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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La sala stampa del Palazzo di Giustizia sta per chiudere

“La sala stampa del Palazzo di Giustizia chiuderà a settembre”. L’annuncio, questa volta apparso implacabile rispetto ad altri analoghi negli anni passati, è stato dato sabato scorso dal Presidente del Gruppo Cronisti di Milano, Rosi Brandi, durante la cerimonia del ‘Premio Vergani’.

Le testate giornalistiche non riescono a pagare l’esorbitante canone d’affitto di 14mila euro all’anno per la malmessa stanza di circa venti metri quadri che ospita i giornalisti da più di  due decenni. “Alcune aziende editoriali,  Poligrafici, Mediaset, La7, Il Fatto Quotidiano, nonostante le ripetute sollecitazioni”, si legge in una nota del Gruppo Cronisti, non versano la loro quota. Proprietaria dello spazio è l’Agenzia del Demanio (Ministero dell’Economia) che stipulò a suo tempo un contratto col Gruppo e  l’ha data in gestione al Comune di Milano. La cifra a carico dei giornalisti è salita nell’ultimo anno a causa dei continui lavori di manutenzione di tutto il Palazzo, e adesso la gestione della sala stampa pesa come un ‘rosso’ non più sostenibile sui bilanci del Gruppo. “Le aziende in difetto – spiega Rosi Brandi – verranno di nuovo sollecitate, ma se non si decideranno a dare il loro contributo la chiusura sarà inevitabile”.

Una soluzione potrebbe essere l’abbassamento dell’affitto da parte del Demanio, altrimenti non resterebbe che cercare una nuova ‘casa’ all’interno del Palazzo per i cronisti. Nei mesi scorsi, era stata ventilata dalla Procura la possibilità di concedere gratis ai giornalisti uno spazio, ipotesi non gradita da alcuni per ragioni di opportunità. (manuela d’alessandro)

Sicurezza? Ecco come abbiamo violato la sala server del Tribunale

 

 

Pochi giorni prima della sparatoria, siamo entrati nella sala server del Tribunale che si trova nella palazzina di via Pace, la nuova ‘casa’ della giustizia milanese che sta sorgendo accanto al Palazzo. La foto che pubblichiamo documenta quanto sia stato facile violare la stanza dove è in costruzione quello che è destinato a diventare il ‘cervello’  informatico non solo della giustizia meneghina ma anche di quella italiana, insieme alle sale server di Roma e Napoli.

Stavamo cercando informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori finanziati coi soldi Expo che scontano un ritardo ormai di anni. Ritardo non quantificabile dal cittadino perché il cartello che, per legge, dovrebbe segnalare il termine di consegna dell’opera è sbiadito per il trascorrere del tempo. Avvicinandoci all’ingresso ci siamo resi conto che varcarne la soglia non presentava alcuna difficoltà. Nessuna opposizione nell’entrare e nel vagare per la sala server i cui lavori, come testimonia l’ immagine, dovrebbero essere in dirittura d’arrivo. Con altrettanta tranquillità siamo usciti da quello che dovrebbe essere un ‘santuario’ inviolabile, al punto che l’appalto per la sua costruzione è ‘segreto’ e non si sa neppure chi si sia aggiudicato i lavori, a differenza che per tutti gli altri sotto l’egida di Expo.  Nei mesi scorsi il Presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, come riportava il ‘Corriere della Sera’, aveva inviato una lettera al Comune e al Ministero della Giustizia chiedendo di chiarire le ragioni del ritardo per la “realizzazione di una sala server destinata anche al funzionamento e alla sicurezza dei dati relativi”. Ora scopriamo che c’è un ritardo anche nel garantire la sicurezza del luogo. (manuela d’alessandro)

la-carte-degli-appalti-expo-senza-gara-per-tribunale-a-chi-e-perche-sono-finiti-i-fondi-per-la-giustizia-milanese

 

