giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Errore dei giudici d’appello, ‘scontati’ 20mila euro a Stasi per le perizie nella villetta

 

Il conto servito dalla corte d’assise d’appello di Milano ad Alberto Stasi era alto, troppo alto, per un errore della calcolatrice dei giudici. Ai periti che col loro studio sulla camminata nella villetta di Garlasco hanno contribuito alla sua condanna per l’omicidio di Chiara Poggi l’imputato, ora rinchiuso nel carcere di Bollate, doveva circa 13mila euro euro e non gli oltre 33mila euro indicati dal collegio presieduto da Barbara Bellerio. Lo ha stabilito nei giorni scorsi il magistrato civile Domenico Piombo al quale Stasi si era rivolto sostenendo che i giudici dell’appello bis avessero calcolato male nel 2014 quanto da lui dovuto.

La corte che l’ha condannato a 16 anni di carcere, poi confermati in via definitiva, aveva sancito che Alberto doveva  5581 euro ciascuno a Roberto Testi, responsabile dell’unità di medicina legale dell’Asl 2 di Torino e a  Gabriele Bitelli e Luca Vittuari, entrambi docenti del dipartimento di Ingegneria dell’università di Bologna  oltre a più di 16800 euro al solo Vittuari per ‘costi di laboratorio’. Col loro studio avevano affermato che non c’erano probabilità per il ragazzo di non sporcarsi le scarpe di sangue quando calpestò il pavimento della villetta.

Tutto sbagliato.  Intanto, perché, come chiarito dallo stesso professore nella causa civile, su Vittuari non sono mai gravate le spese di laboratorio che avrebbero invece “dovuto essere fatturate dall’università di Bologna direttamente alla corte d’appello”. Invece i giudici nel loro decreto hanno addebitato le spese a Stasi senza fattura.

Ma c’è di più. I magistrati dell’appello bis hanno sbagliato anche a non considerare la perizia come collegiale (vista anche l’”eccezionale complessità degli accertamenti da compiere”) che prevedeva una liquidazione inferiore, come poi stabilito in sede civile. Insomma, il giovane commercialista deve pagare ‘solo’ 10585 euro ai tre professionisti, da ripartirsi in parti uguali, più un rimborso spese. Sollievo da poco per Stasi che continua a scontare la pena arrivata al termine di un cammino giudiziario zeppo di dubbi spazzati via dalla cassazione con la condanna definitiva nonostante le perplessità anche del pg Oscar Cedrangolo. Ora gli avvocati Angelo e Fabio Giarda stanno pensando al ricorso alla corte europea di giustizia. (manuela d’alessandro)

 

 

 

 

 

 

 

 

Avvocati arrestati in Turchia, quando succedeva anche in Italia e perché

La vibrata e giusta protesta delle toghe nostrane a Milano contro l’arresto di  alcuni legali in Turchia non deve farci dimenticare che negli anni della cosiddetta “emergenza terroristica” anche in Italia furono incarcerati parecchi avvocati.

Il primo fu il “caso Senese”, quando il 2 maggio 1977 venne arrestato a Napoli l’avvocato Saverio Senese difensore di alcuni militanti dei Nuclei Armati Proletari, con l’accusa di “partecipazione a banda armata”. Passano pochi giorni e il 12 maggio sempre del 1977 l’autorità giudiziaria di Milano arresta Sergio Spazzali e Giovanni Cappelli, legali di “Soccorso rosso”, l’organizzazione fondata alcuni anni prima tra gli altri da Dario Fo e Franca Rame per la difesa dei tanti militanti di sinistra, e che verranno scarcerati il 28 agosto 1977. Sergio Spazzali era già stato arrestato due anni prima, il 21 novembre del 1975, per una esportazione di armi con alcuni anarchici svizzeri e in carcere a San Vittore aveva subito, unitamente ad altri tre detenuti “politici”, una violenta aggressione, prima di essere scarcerato il 15 aprile 1976. Sempre Sergio Spazzali il 19 aprile 1980 verrà arrestato per la terza volta sulla base delle dichiarazioni del pentito Patrizio Peci e trascorrerà altri 14 mesi di prigione prima di essere assolto in primo grado il 17 giugno del 1981, assoluzione riformata dalla Corte d’Appello che in accoglimento dell’impugnazione della Procura, il 20 marzo 1982 lo condanna a 4 anni. Sergio Spazzali a quel punto ripara all’estero e morirà a Miramas il 22 gennaio 1994, mentre “Nanni” Cappelli smetterà per sempre di fare l’avvocato e dopo avere vissuto con la comunità Saman di Osho aprirà un ristorante alle Hawai con un diverso nome.

