giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Perché il sindaco di Riace non andava arrestato

Dico subito che desta parecchie perplessità la lettura dell’ordinanza (132 pagine) con la quale il gip presso il Tribunale di Locri ha disposto l’arresto (domiciliare) del sindaco di Riace Domenico Lucano, noto alle cronache per il costante impegno nell’accoglienza di cittadini extracomunitari.

La richiesta di misura cautelare del pm risultava datata 6 luglio e configurava a carico del sindaco (e di altre 30 persone) una moltitudine di reati rubricati dalla lettera A alla lettera Y, e che andavano dalla associazione a delinquere al peculato, dalla truffa ai danni dello Stato per svariati milioni al falso e dall’abuso d’ufficio alla concussione.

Delitti per i quali, oltre alla misura cautelare, il medesimo pm richiedeva altresì il “sequestro preventivo per equivalente delle somme presenti sui conti degli indagati.”.

Il primo dato che balza all’occhio dalla lettura dell’ordinanza  è la sonora “bocciatura” della lunga indagine (18 mesi) della Guardia di Finanza e avente ad oggetto, si legge: “l’iter di ottenimento e i meccanismi di gestione di rilevanti somme di denaro pubblico ottenute per organizzare la permanenza sul territorio comunale di migranti”.

Questo perché al termine dell’esame degli atti, il gip ha ritenuto del tutto insussistenti gli indizi a sostegno di tutte le imputazioni, eccezion fatta che per le ultime due, invero minimali, e di cui si dirà.

Si legge infatti nel provvedimento di “vaghezza e genericità al capo di imputazione” e “riferimenti a collusioni e mezzi fraudolenti che si risolvono in formule vuote prive di tipicità” (pag. 37), di “impossibilità per il gip di sostituirsi al pm per individuare collusioni trattandosi di operazione impedita dai più elementari principi processual-penalistici” (pag. 38), di “considerazioni addotte a sostegno della fondatezza quantomeno laconiche” (pag. 41), di “inattendibilità del denunciante Ruga” (pag. 46), di “alcun ingiusto vantaggio arrecato dal Lucano agli enti attuatori dei servizi” (pag. 123), fino a leggersi espressamente (pag. 123), e con riferimento alla più grave accusa di associazione a delinquere, che “i programmi perseguiti dagli indagati non possono definirsi illeciti, né si sono tradotti in condotte penalmente rilevanti”, e che, per quanto riguarda le specifiche condotte attribuite al sindaco (pag. 125) le stesse “erano dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita”.

Ciò nonostante il gip ha ugualmente applicato la medesima misura coercitiva richiesta dal pm per ben 9 reati (pag. 22), per le sole due ipotesi finali rubricate alle lettere T e Y.

La prima (T) è l’accusa (riqualificata dal GIP come art. 353 bis Cp rispetto al reato di turbativa d’asta indicato dal PM) di avere affidato il servizio di pulizia della spiaggia a due cooperative sociali prive del requisito dell’iscrizione all’albo regionale, e la seconda (Y) è quella di avere concorso nel 2017 con una cittadina etiope in un falso matrimonio con il fratello per consentire a quest’ultimo l’ingresso nel nostro paese per coniugio, fatto peraltro non verificatosi per il di lui intervenuto arresto nel paese di origine.

Sul punto si legge da pagina 69 in avanti un lungo resoconto di svariate intercettazioni che attestano il coinvolgimento del sindaco anche in altri due “matrimoni di comodo”, il primo dei quali tra tali Giosi (cittadino italiano) e Sara, e sempre per le medesime finalità.