Da avvocato dico che non era il momento di sventolare la toga

Non era quello il momento di ostentare la propria toga.
Mi dispiace dovere intervenire su un fatto tragico come quello vissuto da molti di noi nel Tribunale di Milano quella drammatica mattina del 9 aprile, solo un doloroso e rispettoso silenzio infatti avrebbe dovuto essere a parer mio garantito all’immenso dolore privato di chi è stato direttamente coinvolto nei suoi affetti più cari da una catastrofe così “assurda”.
Ma quanto mi è toccato di sentire e di leggere “dopo” da parte di alcuni, anche autorevoli, rappresentanti di categoria (termine orrendo), siano stati magistrati oppure “colleghi” mi ha creato non poco disagio, perché bene o male in quel Tribunale ci lavoro anche io da anni, e dentro a quel Tribunale ci lavorano molti miei amici, magistrati e “colleghi”.
Non mi importa per niente stabilire oggi “chi dei due abbia cominciato prima”, chi sostenendo che quell’efferata strage sarebbe stata figlia di un “clima ostile” e chi vantando invece la nobiltà della propria professione, magari evocando, entrambi, antiche figure di una storia passata dove inconcepibilmente assimilare, a seconda del dichiarante, storie tra loro così diverse come quelle del giudice Alessandrini o dell’avvocato Ambrosoli.
L’impressione per chi leggeva e sentiva, o almeno così è stato per me, è stata quella di veder trasformare una tragedia ancora “a caldo” (ammesso che in un caso del genere ci possa mai essere un “a freddo”) in una pubblica rivendica di ruolo, se non addirittura di “eroismi” di categoria.
Quanto sono soli e incompresi i magistrati e quanto sono nobili e fondamentali gli avvocati ed ecco perché rischiano la vita tutti i giorni in Tribunali privi di difesa, insomma, un morto per uno e pari e patta di pubblico memento sulle opposte ribalte del lutto e pace fatta, dopo gli inziali attriti, tra le due fazioni.
Il dizionario suggerirebbe per tutto questo il verbo “strumentalizzare”, io non mi permetto di volere leggere cosa passava nella testa di chi subito dopo esternò. Forse la violenta emozione  per un fatto di tale eccezionalità ha giocato qualche brutto tiro a chi è stato indotto a dovere per forza dire a tutti i costi qualcosa di significativo, ma sta di fatto che come avvocato mi sono sentito un po’ in imbarazzo verso tutti quelli che pure lavorano ogni giorno in altre arti e mestieri. Poteva accadere ovunque e a chiunque.
Una moglie straziata piangeva appena fuori dal Palazzo il marito freddato a pochi mesi dalla pensione ed il giorno dopo una madre dentro quel palazzo il proprio giovane figlio ad una pubblica commemorazione sentita e commossa di centinaia di partecipanti silenti e attoniti.
Sono morte due persone, anzi per la verità tre, vi sono stati anche feriti, e una ulteriore famiglia, quella del “killer” (come si legge sui media), sta vivendo il peggiore degli incubi.
Non era quello, a mio parere, il momento migliore per ostentare al mondo la propria toga, ma in Italia, si sa, le morti, soprattutto quando sono eclatanti, raramente inducono i più a commenti all’altezza della tragicità dell’evento.
Davide Steccanella

I lavoratori ai vertici del Palazzo, “avete visto un film diverso sul dopo sparatoria”

Cosa è successo a Palazzo di Giustizia negli istanti successivi alla sparatoria? All’assemblea convocata stamattina dai lavoratori nella ‘Sala Valente’ di fronte all’edificio del Piacentini abbiamo ascoltato due versioni. Una, rassicurante, è stata espressa dal procuratore Edmondo Bruti Liberati e dal Presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, i quali hanno sottolineato come non si sia vista “nessuna scena di caos o panico”. “Non c’erano direzioni sicure in cui evacuare – ha spiegato Canzio – e i dipendenti hanno seguito l’indicazione di stare chiusi negli uffici. Il loro comportamento è stato un esempio di sobrietà e adeguatezza di fronte a un evento così tragico. “Per circa mezz’ora – è il racconto di Bruti – non sapevamo se Giardiello fosse nel Palazzo ma non c’è stato nessun panico. Quando è arrivata la notizia del suo arresto, il controllo del Palazzo era già stato quasi completato”.

