popolato di menti raffinate e selettive. Ma ben sappiamo che non è così, dato che vi è chi sostiene che persino l’esito delle elezioni presidenziali americane sarebbe stato pesantemente influenzato dai social, e per tacer di casa nostra ove c’è chi ha costruito gran parte del proprio consenso attraverso le cosiddette piattaforme (termine orrendo) web. Anche perché, mentre è certo che FB lo leggono tutti, grandi e piccini, non so quanti lettori possano ancora vantare quelle “autorevoli testate giornalistiche accreditate” indicate dalla Procura.

So bene che quando ancora non c’era internet e tutte quelle “belle “cose di oggi, Vittorio Gassman riempiva i teatri tenda delle periferie milanesi con l’Adelchi o Ermanno Olmi si classificava secondo per incassi dopo Geppo il folle di Celentano con un film in dialetto bergamasco, ma oggi mi pare che più che la “cultura di massa” si persegua la massa priva di cultura, e temo che se si vuole davvero danneggiare qualcuno non vi sia niente di meglio che insultarlo sui social.E poiché il reato di diffamazione si consuma allorquando viene messa a repentaglio, anche solo potenzialmente, la reputazione di altro soggetto, ritenere che oggi questo non possa accadere sol perché l’offesa non proviene da una “fonte autorevole”, somiglia più a un lodevole auspicio che a una presa d’atto. Se un tempo bastava “un venticello” a portare in giro la “calunnia” rossiniana, figuriamoci mezzi diffusi come Facebook, Twittter e chi più ne ha più ne metta. Piuttosto si decida una buona volta di depenalizzare il reato di diffamazione, come da più parti e da anni viene suggerito, ma autorizzare il Far West sui social, contando sul fatto che le persone oggi si formino un’opinione solo leggendo Montale o Umberto Eco, non ci pare cosa buona e giusta.Concludo augurandomi che questa richiesta non sottintenda in realtà un’ennesima invasione “etica” dell’ordinamento penale nella vita dei cittadini, ai quali, dopo avere più volte spiegato con chi, e in che modo, potevano fare sesso, ora viene impartito loro anche cosa dovrebbero… leggere. (avvocato Davide Steccanella)

“Distrutto dall’inchiesta su Hacking Team, 3 anni dopo torno a vivere”

“Ero finito nel mirino per avere lasciato la società perché non condividevo le loro scelte etiche e di business, ma ora finalmente un giudice ha messo la parola fine a questa storia”.  Alberto Pelliccione, 35 anni, sta comprando bottiglie di vino buono da offrire ai familiari a Singapore, dove si trova per lavoro. Era stato accusato di aver orchestrato, assieme ad altri ex dipendenti, il più clamoroso attacco informatico della storia italiana, quello ai danni di Hacking Team, società che vende software – spia a polizie e governi. Oltre 400 gigabyte di documenti interni alla società, tra cui email e password dei dipendenti, e il codice sorgente di Rcs, vennero squadernati sul web tra maggio e luglio 2015, e fecero il giro del mondo.

