giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

‘Il caso Kellan’ di Vanni, giallo perfetto tra il Palazzo e la Milano segreta

Un delitto così, nemmeno a Palazzo di Giustizia di Milano l’hanno mai visto. Kellan Armstrong, il figlio diciannovenne del console americano, viene ucciso nella ‘buca dei froci’  zona parco Sempione, dove da qualche mese la banda degli ‘Spazzini’, ornata di passamontagna e manganelli, mette in scena i suoi raid omofobici.

Ma nel ‘Caso Kellan’ firmato dal cronista giudiziario di ‘Repubblica’ Franco Vanni, c’è molto del ‘nostro’ Palazzo di Giustizia. Dall’arguta pm Maria Cristina Tajani impegnata sul caso, “capelli corvini alla Elvis Presley, labbra cariche di rossetto rosso”, soprannome “la scassacazzo” (la mente corre a 3-4 pm ‘reali’,  ma non ve li diciamo) alle code dei “fannulloni” alle macchinette a quei certi tardo pomeriggi gotici di gelida desolazione nei corridoi, ben noti a chi li bazzica.

C’è anche molto della Milano nascosta dei giovani ricchi,  che in realtà basta avvicinarsi un po’ al bancone degli aperitivi o suonare il citofono di un palazzo di lusso per scoprirla, come fa Steno Molteni da Bellagio, il giornalista ragazzo del settimanale di nera ‘La Notte’. Per un paio d’ore alla sera mago dei cocktail nell’albergo ‘Villa Garibaldi’ dove alloggia e per il resto alle prese col primo scoop della sua fresca carriera gentilmente offerto  dall’amico poliziotto ‘Scimmia’.

Vanni sa raccontare con l’intensità e la leggerezza della neve che scende su ogni pagina della storia in una danza che ora copre, ora svela l’intrigo, offrendo a un giallo costruito con tutti i rigori del genere un soffio di poesia e uno scenario perfetto dove l’autore mostra di essere cresciuto di una spanna nell’analisi psicologica dei personaggi rispetto al già felice esordio del ‘Clima ideale’, premiato come migliore esordio italiano alla trentesima edizione del Festival du Premier Roman de Chambéry.

Se Steno è il protagonista dinamico e sfrontato e Scimmia la sua spalla, la mamma di Kellan e il cuoco vietnamita della Cia Han sono le ombre intriganti della storia, i personaggi che abbiano amato di più: lei col suo iniziale dolore compunto da dama borghese che esonda lento come il rollio della neve  e lui che con raffinato pudore mette a disposizione il suo talento investigativo al  vecchio amico console.  E come dimenticare Sabine, la fotografa mezza eritrea ma più milanese che si si muove come una Margot sinuosa accanto al suo Steno. E poi, sì, c’è l’assassino, ma quello non lo beccate facilmente. Arriverete alla fine con la bava alla bocca, quella che ti fanno venire i gialli di cui strapperesti le ultime 3o pagine per capire chi è. (manuela d’alessandro)

 

‘Il caso Kellan’ di Franco Vanni, editore Baldini + Castoldi., 323 pagine, 17 euro. Si può acquistare anche alla Libreria L’Accademia, corso di Porta Vittoria 14, e alla libreria Cultora, via Lamarmora 24. 

Hosni denuncia violenza sessuale in carcere, la Procura indaga

A San Vittore c’è un direttore che non ha paura di fare chiarezza su quello che accade nell’oscurità delle celle. Giacinto Siciliano ci ha messo un secondo a mandare in Procura una denuncia che, se trovasse riscontri, coprirebbe d’imbarazzo il carcere. Ai primi di gennaio, Ismail Tommaso Hosni, il 20enne italo – tunisino arrestato per avere aggredito in stazione Centrale due militari e un agente della Polfer, mette a verbale di essere stato violentato e chiede di essere portato alla clinica Mangiagalli.

Stamattina, a margine dell’udienza in cui la Procura ha chiesto  di condannarlo a dieci anni di carcere tenuto conto di quello che considera un vizio parziale di mente, il suo avvocato, Giusy Regina, ha raccontato di avere ricevuto un paio di giorni fa una relazione dei sanitari di San Vittore che confermerebbe l’abuso. Il legale ha anche manifestato perplessità perché il ragazzo non è stato trasferito in un altro istituto. Nel corso del processo col rito abbreviato, una perizia psichiatrica disposta dal giudice ha accertato che Hosni è “capace di stare in giudizio” ma la sua “capacità di intendere e di volere era grandemente scemata al momento del fatto”. Un ragazzo fragile, con problemi di droga in passato, che risponde anche di terrorismo internazionale in un’inchiesta parallela che va tuttavia verso l’archiviazione perché non sono emersi elementi a suo carico. “Se dovesse essere condannato – spiega l’avvocato Regina che ha chiesto in prima batttuta l’assoluzione per vizio totale di mente  – ho chiesto ai giudici di affidarlo a una comunità terapeutica dove possa essere curato. Il carcere per lui è solo dannoso”. (manuela d’alessandro)

Morì di parto, il mistero non risolto dalla Procura dell’ecografia scomparsa

Un’ecografia scomparsa, che forse avrebbe potuto cambiare l’indagine sul decesso di una donna morta di parto che va invece verso l’archiviazione. Un fatto gravissimo accaduto alla San Pio X, una delle più prestigiose cliniche private milanesi. Ma la Procura di Milano ha chiuso con un ‘nulla di fatto’ l’inchiesta  sulla misteriosa sparizione dell’immagine diagnostica perché non riesce a individuare l’autore della cancellazione.

