giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Avvocato caduto, una carta dimostra che i magistrati sapevano tutto dal 2002

Il 18 gennaio del 2018  Antonio Montinaro cadde in Tribunale e restò paralizzato alle gambe.

Ora nella crudele storia del giovane avvocato spunta un carteggio inedito,  letto da Giustiziami, che dimostra come il problema delle balaustre rischiose perché troppo basse fosse ben noto alla magistratura sin dal 2002. La stessa magistratura che non sembra in grado di indicare di chi sia la responsabilità di quello che non può essere considerato solo un incidente.

Il 23 maggio di quell’anno, l’allora procuratore Gerardo D’Ambrosio, già protagonista  della stagione di ‘Mani pulite’, comunicava alla presidenza della Corte d’Appello di avere ricevuto  una nota dal pubblico ministero e “magistrato delegato alla sicurezza” Giulio Benedetti in cui veniva “segnalata la situazione di pericolo rilevata dall’istruttoria della Polizia Municipale  relativa all’altezza della balaustra prospiciente gli uffici al quinto piano (non quella da cui è cascato Montinaro, ma è chiaro che il riferimento fosse a tutte le altre con la stessa altezza di 75 cm, ndr)”.

Nei giorni scorsi la procura di Brescia, competente sui colleghi milanesi, ha chiesto di archiviare la posizione dei capi degli uffici giudiziari (il procuratore Francesco Greco, la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, l’allora procuratore generale Roberto Alfonso, il presidente del Tribunale Roberto Bichi)  sostenendo che non possano essergli attribuite eventuali violazioni delle norme antinfortunistiche perché quella mattina d’inverno Montinaro cadde  in uno “spazio comune”, quali sarebbero scale e pianerottoli,  non adibito ad attività della giustizia.

Una sorta di territorio ‘franco’ dove, questa è la tesi dei pm che dovrà essere accolta o respinta da un gip, i magistrati chiamati  in linea generale a vigilare sulla sicurezza del Palazzo di Giustizia non  possono essere considerati dei “datori di lavoro”.

Stando alle conclusioni dei pm bresciani, l’eventuale responsabilità alla fine non ricadrebbe su nessuno perché l’infortunio in uno spazio comune sarebbe oggetto di un’indagine solo su querela della parte offesa che, in questo caso, non c’è stata. Montinaro cadde a pochi passi dall’ufficio deposito atti, molto frequentato dagli avvocati.

Nella richiesta di archiviazione i pm  Ketty Bressanelli, Carlo Nocerino e Francesco Prete  non individuano l’entità a cui eventualmente sarebbe spettata la vigilanza e, dunque, la responsabilità.   Solo dopo che il giovane, che ha giurato da avvocato sdraiato in un letto di ospedale con le gambe paralizzate, precipitò dal parapetto troppo basso della scala Y al quarto piano della Procura, i vertici delle toghe hanno circondato le scale di transenne e cartelli che segnalano il pericolo di sporgersi. All’epoca dello scambio di mail tra D’Ambrosio, Benedetti e la Polizia Municipale, si decise di mettere del nastro adesivo per segnalare il pericolo. Dal al 2015 in avanti i magistrati hanno avvertito più volte il Ministero della Giustizia, assieme ai dirigenti degli uffici tecnici e ai sindacati, del problema delle balaustre, senza ricevere riscontri concreti.

Dopo lo sfortunato volo di sei metri di Montinaro, che ha 32 anni e da allora è impegnato in un difficile percorso di riabilitazione, il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha effettuato un sopralluogo in tribunale e stanziato dei fondi che dovrebbero mettere in sicurezza l’antico edificio costruito in epoca fascista.  Chissà quando.  (manuela d’alessandro)

In difesa del processo cancellato dall’Amuchina


L’imputato non è necessariamente un delinquente professionale. Spesso neppure sapeva dell’esistenza del reato che gli viene contestato. Spesso non avrebbe voluto commetterlo. Talvolta i fatti si sono svolti in modo significativamente diverso da come gli vengono contestati o sono stati commessi da altri. Talvolta non sono accaduti per niente. In ogni caso, sempre, ogni imputato, ha almeno una buona ragione che l’accusa nel formulare l’imputazione ha ignorato.