Di pochi giorni fa la notizia, passata quasi inosservata sui media rispetto alla grande eco che ebbe l’indagine, dell’archiviazione da parte del gip di Milano Alessandra Del Corvo nei confronti di Pelliccione e degli altri indagati. A puntare il dito contro di loro era stato David Vincenzetti, l’ex ad e fondatore della società con sede a Milano. “Era il 2015, un anno e mezzo prima avevo dato le dimissioni da Hacking Team – ricorda  Pelliccione, precoce cyber talento tra i più brillanti nel settore della sicurezza -  poi sul mio esempio se ne andarono altri. Non volevamo più stare in quell’ambiente, soprattutto per ragioni etiche. Furono segnalati abusi dell’utilizzo del software in Marocco, dove venne usato contro gli attivisti per i diritti umani, a Dubai dove un professore venne imprigionato, sempre tramite il software di HT, per le sue idee, in Etiopia, dove il governo lo usò per rintracciare e punire giornalisti che erano contro il regime. E ancora, in Messico dove alcuni politici utilizzavano gli strumenti forniti dalla società per spiare i cronisti anche nell’intimità, e in Sudan”. Tutto grazie a un software che, come un cavallo di Troia, si infilava nei computer e negli smartphone consentendone la totale sorveglianza all’insaputa del ‘bersaglio’. Dopo avere lasciato Hacking Team, Pelliccione fonda la società ReaQta con sede a Malta finalizzata – secondo la denuncia di Vincenzetti rivelatasi infondata – a neutralizzare il codice Rcs. “Quando si è saputo dell’inchiesta sono rimasto sconvolto. Ho pensato subito a uno sgarbo che mi era stato fatto da dentro. All’improvviso ho cominciato a essere trattato come un criminale, sapevo di non avere fatto nulla ma ero nella mani e nei tempi della magistratura. Nessun cliente si fidava più di noi, per un anno il nostro business è rimasto congelato. La notizia era arrivata ovunque, negli angoli più remoti del mondo”. Nell’agosto del 2015, Pelliccione viene convocato dal pm Alessandro Gobbis: “Gli spiegai che secondo me si era trattato di un attacco politico, come poi venne confermato dalla rivendicazione di ‘Phineas fisher‘ (mai individuato, ndr). Credo che lui capì che non c’entravo niente ma mi fece intendere che il caso era delicato e non si sarebbe chiuso velocemente”. Dai dati resi pubblici in seguito all’attacco, era emerso che un colonnello e un generale dei servizi segreti italiani erano legati ad HT. Nel frattempo, il pm che, secondo Pelliccione “ha svolto un lavoro eccellente”, inizia a seguire la pista americana recuperando le orme di un cittadino statunitense di origini iraniane, Fariborz Davachi, titolare di una rivendita di auto nel Tennesee. Per la Procura e per il giudice che ha archiviato avrebbe avuto un ruolo nella preparazione materiale dell’attacco ma potrebbe essere stato solo l’esecutore di una trama di cui era all’oscuro. “Chi vende una pistola illegale non è tenuto a sapere delle intenzioni omicide di chi la compra”, ragiona Pelliccione secondo cui invece, a differenza di quanto sostenuto da pm e gip, gli Usa hanno collaborato come dovevano per individuare gli autori del blitz. “L’Fbi ha fatto le perquisizioni e trasmesso gli atti all’ambasciata romana, poi a un certo punto, usciti dal mondo ‘terreno’ dove si è incontrato Davachi, è diventato impossibile seguire le tracce nel mondo digitale”. Quelle che invece è certo, secondo il gip, è che l’incursione informatica non ha servito nessuna buona causa ‘umanitaria’, come sostenuto da ‘phineas fisher’, rovinando invece “indagini in corso per la scoperta di gravi reati, come il terrorismo internazionale”. Questo romanzo digitale potrebbe avere un’appendice. Pelliccione, assistito dagli avvocati Marco Tullio Giordano e Giuseppe Vaciago, sta pensando ad azioni legali contro Vincenzetti anche sulla base di un passaggio del provvedimento del gip che rimarca un possibile tentativo di intrusione proveniente dall’interno di HT ai danni di un indirizzo di Malta.

(manuela d’alessandro)

 

Cyberbullismo, dall’idea di un pm la pagina Fb per genitori e scuole

L’idea è venuta al pubblico ministero esperto di reati informatici Francesco Cajani. Una pagina Facebook in cui  magistrati, forze dell’ordine, avvocati, docenti universitari, criminologi si mettono a disposizione di genitori e insegnanti per aiutarli ad affrontare episodi di cyberbullismo e le questioni sollevate dal rapporto tra la  tecnologia e i ragazzi. Molti di questi professionisti, per ora una sessantina, sono soci o simpatizzanti di Ilsfa, la principale associazione di informatica forense in Italia, che da un paio di settimane ha lanciato il gruppo chiuso su Fb (Ilsfa Educ@tional Response Team) a cui le scuole di ogni ordine e grado e le famiglie possono rivolgersi scrivendo un messaggio. “Vogliamo dar vita a uno spazio protetto che ha lo scopo di trovare soluzioni, idee e proposte – spiegano i promotori  - Garantiremo il nostro tempo libero e un sostegno qualificato, ma senza andare di persona nelle scuole perché spetta a genitori e insegnanti risolvere i problemi”. Tra gli strumenti offerti a chi è in difficoltà, si pensa anche a dei video da proporre nelle scuole, il cui contenuto verrà calibrato  a partire dalle sollecitazioni di chi chiede aiuto. In un recente incontro promosso da Ilsfa, Cajani, già pm in uno dei primi processi sul bullismo via web (Vividown contro Google) e punto di riferimento italiano per Eurojust, ha raccontato di avere messo “nello zainetto che mi porto in giro per l’Europa, tra Strasburgo e Bruxelles, anche il telefono di Peppa Pig sottratto ai miei figli. Trovo che sia un efficace simbolo del nostro tempo. E’ un giocattolo che, per essere venduto, deve avere necessariamente il marchio CE, un marchio che impone alle imprese ben precise regole di produzione e commercializzazione, ai fini di una sicurezza del consumatore finale in quanto minore e, per definizione, vulnerabile. Possibile invece che per i nostri telefoni che giocattoli non sono, e con i quali i nostri figli intrattengono spesso la maggior parte della loro vita di relazione, tutto questo non sia ancora previsto?”. Il rischio per il magistrato milanese “è che si posso realizzare una libertà intesa come assenza di leggi e, quale pendant culturale, uno sviluppo relazionale – tecnologico dei nostri figli anche qui caratterizzato da un’assenza di leggi”.

(manuela d’alessandro)