Ma quel 19 aprile del 1980, e sempre a seguito delle dichiarazioni di Peci, i carabinieri di Genova si recano a casa dell’Avvocato Edoardo Arnaldi per arrestarlo e Arnaldi, che ha 55 anni e soffre di gravi problemi di salute, si toglie la vita sparandosi un colpo di rivoltella nel bagno mentre nella stanza a fianco si trovava sua moglie. Meno di un mese dopo, il 2 maggio 1980, viene arrestato l’avvocato milanese Gabriele Fuga che il pentito Enrico Paghera indica come appartenente all’Organizzazione anarchica Azione Rivoluzionaria e che sconterà 15 mesi di prigione preventiva prima di essere assolto al processo di Livorno. A difendere Fuga c’è l’avvocato Luigi Zezza che a sua volta il 16 gennaio 1981 viene colpito da mandato di cattura con l’accusa di partecipazione a banda armata ma riesce a riparare all’estero e il 22 ottobre del 1984 verrà assolto. L’Avvocato Fuga verrà nuovamente arrestato il 13 luglio del 1982 con l’accusa di partecipazione a Prima Linea e ancora una volta, dopo una condanna in primo grado, verrà assolto in appello.

Le manette contro gli avvocati dei militanti di sinistra non si fermano e dopo che il 20 maggio del 1980 era stato arrestato l’Avvocato Rocco Ventre, il 13 febbraio del 1981 a Roma il Sostituto Luciano Infelisi arresta in un colpo suolo ben due legali di “Soccorso Rosso”: Eduardo Di Giovanni e Giovanna Lombardi. L’accusa è quella di “apologia di reato” e di “istigazione a violare le leggi dello Stato” per aver concorso nella pubblicazione sulla rivista “Corrispondenza Internazionale” diretta da Carmine Fiorillo del documento brigatista “L’ape e il comunista”, curato dal Collettivo dei prigionieri politici. Il 5 marzo saranno tutti assolti e scarcerati. Infine nel 1983, quando scoppia il “caso Pittella”, il giudice romano Rosario Priore emette un mandato di cattura contro l’avvocato calabrese di “Soccorso Rosso” Tommaso Sorrentino che si rifugia all’estero e si costituirà il 20 luglio del 1987 dopo 4 anni di latitanza.

avvocato Davide Steccanella

Il finanziere che tutte la mattine fa un pazzo giro di Milano per ritirare i giornali

 

Che fa la Guardia di Finanza? Scopre le mazzette. Lo abbiamo visto in questi giorni, lo fa anche bene. Ci sta pure simpatica quando toglie il velo al malaffare. Tutte le mattine una mazzetta si alza e deve correre più veloce del finanziere. Non solo la mazzetta di denaro però, anche quella dei giornali omaggio.
Tutte le mattine, infatti, a Milano un finanziere si alza e prende servizio nel “turno giornali”, il turno mazzetta insomma. Prende l’auto civetta (non confondetevi: non la ‘civetta’ con i frontespizi dei giornali davanti alle edicole, ma l’auto undercover, quella senza i colori gialli e grigi del Corpo), e inizia il suo giro nelle redazioni. Dal lunedì al sabato, verso le 7 del mattino si reca in zona corso Lodi, dove i giornalisti di Repubblica non sono ancora arrivati perché stanno leggendo la concorrenza con il loro abbonamento digital sul tablet, mentre bevono il caffè. Ritira otto copie del quotidiano. Poi vola in auto in via Solferino, dove i giornalisti del Corriere e della Gazzetta non sono ancora arrivati perché stanno leggendo Repubblica sul tablet mentre bevono il caffè a casa. E ritira Corsera e la Rosa.
Poi vola in via Negri, a raccogliere le copie del Giornale, quattro. Poi va a recuperare gli altri: la Stampa in via Paleocapa, il Giorno, il Messaggero, eccetera. Pare che invece Italia Oggi e IlSole24Ore arrivino per posta. La routine del turnista dei giornali si spezza il mercoledì, quando si spinge fino alla provincia milanese per recuperare il settimanale Panorama, a Melzo.
Poi iniziano le consegne. Le copie in via Filzi (Nucleo di polizia Tributaria), in via Melchiorre Gioia (comando regionale), in via Valtellina (provinciale) e in corso Sempione (interregionale).
L’auto di servizio ha un costo di carburante, il finanziere potrebbe cercare altro genere di mazzette. Ci chiediamo con stima: ma perché i comandanti non si fanno regalare un abbonamento digital e non leggono i quotidiani sul computer, mentre bevono il caffè? O forse sbagliamo: per fortuna qualcuno legge ancora i giornali cartacei.