A sostegno dell’arresto, motivato, si legge, dal concreto pericolo che il sindaco, se libero, possa reiterare analoghe condotte di reato, scrive il gip (pag. 121) di “naturalezza a trasgredire norme civili” e di “disarmante spigliatezza con la quale il Lucano, nonostante il ruolo istituzionale rivestito, ammetteva pacificamente e più volte ad un nutrito gruppo di interlocutori di essersi adoperato in prima persona per consentire alla complice il matrimonio con il fratello”, stigmatizzandone (pag. 125), il “ricorso a condotte non solo penalmente, ma anche moralmente riprovevoli (per quanto dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita)”, per concludere (pag. 126) che “l’indagato vive oltre le regole che ritiene d’altronde di poter impunemente violare nell’ottica del fine giustifica i mezzi, dimentico però che quando i mezzi sono persone il fine raggiunto tradisce tanto paradossalmente quanto inevitabilmente quegli stessi scopi umanitari che hanno sorretto le proprie azioni”.

A corollario di ciò il gip esclude (pag. 126) “tranquillamente che in sede di prevedibile condanna possa essergli concesso il beneficio della sospensione condizionale”.

Ora, non si discute sulla ritenuta sussistenza indiziaria di quegli unici addebiti usciti “superstiti” dalla falcidia del gip, ma è proprio questo dato che avrebbe dovuto indurre detto gip a considerare che una misura cautelare richiesta per chi si sarebbe, in ipotesi, reso responsabile di tutti (o quasi) i reati ricompresi nell’intero codice penale, non dovrebbe trovare uguale attuazione anche per chi invece può avere al massimo violato alcune regole per finalità umanitarie.

Ovviamente sarà il processo di merito a stabilire da quale parte stanno i torti e le ragioni e se il predetto sindaco in caso di condanna dovrà o meno finire in carcere, né questa è la sede per disquisire su ipotesi di disobbedienza civile o per difendere scelte politiche e sociali di un sindaco impegnato in prima linea in un territorio a dir poco “difficile” (scelte che peraltro, io condivido in pieno), ma la lettura di quella ordinanza e di alcune considerazioni soggettive che non dovrebbero competere a un giudice penale, quali “moralmente riprovevoli” o “tradimento di scopi umanitari”, non può non destare allo stato, e lo si ripete, parecchie perplessità negli addetti ai lavori.

avvocato Davide Steccanella

Perché la magistratuta sbaglia sul sequestro dei 49 mln alla Lega

Visto che tutti ne parlano, e molto spesso a sproposito, vediamo di chiarire meglio quali sono i due fatti che hanno condotto all’attuale “scontro” istituzionale tra il Ministro Salvini e l’Associazione Nazionale Magistrati, cui è stato dato ampio risalto mediatico.

Il primo fatto è quello che ha determinato l’attuale sequestro per equivalente di 49 milioni che non essendo stati trovati nelle attuali casse della Lega oggi consente al PM genovese di sottrarre a detto partito qualsiasi somma futura dovesse ivi transitare, fino a tale concorrenza.

Si tratta dell’esito di un’indagine (iniziata dalla Procura di Milano e in parte trasferita a quella di Genova) sull’utilizzo dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Lega negli anni 2008/2010.

I processi si sono conclusi con le condanne di Bossi Jr e dell’ex tesoriere Belsito per appropriazione indebita (Milano) e di Bossi Sr. per truffa ai danni dello Stato (Genova).

Detta indagine ha fatto emergere a carico dell’allora segretario l’utilizzo a fini personali di 10mila euro per operazione e multe del figlio e per la ristrutturazione della casa di Gemonio, nonché di ulteriori 77mila euro per il diploma, sempre del figlio, a Tirana.

In sintesi, è stato dimostrato che ai tempi in cui era segretario, Bossi Sr. avesse illecitamente sottratto al proprio partito un totale di 87 mila euro.

Volendo accedere alla tesi accusatoria, secondo la quale quanto viene usato per fini personali non può essere addebitato allo Stato a titolo di rimborso elettorale, quella somma di 87mila euro, dovrebbe essere restituita dall’attuale dirigenza.