E’ il 16 ottobre 2015 quando Katia, 40 anni, incinta all’ottavo mese, si presenta col marito in clinica lamentando forti dolori al basso ventre. Vengono eseguiti tutti gli esami del caso da cui, secondo i due consulenti nominati dalla Procura, “non emergeva  alcun indizio della rottura dell’utero in corso” che provocherà la morte della donna e del bimbo in  grembo poche ore dopo le dimissioni, nonostante i tentativi disperati di salvarli al Niguarda.

Tra gli accertamenti anche quella che in ‘medichese’ si chiama ecografia office, uno strumento per valutare i parametri materni e fetali che, a detta dei sanitari sentiti nelle indagini, non avrebbe segnalato nulla di preoccupante. Ma di quell’ecografia non è rimasta traccia perché qualcuno “intenzionalmente”, si legge nella richiesta di archiviazione per i 5 indagati (medici e ostetrica) firmata dal pm Maura Ripamonti, che ha ereditato le indagini della collega Roberta Colangelo, ha eliminato l’immagine “com’è testimoniato dalla circostanza che si tratta dell’unico esame che risulta essere stato cancellato su quell’apparecchio e che, in particolare, sono regolarmente presenti l’ecografia precedente e quella successiva”.

Scrive il pm, dopo avere evidenziato che gli esami non suggerivano il ricovero: ”Forse maggiori elementi avrebbero potuto essere tratti dall’ecografia eseguita. Impossibile però sostenerlo in assenza delle immagini. Non è escluso – anzi è verosimile – che chi l’ha cancellata abbia agito proprio con questo obbiettivo”. Perché qualcuno ha voluto oscurare l’esame se davvero il suo esito era tranquillizzante?

Intanto, i familiari della donna hanno presentato opposizione all’archiviazione dell’indagine per omicidio colposo e aborto colposo a carico dei sanitari della San Pio X e del Niguarda, basata anche sui risultati delle perizie da cui risulta che “non vi era indicazione alcuna a trattenere in osservazione la paziente, né vi era ragione di procedere ad ulteriori accertamenti diagnostici”. Il gip Laura Marchiondelli si è riservata di decidere.  Ed è verosimile che i parenti  si oppongano anche alla richiesta di far calare il sipario sulla sparizione dell’ecografia. Se c’è qualcuno che nasconde gli esami sarebbe tranquillizzante conoscere la sua identità per chi si fa curare in quella clinica, oltre che per chi amava Katia, morta poco prima di diventare mamma. (manuela d’alessandro)

La strana retromarcia dei giudici di Olindo e Rosa sulle “nuove prove”

“Abbiamo convocato le parti in udienza interlocutoria perché sicuramente un incidente probatorio lo faremo”. Così garantiva il presidente della prima sezione della Corte d’Appello di Brescia Enrico Fischetti, all’udienza a porte chiuse del 21 novembre scorso (Giustiziami ha potuto leggere le trascrizioni), a proposito della richiesta della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi di analizzare nuovi reperti per aprire la strada alla revisione del processo sulla strage di Erba.

Oggi invece gli stessi giudici dichiarano “inammissibile” l’istanza degli avvocati della coppia che sta scontando la condanna definitiva all’ergastolo, spiegando che l’analisi dei reperti, tra cui il capello della piccola vittima Youssef Marozuk, non è in astratto in grado di ribaltare la condanna all’ergastolo della coppia.

“I giudici contraddicono loro stessi e anche la Cassazione”,  commenta il legale di Olindo e Rosa, l’avvocato Fabbio Schembri, ricordando come fu proprio la Suprema Corte nell’aprile del 2017 a rimandare gli atti ai giudici bresciani dopo una prima bocciatura di un’analoga richiesta di nuovi accertamenti su guanti, cellulari, mozziconi, tende, cuscini, giacconi.

Com’è stata possibile una retromarcia così netta?

Eppure, sempre all’udienza del 21 novembre, il presidente Fischetti precisava di avere convocato quell’udienza anche per parlare “di cosa il perito deve fare, dove deve andare, e che tipo di indagini deve fare, perché, voi sapete, le indagini sul Dna hanno una possibilità diversa a seconda del tipo di indagine che si deve svolgere, e poi andiamo sullo specifico”. Addirittura si sbilanciava: “C’è la possibilità di nominare, e questo lo dico apertamente, il colonnello Lago, che non era all’epoca Comandante del Ris e che svolgerebbe l’attività con capacità professionale. Faremo un’ordinanza di ammissione, vi daremo una data, la data di conferimento dell’incarico sarà, credo, a metà gennaio”. Anche il procuratore generale era sulla stessa linea: “Mi pare che dopo la sentenza della Cassazione sul fatto che si debba svolgere l’incidente probatorio non vi possa essere dubbio”.

Invece – nel cangiante e misterioso mondo del diritto – ora i giudici si sono accorti di avere il dovere di valutare se queste nuove analisi potrebbero incidere sulle sicurezze quasi granitiche di una sentenza definitiva di condanna. Schembri, che riporoporrà un nuovo ricorso in Cassazione,  è molto perplesso: “Nel provvedimento i giudici sostengono che le nostre richieste di analisi erano generiche e ‘in quanto meramente esplorative inidonee a superare il vaglio’ previsto dalla legge. Ma come possiamo sapere che esiti avremmo da quelle analisi se prima non le facciamo?”. Che poi la legge (articolo 631 del codice penale) era quella pure il 21 novembre. (manuela d’alessandro)