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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Avvocato Steccanella: a Milano la caduta degli dei

Da almeno un mese la Procura di Milano compare sui principali giornali nazionali per ragioni del tutto estranee alle indagini svolte, le quali dovrebbero essere invece l’unico argomento a legittimarne la citazione.
Si legge di pubblici ministeri inquisiti a Brescia (tra cui lo stesso Procuratore Capo), di procedimenti disciplinari incrociati, di coinvolgimenti di illustri magistrati in pensione e di loro segretarie infedeli, di audizioni in commissione di Presidenti di Tribunale giudicanti e di formali richieste di trasferimento per incompatibilità ambientale di uno dei protagonisti della diatriba, con conseguenti lettere di solidarietà al collega da parte di alcuni e non di altri.

Ci si potrebbe limitare a un comodo “problemi loro”, anche perché, che la Procura di Milano, vuoi per il ruolo che riveste e vuoi per gli interessi economici che smuove la capitale finanziaria del Paese, andasse immune da quei “giochi di potere” che il recente caso Palamara ha evidenziato, solo le anime belle e i più devoti lettori del Fatto potevano pensarlo.

Però l’immagine esterna per il cittadino che tutti i santi giorni legge che tra i rappresentanti della più “gloriosa” Procura d’Italia “volano gli stracci” non trasmette la necessaria autorevolezza nei confronti di chi è chiamato a decidere i nostri destini, e poco serve tentare di spiegarne i complicati meccanismi di merito, perché il danno alla credibilità dell’istituzione già gravemente compromessa resta e temo sia irreparabile.

Non voglio, né sarei in grado, data la intricata matassa di una vicenda che attiene ad una delle più importanti indagini internazionali da anni portata avanti (e con ben scarsi risultati, va detto) da un rappresentante “anziano” della procura, però da avvocato che bene o male bazzica da quasi 35 anni quel palazzo qualcosa mi sento di dirlo.

Mi pare di capire che si rimproveri ad un Sostituto, che a un certo punto si è trovato di fronte a quelle che riteneva essere gravi irregolarità nelle indagini da parte di alcuni colleghi, di “non avere rispettato le forme” nel darne avviso all’organo di controllo.

Ora, certamente il rispetto delle forme merita rispetto (si perdoni la tautologia), ma mi parrebbe più importante accertare la sostanza delle cose, perché leggo di prove occultate di fronte a un Tribunale e di dichiarazioni accusatorie di personaggi a dir poco “dubbi” tese a gettare calunnioso discredito su giudici di comprovata rettitudine, e questo sarebbe ben più grave, data la rilevanza del processo e dei personaggi coinvolti.

Per mio conto, e senza prendere parti che non mi competono, posso solo dire sulla base della mia esperienza che il Pubblico Ministero di cui il Procuratore Generale ha chiesto il trasferimento è magistrato di indole assai severa ma di assoluta correttezza e che mantiene sempre la parola data, e che sulla rettitudine assoluta del Presidente del Tribunale giudicante, impropriamente citato. ci metto non una ma due mani sul fuoco.

E la spontanea raccolta di firme a sostegno del collega, organizzata al quarto piano del Tribunale all’indomani della decisione del Procuratore Generale, la dice lunga su quanto fino ad oggi percepito all’interno dell’ufficio interessato.

Sarebbe avvilente che il tutto si concludesse con il trasferimento di chi non ha rispettato le forme e a tarallucci e vino per tutto il restante.

Posto che già nel recente “caso Verbania” ho letto che il Consiglio giudiziario torinese avrebbe stigmatizzato maggiormente un GIP per la mancata indicazione formale di un’assegnazione extra-tabellare (pacificamente assunta per insopprimibili esigenze di ufficio e di urgenza nel dover decidere su misure cautelari in atto), piuttosto che l’illegittima successiva sottrazione del fascicolo a quel GIP o le gravi ingerenze presso il Presidente di quel Tribunale da chi non aveva titolo per farle, ci si augura che la “forma” non prevalga sulla “sostanza”.