Sfugge a chi scrive però, in base a quale diverso criterio, si chieda invece la restituzione dell’intero importo a suo tempo ottenuto in assenza di ulteriori elementi dai quali dedurre, in termini di certezza, che altre somme siano state distratte dal partito, non bastando certamente il mero dato che oggi, a distanza di 8 anni, non si trovano più in cassa. L’effetto finale è che oggi viene consigliato dalla stessa Procura ad un partito che ha legittimamente conquistato il 17 % dei voti all’ultimo suffragio (e che gli attuali sondaggi danno in forte crescita) di cambiare il proprio nome (SIC !) per sopravvivere, mentre l’opposizione non perde occasione per contestare all’attuale segretario di non voler restituire allo Stato 49 milioni rubati.

Non bastasse questo, successivamente è intervenuta altra Procura, questa di Agrigento, adiuvata da quella del capoluogo, inviando all’attuale segretario un formale avviso di garanzia per un reato gravissimo, sequestro di persona, che prevede una pena detentiva molto elevata, per essersi adoperato, quale Ministro, per impedire lo sbarco dei naufraghi di una nave di clandestini che aveva attraccato in un porto italiano.

Questa seconda accusa, a differenza della prima, appare ancor più “delicata”, perché viene criminalizzata non già, come nel primo caso, una condotta individuale per tornaconto personale (come era stato in precedenza anche nei vari processi intentati all’ex Presidente Berlusconi), bensì un’azione governativa fatta alla luce del sole da un Ministro che ha ritenuto di agire in preciso ossequio ad uno specifico programma politico di restrizione dell’immigrazione presentato dal suo Partito al momento delle elezioni, e che proprio per questo motivo (anche se non solo) era stato votato da quel citato 17 % di cittadini.

Inoltre, e a prescindere dal non semplice problema del “dolo” di sequestro per chi assume un’iniziativa pubblica del proprio Ufficio, appare sulla carta non semplice configurare un sequestro di persona a carico di chi non consente ad altri di entrare in un determinato luogo, visto che tale inibizione consente al soggetto passivo, a differenza di quella di non consentirne l’uscita, la facoltà di sbarcare altrove, ovvero di ritornare presso il luogo da dove era partito.

Questa ipotesi di reato per di più non ha ancora ricevuto, a differenza della prima (che ha interessato un procedimento di riesame), il vaglio di un giudice, neppure a livello meramente indiziario.

Singolarmente infatti il pm, che pure contesta al Ministro un reato gravissimo, non ha infatti ritenuto di chiedere alcuna misura cautelare al competente GIP, nonostante fosse evidente quel pericolo di reiterazione del medesimo reato indicato alla lettera C) dell’art. 274 Cpp (e cui molto spesso la nostra Procura è sovente ricorrere), avendo il Ministro pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a ripetere tale condotta ed essendo, gli sbarchi di navi, pratica quasi corrente sulle rive del nostro paese.

A fronte di siffatte iniziative giudiziarie, che comportano da un lato la possibile bancarotta economica e dall’altra l’incriminazione del segretario per un reato gravissimo, nei confronti di un partito che, piaccia o meno (a chi scrive sia ben chiaro, non piace), al momento governa in forza di un legittimo suffragio, ritenere le dichiarazioni rese nell’immediatezza da Salvini un vulnus eversivo all’indipendenza della Magistratura quando non una rivendicazione nazista di impunità, paiono risposte frettolose e inadatte al problema oggettivo che si è creato e che non vorrei influenzate da eccessivo corporativismo da parte di ANM e da strumentalizzazione politica da parte del principale partito di opposizione.

Mi rattristerebbe, da cittadino e non solo da giurista, constatare che il nostro paese ha ormai fatto il callo ai governi che cadono sotto la mannaia della giustizia, visto che sarebbe bene ricordare, a chi mostra di averlo dimenticato, due casi tra i più recenti.

Il Prodi bis cadde per un’iniziativa improvvida di un PM di santa Maria Capua Vetere che mise sotto accusa l’allora Ministro Mastella che poi fu assolto e l’ultimo governo Berlusconi in gran parte per le note imputazioni di private alcove che la Corte di appello di Milano prima e la Suprema Corte di Cassazione poi, dichiararono totalmente infondate.