Molto diversa l’interpretazione data da diversi lavoratori che hanno preso la parola dopo Bruti e Canzio, che, nel frattempo, avevano lasciato la sala. “Io ho visto tutto un altro film – ha detto un esponente dell’Uilpa – Ero al piano terra dove c’era il caos totale. E’ vero, non ho visto persone che si strappavano i capelli, ma girava gente armata senza pettorina nè distintivo. Solo il buon senso ci ha suggerito di stare negli uffici”. “Il personale non è formato al piano di evecuazione – ha affermato un altro dipendente – ciascuno di noi, in casi come questo, dovrebbe sapere dove andare, per esempio si dovrebbe sapere come portare fuori un collega che ha delle disabilità. I corsi sull’evecuazione li fanno ai bambini di prima elementare, non è possibile che qui ci si affidi al passaparola o a una e – mail”. Su quanto accaduto, abbiamo raccolto anche la testimonianza di un militare che lavora ‘in borghese’ al Palazzo: “All’inizio non c’era nessun coordinamento, abbiamo preso le pistole ci siamo divisi tra noi le zone del Tribunale dove cercare Giardiello. Solo dopo molto tempo sono arrivati dei superiori che ci hanno dato indicazioni su come muoverci”. (manuela d’alessandro)

Nuovo scontro, pm contro Bruti su nomine anti terrorismo

Non è finita, e che potesse davvero finire ci ha creduto solo il Csm quando ha cacciato Alfredo Robledo da Milano.

Questa volta all’ombra dei marmi del Piacentini ci si accalora sulla nomina da parte di Edmondo Bruti Liberati del pm Enrico Pavone al quarto dipartimento che si occupa di terrorismo e reati informatici. E non è così importante capire chi ha ragione e chi ha torto, ciò che conta è la sensazione di una Procura ancora livida di tensioni.

Ma veniamo alla nuova polveriera. Dopo l’addio all’esperta in eversione Grazia Pradella, migrata a Imperia, si era aperto un concorso interno per scegliere un sostituto.  In fila per conquistare un posto erano in sette ma alla fine il capo ha scelto il 18 marzo scorso Pavone. A tre degli ‘sconfitti’, Francesco Cajani, Paola Pirotta e Alessandro Gobbis, non è piaciuta la modalità con cui Bruti ha selezionato il pm, a loro dire senza motivare la scelta tant’è che nel provvedimento di nomina non risulta traccia formale della loro bocciatura. I tre hanno investito delle loro perplessità il Consiglio giudiziario che nei prossimi giorni convocheràMaurizio Romanelli, capo del pool, per ascoltare la sua versione e  dovrà anche pronunciarsi sulla possibile irregolarità della nomina di Pavone, il quale non avrebbe trascorso, come prevede il Csm, due anni in un dipartimento prima di passare a un altro.

Vi chiederete: ma perché quei tre volevano prendere il posto di Grazia Pradella quando già stanno nel quarto dipartimento? Perché ritengono di essere stati emarginati in questi mesi dalle inchieste di terrorismo e ‘costretti’ a occuparsi per lo più di reati informatici. E perché erano emarginati? Forse, azzardiamo, in quanto considerati ‘roblediani’ ? Che fosse o meno così - Bruti rivendica la correttezza della sua scelta (“Sono state rispettate le regole, le domande erano inammissibili ed era giusto assegnargli meno fascicoli di terrorismo “) –  rieccoci al punto di partenza. Il Csm, che da mesi tergiversa sull’incompatibilità ambientale di Bruti, come ha potuto credere di risolvere una frattura così profonda in Procura solo cacciando Robledo? (manuela d’alessandro)