Perché se questo dovesse rivelarsi essere il modus operandi dell’organismo di controllo della nostra magistratura, ne usciremmo poco rassicurati tutti, e non tanto e non solo come avvocati, ma prima di tutto come semplici cittadini.
Avvocato Davide Steccanella

Voghera nuovo video e altri dubbi su “strana” indagine

“Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. Sono le parole dell’assessore alla Sicurezza di Voghera, in provincia di Pavia, Massimo Adriatici, mentre si rivolge ad un testimone interrogato da un militare dell’Arma subito dopo aver sparato al trentanovenne Youns El Boussettaui. Le immagini sono riprese da un video girato martedì 20 luglio scorso che mostra il piazzale antistante il Bar Ligure di piazza Meardi, luogo della sparatoria. Dal filmato si può vedere l’intervento dei sanitari del 118 che stanno soccorrendo il giovane ferito, mentre l’assessore Adriatici passeggia con il cellulare in mano per la scena del crimine parlando con i carabinieri. Ad un certo punto rivolgendosi ad un testimone interrogato da un militare dell’Arma gli dice: “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”.
Esiste un verbale di indagine datato 2015 su Youns El Boussetaoui e su suo cognato da cui emerge che le autorità conoscevano vita morte e miracoli del marocchino ucciso a Voghera dall’ex assessore Massimo Adriatici. E che di conseguenza non c’erano ragioni per dire che i familiari fossero dei senza dimora per giustificare il mancato avviso in relazione all’autopsia non permettendo la nomina di un perito di parte.
Va registrato che il conferimento dell’incarico per l’autopsia e l’esecuzione dell’esame sono avvenuti nell’arco di una sola mattinata lo scorso 21 luglio. A mezzogiorno era tutto finito. La negazione dei diritti della parte offesa appare evidente tanto che gli avvocati dei familiari Debora Piazza e Marco Romagnoli sono arrivati al punto di diffidare i carabinieri che avevano negato loro la consegna delle relazioni sugli interventi fatti dai militari.
Youns inoltre per un piccolo reato avrebbe avuto l’udienza fissata in tribunale il 26 ottobre prossimo. “Nessuno mi aveva avvisato neanche in qualità di difensore di fiducia” dice l’avvocato Piazza.
Gli avvocati dei parenti di Youns stanno continuando a sentire testimoni nell’ambito dell’attività difensiva e a ricercare filmati sull’accaduto delle varie telecamere di sorveglianza della zona. L’obiettivo è quello di arrivare a una modifica del capo di imputazione che per ora è fissato nell’eccesso colposo di legittima difesa.
E la qualificazione giuridica dei fatti è di gran lunga l’aspetto più importante a questo punto della vicenda. Prevale sicuramente sulla misura cautelare oggetto del ricorso al Tribunale del Riesame da parte degli avvocati di Massimo Adriatici rimasto agli arresti domiciliari per decisione del gip che ha confermato la misura per il pericolo di reiterazione del reato e non per il rischio di inquinamento delle prove.
In realtà in questo strano modo di condurre l’inchiesta il rischio di inquinamento, caso più unico che raro, viene più da chi indaga e non da chi è chiamato a rispondere di un fatto gravissimo.

rilevare poi che la decisione di trasferire Massimo Adriatici dalla sua abitazione in una località segreta “per ragioni di sicurezza” a causa di presunte minacce comparse sui social e di ancora più “strane presenze” vicino casa rischiano di far apparire l’ex assessore solito girare con la pistola in tasca come una vittima.
E le polemiche politiche sull’omicidio si concentrano essenzialmente sulle “sparate” di Matteo Salvini in relazione alla “legittima difesa sempre valida”. Non c’è un parlamentare o un qualsiasi esponente della sinistra anche di quella cosiddetta radicale che abbia avuto il coraggio di criticare la procura e i carabinieri. Perché evidentemente a loro piace vincere facile. “Vincere” si fa per dire.
(Frank Cimini)

