giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La decisione del giudice arriva ai legali 5 anni dopo con la posta elettronica

Col formidabile acceleratore della Pec – fulmineo acronimo che sta per Posta Elettronica Certificata e rimanda a un mondo ideale di giustizia senza carta -  viene recapitato oggi in uno studio legale milanese l’avviso che il dieci novembre 2010 il Tribunale di Milano (in funzione di giudice del Riesame) si è pronunciato respingendo l’istanza di scarcerazione di un detenuto per reati fiscali.

“Ora potremmo fare ricorso in Cassazione contro questa decisione”, ironizza uno dei difensori. Per fortuna, la giustizia degli uomini va più veloce di quella divina e anche di quella digitale. Così, G.B., arrestato e portato a San Vittore nel 2010, ha patteggiato nel dicembre 2010 tre anni e quattro mesi di carcere e poi gli sono stati concessi i domiciliari. Ha fatto in tempo anche a operarsi al cuore (quando era ancora in carcere) e a fare chissà quante altre cose mentre la Pec percorreva il suo onirico viaggio dalla cancelleria del Tribunale allo studio legale. (manuela d’alessandro)

Cadono lastre dal soffitto del nuovo Tribunale. Un avvocato, “salva per un soffio”

“Camminavo al piano terra quando ho sentito un boato, come un colpo di pistola”. Sono le nove di lunedì mattina e l’avvocato Annalisa Premuroso sta percorrendo il corridoio della nuova palazzina del Tribunale di Milano. “Un collega, mentre ancora non mi rendevo conto di cosa fosse successo – racconta –  mi avverte che è caduto a terra un pannello che si è staccato dal soffitto, che mi ha sfiorata alle spalle e non mi ha preso per un niente…”.

Se il giudice imprigionato nel bagno con la maniglia rotta aveva strappato un sorriso (qui), quanto accaduto all’avvocato Premuroso fa paura, ancor più perché la settimana scorsa era piombato dal soffitto un altro tassello. “E in quel caso non si era neppure chiuso il corridoio, come sarebbe stato logico fare. Stiamo aspettando il morto? – si chiede il legale – La lastra era molto pesante, di cemento e intonaco, se mi avesse colpito mi sarei fatta molto male”.

Oggi, invitata da un giudice, l’avvocato ha presentato una denuncia alla commissione logistica del Tribunale allegando le immagini del crollo.

Maniglie che si rompono, cellulari che non prendono, luci al neon definite “insostenibili” da chi ci lavora e adesso parte del soffitto che viene giù. Bella è bella, la nuova palazzina destinata ai processi di lavoro e famiglia, lo dicono tutti. Ma sembra la bellezza di una donna troppo truccata per nascondere imperfezioni pericolose.

Manuela D’Alessandro

 

Il giudice imprigionato in bagno spacca la porta e i carabinieri lo verbalizzano

Eccoci nella nuova, scintillante palazzina della giustizia milanese, quella riservata ai giudici civili e del lavoro da poco inaugurata. Il giudice entra in bagno per fare la pipì e, chiudendo la porta dietro di sé, resta con la maniglia in mano. Che fa? “La pipì anzitutto e poi non mi faccio travolgere dal panico, prendo a manate la porta e urlo di venirmi ad aprire”. Non può telefonare perché i cellulari nella nuova, scintillante palazzina non prendono (l’avevamo raccontato qui). Allora si mette comodo e pensa: ‘Prima o poi a qualcuno scapperà la pipì’. Invece i suoi colleghi (il bagno è di servizio) se ne stanno tutti beati dietro alle scrivanie.

Passa mezz’ora e la pazienza si fiacca. Il giudice prende il mozzicone di maniglia e colpisce la porta che scopre essere di pastafrolla. Con due calcioni apre un bello squarcio nel ‘tamburato’.

“Stai calmo, ora ti salviamo!”, gli urlano dall’aldilà sentendo i rumori delle pedate. Dallo squarcio intravvede due carabinieri. Aprono quel che resta della porta. Neppure un secondo per rigustare la libertà che il brigadiere gli chiede i documenti e verbalizza le generalità.  “Potevate almeno chiedermi come stavo…”, butta lì il magistrato. “Signore, noi facciamo il nostro lavoro…”, risponde il militare che di fronte alla porta rotta forse vola con la fantasia e pensa a un’ipotesi di danneggiamento aggravato dall’uso di una maniglia contundente. (manuela d’alessandro)

ps. qualche giorno prima una collega del giudice imprigionato aveva segnalato all’ufficio manutenzione che la maniglia era rotta.