Il ruolo del difensore è quello di cercare di portare a conoscenza del giudice le tante o poche buone ragioni dell’imputato.

Si tratta di un’operazione difficilissima: all’inizio del processo, l’imputato è innanzitutto un potenziale condannato: se si proclama innocente, non sarà creduto; se porterà dei testimoni a propria difesa, si sospetterà della loro credibilità. All’opposto, le prove a sostegno dell’accusa saranno ritenute attendibili, fino a prova contraria.

Per svolgere l’immane compito di ribaltare l’inerzia che spinge verso la condanna, l’imputato ha a disposizione soltanto due strumenti: il proprio difensore e il processo stesso. Il processo è innanzitutto un diritto dell’imputato. E l’arte antica della difesa ha messo a punto uno strabiliante e complesso armamentario per difendere nel processo. Contano la logica, la chiarezza, la semplicità, la conoscenza del diritto e del fatto. Ma conta anche altro: il tono della voce, un colpo di tosse, una battuta che strappi un sorriso; la passione. Conta perfino la postura. Un giudice di corte di assise una volta disse: sa come faccio io a capire se posso credere al difensore? Vi guardo negli occhi.

Niente di strano: le informazioni passano solo con le emozioni e la capacità di suscitare l’emozione del giudice è tutt’uno con la possibilità di fare emergere le ragioni dell’imputato. Per convincere il giudice il difensore deve infatti raggiungerne, almeno in una certa misura, l’animo. In un certo senso, il giudice deve essere sedotto dalle ragioni della difesa.

Avevamo un processo che consentiva tutto questo, basato su tre pilastri fondamentali pilastri: oralità, immediatezza, contraddittorio.

Da venerdì 24 aprile 2020, quando la Camera dei deputati ha esteso a tutti i processi la possibilità disporre l’udienza da remoto, tutto è finito.

Ognuno a casa propria, la voce filtrata da un microfono, miseramente ridotto nelle due dimensioni dello schermo. Un piccolo ammasso di pixel.

Processi virtuali a persone reali.

E difendere nel processo, ciò che ieri, in aula e con la toga sulle spalle, era difficile ma possibile, diventerà, semplicemente, impossibile. Provateci voi, se ci riuscite, ridotti nel riquadro di una web-cam. Il nostro processo, questa splendida esperienza un po’ teatrale, un po’ liturgica, è stata cancellata con un colpo di Amuchina.

Dicono che è stato fatto per consentire alla giustizia di ripartire subito. Sbagliato: non era necessario, perché la giustizia penale non produce bene di consumo, ma condanne, e le condanne devono essere giuste, non rapide.

Dicono che la riforma ha un termine e poi si ricomincerà come prima. Che il governo si è già impegnato a fare sostanziosi passi indietro. Quel che è certo è che intanto l’hanno fatta, ed ora è legge; poi si vedrà.

Non bastava la quarantena, col suo infinito strascico di drammi individuali e sociali, ci hanno tolto anche il processo.

avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini

La ‘storica’ vittoria contro l’autovelox killer di viale Fulvio Testi

E’ la strada incubo  per gli automobilisti milanesi,  presidiata da due autovelox infallibili che trafiggono chi accelera oltre i 50 chilometri orari, non trattenendo l’impulso di lasciarsi andare in quella che appare una ‘prateria’ verso il cuore della città. Le multe sono ‘virali’, quasi impossibile farsele cancellare nonostante le proteste di massa.  A rendere l’entità della questione il dato – riportato dal quotidiano ‘Il Giorno’ – che nei primi 6 mesi del 2018 gli eccessi di velocità in questa via avevano portato nelle casse comunali 7,6 milioni di euro.   Questa volta però, una siepe che ingentilisce le traiettorie di cemento ha messo al tappeto i due ‘guardiani’ della velocità.  Il giudice di pace Cinzia Pandiani ha annullato il 23 dicembre scorso una multa inflitta all’avvocato Enrico Giarda, difeso per l’occasione dalla collega di studio Pia D’Andrea perché “le riproduzioni fotografiche relative al tempo dell’accertata infrazione mostrano la segnaletica stradale verticale coperta dalle fronde e dalle foglie dei rigogliosi cespugli posti al limite della carreggiata”. Una esuberante manifestazione ‘vegetale’ che rendeva “non visibile il segnale con l’avviso di controllo elettronico della velocità”. Il Comune ha provato a difendersi consegnando alla giudice delle foto in cui si vede che “siepi risultavamo regolate e la segnaletica era ben visibile” ma non ha precisato a quando risalissero quelle immagini. Nessun dubbio quindi che il verbale datato 19 novembre 2018 andasse stracciato.  Tantissimi i ricorsi respinti negli ultimi anni contro il contestatissimo rilevatore di velocità. Per dire, il giorno in cui l’avvocato Giarda si è visto annullare la multa, 29 ricorsi erano stati respinti, il suo l’unico accolto. (manuela d’alessandro)

La vera sconfitta della giustizia italiana è il Davigo pensiero

Chiunque mi conosce sa che non sono mai stato uno strenuo difensore della categoria professionale cui appartengo. Dopo oltre 30 anni che faccio questo mestiere ho imparato ad apprezzare il valore delle singole persone, indipendentemente dalla funzione che svolgono, credo forse di avere più amici tra i magistrati che tra i colleghi, perché continuo a pensare che quello che quotidianamente facciamo in tribunale, ognuno nei rispettivi ruoli, sia appunto un mestiere, e non una missione che ci divide in due “sette” esistenziali, inespugnabili e contrapposte.

Le recenti (ed ennesime) esternazioni gravemente offensive del dottor Davigo sulla figura dell’avvocato, con tutto quello che ne è conseguito a livello di “tifo”, non sono altro che il prodotto finale di una cultura becera che da troppi anni è stata fatta passare impunemente presso l’opinione pubblica e per la quale siamo un po’ tutti colpevoli.

Quella che per anni ha descritto ai non addetti ai lavori gli avvocati come dei furbastri che con metodi degni del peggior “azzeccagarbugli” lucrano sul crimine impunito contrastando con ogni “cavillo” il serio lavoro dei magistrati, unico baluardo impegnato a salvare il paese da una pletora di ladri.

Basta leggere le principali argomentazioni che hanno sorretto la recente approvazione della legge sulla prescrizione, dove il principale accusato era il legale, reo di interporre impugnazioni (previste per legge), al solo fine di consentire al proprio cliente di farla franca a discapito delle vittime dei peggiori misfatti.

O le modalità con le quali vengono quotidianamente date sui media le notizie di arresti preventivi o condanne provvisorie, in raffronto a quelle che attestano assoluzioni o scarcerazioni.

Ogni qualvolta un pm, che fino a prova contraria dovrebbe essere una “parte” processuale al pari del difensore, arresta chi ritiene sospetto di avere commesso un delitto, i titoli parlano di “killer catturato”, “banda sgominata”, “sistema di malaffare stroncato” e “decapitata la centrale del crimine”, mentre se per ipotesi un magistrato non riesce a scrivere in oltre due anni le ragioni per le quali ha appioppato anni di galera a un cittadino (anche al fine di consentirgli una legale rivalutazione della propria posizione), si grida allo scandalo per il mafioso o pedofilo (anche se ovviamente per la legge tale ancora non è), uscito vergognosamente di galera per scadenza termini.

Se una gigantesca costruzione accusatoria di una Procura frana miseramente al successivo vaglio del giudicante tutte quelle pagine di giornale che per mesi, e spesso anni, avevano sbattuto il mostro in prima pagina, ne riferiscono con malcelata compostezza preannunciando successivi gradi di giudizio.