“Chiediamo a Signorini la verità”, i magistrati non credono a Legnini sulla toga fedifraga

“Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Csm”. Giovanni Legnini prova a smentire la vicenda del magistrato fedifrago svelata da giustiziami.it inviando una  nota ai consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura. Nessuno sembra però credergli e anzi molti deridono i toni ambigui del comunicato.

Legnini ha dovuto emergere dal silenzio pressato dalle centinaia di magistrati che chiedono da giorni chiarezza nelle mailing list di corrente. “Se davvero è andata così, questo signore non può continuare a sedere nel Csm”, scrivono in molti. Altri manifestano livore contro la stampa: “Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista (è un termine improprio) e si da’ origine alla notizia”.  Nei bar attorno al Tribunale di Milano all’ora di pranzo capannelli di toghe si confrontano sul nome (lo sanno tutti) e sui risvolti della vicenda.  E lo stesso accade a Roma,  da dove stamattina il presidente del Csm Legnini si è sentito in dovere di riportare “un clima sereno e proficuo” tra i magistrati.

Ma la sua difesa non ha convinto stando alla mailing list di Anm. “E’ uno scialbo comunicato parasovietico del tipo in Urss non ci sono furti”, azzarda uno. “Legnini scrive ‘non è pendente alcun procedimento’ – osservano altri – parlando al presente. Questo significa che in passato lo era e magari è stato definito con un patteggiamento?”. E ancora: “Se non fosse per lo sputtamento, ci sarebbe da ridere”; “Chiediamo a Signorini come sono andate le cose”.

Chissà se il giornalista re del gossip sa se il Csm ha mai aperto un’inchiesta sul magistrato fedifrago esercitando quell’azione penale che dovrebbe essere il pane della magistratura, oppure se ora sta insabbiando un’indagine conclusa con un patteggiamento o in altro modo che avrebbe dovuto portare alla rimozione dall’incarico, peraltro importante, rivestito dal magistrato. (manuela d’alessandro e frank cimini)

Storia di corna, membro del Csm simula furto iphone

 

Aveva scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie che s’infuriava e chiedeva spiegazioni e lui replicava che l’apparecchio gli era stato rubato. Il nostro nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava una denuncia formale alla polizia affermando di aver subito un furto. Protagonista della vicenda un componente togato del consiglio superiore della magistratura che ora è nei guai, indagato dalla procura di Roma per simulazione di reato e sotto procedimento disciplinare. Perché la denuncia si è rivelata priva di riscontri con la realtà.

I controlli e gli accertamenti in un caso del genere sono molto più accurati e soprattutto più veloci rispetto a quando una denuncia del genere viene presentata da un comune mortale. Per cui emergeva immediatamente che l’apparecchio, peraltro intestato al Csm, era sempre stato nella disponibilità del consigliere e mai oggetto di un furto.

Il nostro magistrato è indagato dalla procura di Roma per aver simulato un reato e sotto inchiesta disciplinare da parte del Csm. Tutto è accaduto perché il consigliere non ha avuto la forza di far fronte alla rabbia di sua moglie per quel messaggio all’amante dal contenuto diciamo “inequivocabile” e ha finito per imboccare una strada senza ritorno.

La vicenda è clamorosa, considerando l’importante incarico ricoperto dall’interessato che è tuttora al suo posto a giudicare i colleghi in attesa dello sviluppo delle indagini. L’episodio avvenuto alcuni mesi fa è coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non certo piccolo di persone.

Con tutti i problemi che ha il Csm mancava solo una storia di corna gestita molto male (peggio non si poteva insomma) dal protagonista principale. Adesso si tratta di stare a vedere come sarà gestita dai colleghi del nostro, a Perugia e a Roma. Mettere tutto a tacere appare francamente difficile anche se recentemente in più occasioni il cosiddetto organo di autogoverno dei giudici ha dimostrato di avere l’omertà nel suo dna (frank cimini).