Pm Milano, un capo da fuori. Se non ora quando? Mai…

 

Se non ora quando? Mai, pare. Stando ai boatos dal Csm e da chi sa nemmeno stavolta la procura di Milano appare destinata a vedere un “papa straniero”, un magistrato non proveniente dal suo interno. I favoriti sono Francesco Greco, Alberto Nobili e Ilda Boccassini, tutti procuratori aggiunti in corso di porta Vittoria. Uno dei tre prenderà il posto di Bruti Liberati in pensione dal prossimo 16 novembre. Insomma nemmeno lo tsunami del durissimo contenzioso tra Bruti e Robledo porterà a ribaltare un quadro esistente da decenni.

Troppo rischioso sarebbe affidare l’ufficio a qualcuno fuori dai giochi. Il Csm non vuole scherzi. Del resto il cosiddetto autogoverno dei magistrati aveva atteso l’annuncio del pensionamento di Bruti per avviare un disciplinare che non si farà mai. A carico dell’ex capo. Lo subirà invece Robledo, già trasferito a Torino per lesa maestà.

Non conta nulla il fascicolo sulla Sea dimenticato per 6 mesi in un cassetto e affidato a Robledo solo quando la gara d’asta si era già consumata. Con la regìa nemmeno tanto occulta di Napolitano si era stabilito che la ragione stava dalla parte della gerarchia e basta. Magistratura Democratica, che di recente aveva rinunciato a battagliare per la presidenza del Tribunale, pretende con forza di continuare a gestire la procura, le indagini e pure le non indagini. Perché ci sono da gestire le conseguenze della moratoria investigativa investigativa su Expo, che come contropartita aveva avuto un grazie “per la sensibilità istituzionale” a Bruti dal presidente del consiglio dei ministri.

In questa storia ci sono tanti saluti per i principi strombazzati a ogni occasione in convegni e comunicati, l’esercizio obbligatorio dell’azione penale, la legge è uguale per tutti, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Belle parole utili a coprire le peggiori nefandezze, per far vincere l’appartenenza, la politica nel senso deteriore del termine. Garantiscono il Csm e il consiglio giudiziario che hanno dimostrato di avere l’omertà nel loro Dna. Salvo poi farsi belli evocando Falcone e Borsellino. Abbiano almeno il pudore di lasciare in pace i morti questi signori vincitori di concorso che fanno scelte politiche senza doverne rispondere ad alcuno. Riescono a fare peggio dei politici e questa è un’impresa (frank cimini)

Fare una denuncia alla polizia nel cuore della città di Expo

Via fatebenefratelli, siamo in uno dei quartieri più eleganti di Milano, a due passi da via dei giardini per intenderci, la casella viola più pregiata del monopoli. Nel bel palazzo neoclassico della questura c’è, appena dopo l’ingresso, una sala d’attesa di pochi metri quadri che ospita chiunque, cittadino o meno, desideri parlare con un poliziotto. Sono solo tre gli agenti che raccolgono le denunce. Tempo d’attesa, non meno di un’ora e mezza.

Uno di loro si affaccia e scruta la platea accalcata.  Ne approfittano due ragazzi francesi. “Do you speak French?”, chiedono ambiziosi. “No”. “Do you speak english?”. “No, non parlo niente”, ribatte l’agente, che poi, rivolto a tutti, esorta “Vedete voi come organizzarvi con la coda”. Siamo in Polizia, mica dal salumiere, qui i bigliettini non sono previsti. Devi occupare il posto in modo marziale, o quelli dietro di te ti fanno secco. Una signora di origini slave regala un po’ di cabaret agli astanti e poi s’informa con un altro agente sul dormitorio in cui  trascorrere la notte. “Signora, in via Ortles non c’è posto, deve rivolgersi al commissariato più vicino a casa”. Una senzatetto avrà certo un commissariato vicino a casa.

Un signore  vorrebbe portare il suo bambino a fare la pipì nel wc della sala d’attesa.  La porta non si apre, nonostante gli sforzi di tutti, poliziotti compresi. Alla fine i due vengono invitati ad andare al bar di fronte alla questura. La coppia di francesi riprova a chiedere informazioni. La risposta è in italiano e il ragazzo, che non avrà più di 20 anni, adesso è seccato: “I don’t understand italiano”, poi, in inglese, conciona sui nostri usi con quel tono irritato che sanno avere i francesi per concludere con un lapidario “I never saw that”. (manuela d’alessandro)