Nessuno ovviamente si augura una magistratura “dipendente” dal potere politico, ci mancherebbe altro, e ancor meno che vengano preservate zone di impunità per chicchessia, ma anche assistere in silenzio e da anni a iniziative eclatanti di alcuni PM nei confronti di chi volta a volta governa e che poi non approdano a nulla, non dovrebbe essere ritenuta, al di là di come la si pensi, cosa buona e giusta, soprattutto da chi non perde occasione per dichiararsi fiero difensore della nostra Costituzione.

avvocato Davide Steccanella

La mappa delle 500 telecamere nel Palazzo e i dubbi dei lavoratori

Quella che vi mostriamo in esclusiva è la mappa del centinaio di telecamere che verranno installate entro la fine dell’anno al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Proprio dove l’imprenditore Claudio Giardiello circa tre anni fa compì il suo eccidio con una pistola introdotta eludendo i controlli ai varchi.   In tutto gli ‘occhi elettronici’ saranno 500, sparsi in ogni angolo dell’immensa costruzione di età fascista e anche nella nuova palazzina di via San Barnaba, aule comprese se i giudici daranno l’autorizzazione.

E’ la prima iniziativa del procuratore capo Roberto Alfonso sul tema della sicurezza sollevato dalla strage. Lo stanziamento che ha reso possibile il piano telecamere è di circa un milione e verrà seguito, entro il 2020, dall’installazione dei tornelli agli ingressi e dei videocitofoni davanti alle stanze di ogni magistrato. Si riuscirà a eliminare del tutto il rischio che scorra di nuovo del sangue nella casa milanese della giustizia?

C’è poi il tema della privacy. Camminare nel Palazzo di Giustizia significherà essere ‘pedinati’ passo passo da uno sguardo invisibile.  In un riunione che si è tenuta nei giorni scorsi coi rappresentanti dei sindacati, Alfonso ha sostenuto che “l’unico scopo delle telecamere è aumentare gli standard della sicurezza, senza alcuna limitazione o ripercussione nei confronti dei lavoratori” e che una copia del progetto è stata mandata all’Ispettorato del Lavoro e all’Autorità garante dei dati personali. Una sindacalista ha chiesto e ottenuto dal procuratore garanzie sul fatto che le telecamere non vengano utilizzate per controllare l’attività lavorativa e, in particolare,  le timbrature. (manuela d’alessandro)

Procura di Milano contro Anac: “Rendete inutili le nostre indagini”

Era nell’aria da un po’ ma ora abbiamo l’ufficialità: tra la Procura di Milano e l’Anac è rottura con la prima che accusa la seconda di rendere “inutili” le sue indagini.   La mina salta alla presentazione del Bilancio di Responsabilità Sociale del 2017, un’occasione in cui di solito abbondano le ‘buone maniere’ e i linguaggi affettati. Invece il procuratore capo Francesco Greco prende il bazooka: “In attuazione del protocollo di Intesa del 5 aprile 2016 – si legge nel libretto che riassume un anno di lavoro – l’Anac ha trasmesso numerosi illeciti  da cui si potevano desumere fatti di corruzione. Tuttavia il ritardo con cui le notizie sono state trasmesse e soprattutto le modalità di acquisizione degli elementi (acquisizione di documentazione presso gli enti coinvolti) hanno determinato una discovery anticipata, sostanzialmente rendendo inutili ulteriori indagini nei confronti di soggetti già allertati”.  Un riferimento implicito certo è alle carte mandate in Procura da Raffaele Cantone  sulla vicenda dei milioni di fondi Expo per la giustizia milanese. Troppo tardi, secondo i magistrati che si sono trovati a indagare su una presunta turbativa d’asta relativa alla gestione dei soldi da parte della magistratura milanese e del Comune di Milano a distanza di anni dai fatti. E dopo che Anac è andata ad acquisire cumuli di carte a Palazzo Marino. E’ finita che la Procura di Milano si è liberata dell’indagine, non con un certo fastidio, spedendola a Brescia per potenziali coinvolgimenti di magistrati che si sono occupati del ‘tesoro’ proveniente dall’Esposizione. C’è anche da dire, almeno per questa inchiesta, che organi di stampa tra cui Giustiziami avevano scritto molto tempo prima dell’intervento di Anac ma in Procura non si era ritenuto di intervenire.