Il risultato è che ormai per la gran parte degli italiani sarebbe auspicabile che i processi venissero fatti senza l’intralcio degli avvocati e che i codici di procedura si limitassero ad indicare ai magistrati il modo più spiccio per sbattere in galera l’arrestato di turno, perché, come ha sostenuto anche il citato dottor Davigo, gli imputati si dividono in due categorie: quelli che vengono condannati e quelli che riescono a cavarsela per mancanza di prove.

La vera sconfitta dell’attuale sistema penale italiano è questa, per mio conto. L’avere inculcato nei cittadini l’idea che il processo è una farsa se non si conclude con la condanna e che il lavoro di chi è chiamato a fare rispettare le leggi nell’interesse del proprio cliente sia non solo inutile, ma addirittura dannoso per la collettività.

Per questo avrei gradito leggere qualche intervento in più da parte dei magistrati che sanno benissimo che la loro delicata funzione trova un senso solo se continua ad essere tutelato al massimo il diritto di difesa, perché il giorno che dovessero finire per “farsi il processo da soli”, anche loro avranno cessato di esistere.

Avvocato Davide Steccanella

Consigliere multato per striscione antirazzista ricorre contro Comune

“Milano città aperta ma dice no alle adunate fasciste e razziste”. Per avere esposto questo striscione dal proprio ufficio in occasione del raduno sovranista organizzato da Matteo Salvini, il consigliere comunale Basilio Rizzo, storico esponente della sinistra cittadina, si è visto recapitare una multa di 500 euro (massimo edittale) dalla Polizia Locale. L’accusa è quella di avere violato il Regolamento del Decoro Urbano del Comune.

Ora, assistito da un pool di otto avvocati (Stefano Nespor, Federico Boezio, Laura Hoesch, Monica Gambirasio,  Mario Fezzi, Giovanni Cocco, Davide Steccanella, Maurizio Zoppolato), Rizzo ha depositato nei giorni scorsi un ricorso contro il ‘suo’ Comune ‘nella persona del sindaco Giuseppe Sala’  per ottenere dal Tribunale  l’annullamento dell’ordinanza di ingiunzione che gli è stata notificata il 10 settembre. Nel documento sottoposto all’attenzione dei magistrati, viene spiegato che, prima dell’inizio della manifestazione del 18 maggio a cui hanno aderito diversi leader sovranisti europei, Rizzo era stati invitato dal Presidente del consiglio comunale Lamberto Bertolé e dal vicesindaco Anna Scavuzzo a ritirare lo striscione esposto sul balcone del suo ufficio nella Galleria Vittoria Emanuele firmato  ‘Milano in Comune’, la lista civica di cui è unico rappresentante a Palazzo Marino. “Lo striscione non è offensivo e ripropone valori in cui Milano ha sempre creduto”, si era rifiutato Rizzo che, il giorno dopo, non aveva più ritrovato il vessillo. Il 20 giugno è stato convocato dalla Polizia Locale per essere sentito come persona informata sui fatti “con un riferimento a un imprecisato reato”. Qualche giorno dopo avere ribadito di essere lui il responsabile dell’esposizione e di non averlo rimosso “perché  penso che non fosse motivo di tensione ma di civile manifestazione del pensiero”, Rizzo si è visto notificare il verbale di sequestro . “Questa scritta – argomentano i legali – esprime valori costituzionali: la libertà, l’uguaglianza e l’antifascismo che, in quanto tali devono essere condivisi da tutta la comunità nazionale. E’ evidente che esporre uno striscione che inneggia a questi valori non può in alcun modo aver provocato ‘allarme sociale nella comunità’.  Inoltre, per i legali non sarebbe stato aggirato il Regolamento comunale perché non è stato violato il ‘divieto di imbrattare e deturpare segnaletica e manufatti nelle aree pubbliche’. (manuela d’alessandro)