Altro terreno di tensioni era stata  l’inchiesta sulla pubblicità delle aste giudiziarie avviata dalla Procura sempre a partire da un dossier di Anac che aveva accolto con un certo stupore, stando a nostre fonti, la richiesta di archiviazione presentata dai pubblici ministeri e poi accolta da un gip.  Secondo l’Autorità, il  bando lanciato nel 2012 dalla Camera di Commercio era stato viziato da “gravi anomalie”. A vincere fu la sola società partecipante, con un ribasso del 72,5%. L’Anac mandò gli atti alla magistratura nel 2015, 3 anni dopo i fatti, mentre l’archiviazione è del maggio scorso. Il rapporto tra l’Authority e la magistratura  era apparso invece idilliaco ai tempi del procuratore Edmondo Bruti Liberati da cui erano arrivati riconoscimenti ad Anac all’epoca dei primi arresti legati a Expo. In serata, Greco ridimensiona parlando di “problemi tecnici” e di “ottimi rapporti con Cantone”.

(manuela d’alessandro)

 

 

 

Greco: “Non sappiamo nulla di quello che accade nel Csm”

“Palazzo d’Ingiustizia”  firmato da Riccardo Iacona e Danilo Procaccianti non gli è piaciuto, ma Francesco Greco, intervenendo a un convegno, non è apparso così distante  nei toni e nei contenuti dalle critiche al Csm espresse nel libro dai due giornalisti e da alcuni magistrati.

“Non sappiamo nulla di quello che avviene dentro al Csm”, ha sentenziato il procuratore capo di Milano durante l’incontro intitolato: ‘L’orgoglio dell’autogoverno:Una sfida possibile per i 60 anni del Csm?’.

“Il problema del Csm è un problema serio e se non vogliamo che il populismo giudiziario decolli bisogna ricominciare dalla trasparenza del Csm. Deve esserci un impegno scritto da parte di tutti gli eletti al Csm sulla trasparenza, può essere fatto anche dopo le elezioni (previste a breve, ndr) visto che vanno di moda i contratti”. Il magistrato ha criticato in modo feroce anche le modalità di comunicazione dell’organo di autogoverno: “Le circolari non sono mai inferiori alle 100 pagine, ti devi quasi dopare per arrivare alla fine”. Per Greco, “il Csm dovrebbe essere un palazzo di vetro. Non ci possiamo più permettere vie clientelari di accesso al Csm. Una cosa che mi fa imbestialire, per esempio, è che io vorrei sapere le cose che mi riguardano dalla segreteria del Csm e visto che hanno un sacco di soldi potrebbero farla. Invece le vengo a sapere da un consigliere amico oppure dalla segreteria di un’altra corrente”. Duro anche contro i tempi lunghi per le nomine dei magistrati quando ci sono posti vacanti: “Ci vuole trasparenza nella pubblicazione delle vacanze, si devono dare i criteri di volta in volta. E’ più importante questo tema che quello degli incarichi direttivi e semidirettivi che appassiona le liste. La decisione della Commissione deve arrivare entro pochi mesi, invece ci vogliono anche un anno e mezzo, due anni”. Per Greco, è da cambiare anche il modo con cui ci si candida agli incarichi direttivi, sul suo esempio: “Ora si scrive tutto e il contrario di tutto, invece bisogna scrivere dieci punti e basta sull’organizzazione dell’ufficio, io ho fatto così”. E ancora: “Assistiamo ad un delirio di controllo
degli uffici di primo grado e io non mi sottraggo al controllo, ma voglio che sia garantita l’autonomia e la indipendenza delle  Procure e dei tribunali di primo grado”.  (manuela d’alessandro)