Dopo i flop pm Dambruoso chiede sorveglianza speciale

Erano stati arrestati a maggio dell’anno scorso sette anarchici a Bologna con l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. Dopo tre settimane il Tribunale del Riesame ordinava la scarcerazione con una decisione che sarà poi confermata dalla Cassazione. In sede di chiusura delle indagini l’accusa rinunciava a contestare il reato associativo, quello più grave. Ora però dopo i flop il pm Stefano Dambruoso, che da sostituto procuratore a Milano era finito sulla copertina della rivista Time come cacciatore di fondamentalisti islamici, si rivolge alla sezione delle misure di prevenzione, chiedendo per gli indagati la sorveglianza speciale. Il Tribunale deciderà il prossimo 12 luglio in udienza camerale.
“Sono richieste tutte uguali – osserva Ettore Grenci avvocato della difesa – pericolosità terroristica ed eversiva. Il pm cita l’ordinanza del gip dell’operazione ‘Ritrovo’ ma dimentica il piccolo dettaglio della sonora bocciatura sia del Riesame sia della Cassazione”.
Al centro dell’inchiesta anche una serie di manifestazioni e cortei nei pressi delle carceri al fine di portare solidarietà ai detenuti alle prese con l’emergenza Covid, il sequestro di striscioni, maschere antigas, artifici pirotecnici, fumogeni, imbrattamenti di edifici pubblici e privati con vernici spray, frasi offensive contro le autorità di Governo. Insomma un’attività politica alla luce del sole al pari di tante realtà antagoniste.
Del resto sia il Riesame sia la Cassazione avevano annullato gli arresti spiegando il rischio di reprimere il dissenso. Ma la procura non demorde e il pm Dambruoso diventa militante del suo processo cercando di arrivare comunque all’emissione di misure volte a limitare l’attività politica degli indagati. La sorveglianza speciale non è un arresto ma influenza in modo pesante la vita quotidiana e l’impegno politico delle persone che vi vengono sottoposte.
Nella richiesta della misura si scrive di “perdurante comportamento antisociale fondato su fatti sintomatici originati da una condotta abitualmente criminosa tesi al progressivo inasprimento dei reati commessi”. (frank cimini)

Cosa c’è dietro il sorprendente cambio in corsa del gip del Mottarone

(foto di Jari Pilati)

La gip delle scarcerazioni, Donatella Banci  Buonamici, l’ha saputo così. Ha bussato in cancelleria per depositare il decreto di fissazione dell’incidente probatorio, con tanto di consulente indicato, e gli impiegati le hanno detto ‘siamo spiacenti, ma lei non si occupa più dell’ indagine sull’incidente della funivia del Mottarone’.

Pare che ci sia rimasta parecchio male sfogandosi perfino coi legali degli indagati.  Il caffé freddo - il caffé è importante in questa storia – gliel’ha servito il suo presidente Luigi Maria Montefusco, quello che le aveva manifestato “piena e convinta solidarietà” per le minacce ricevute dopo che aveva liberato due dei tre indagati (Luigi Nerini ed Enrico Perrocchio) e al terzo, Gabriele Tadini, aveva concesso i domiciliari. Dopo, Olimpia Bossi, la pm che li aveva fatti finire dentro ritenendo che a loro carico vi fossero gravissimi indizi, aveva dichiarato ai giornalisti che non avrebbe più bevuto il caffé con la collega magistrata nel palazzo di giustizia di Verbania. Anche perché, racconta a Giustiziami una fonte, durante l’udienza in cui si discutevano le sorti dei tre fermati le due se ne erano dette di ogni con la giudice che invitava la pm a leggersi bene le leggi prima di buttare in galera  la gente.

Ma perché Banci Buonamici non si occuperà più del caso?

Qui abbiamo documenti ufficiali e ipotesi.

La carta è quella in cui il presidente Montefusco spiega che l’ex giudice milanese ha finito la sua supplenza e deve tornare la titolare della scrivania, gip Elena Ceriotti, a cui erano stati concessi quattro mesi di “esonero dalla funzione” a causa della “grave sofferenza del suo ufficio”. Non è chiaro per quale ragioni, ma Ceriotti non riusciva più a districarsi trai  fascicoli. Adesso però è ritemprata per decidere sulla richiesta della Procura di annullare le scarcerazioni della collega.  Pare che a influire sulla decisione di Montefusco sia stata anche una lettera ricevuta dal procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo.

Come che sia, con quale serenità la nuova gip si trova a decidere sugli indagati? C’è chi, come il giornalista Nicola Porro,  sostiene che Banci sia stata fatta fuori perché troppo garantista, per avere mostrato al mondo quello che, nonostante i caffé con la collega, dovrebbe fare un giudice sano: esercitare in autonomia il controllo sulla privazione della libertà personale dei cittadini. Qualcuno nei corridoio del Tribunale di Verbania fa notare che Ceriotti è molto fragile in questo momento della sua vita professionale proprio perché è stata in panchina tanto tempo e ora viene buttata in mischia nella partita più importante mai vista nel piccolo tribunale piemontese.

La sensazione di qualcosa di “anomalo” c’é. Lo dice l’avvocato Pasquale Pantano, legale di Nerini: “La legge dice che il giudice va scelto sulla base delle regole decise al momento della nomina. Questo me l’hanno insegnato a scuola, questo lo dice la giurisprudenza, il resto io non lo so”.

Peraltro,  Banci si era “assegnata il procedimento” dopo i fermi con un provvedimento condiviso col suo presidente perché la sostituta di Ceriotti, giudice Palomba, era “impegnata in un’udienza dibattimentale”.

Nel motivare la sua sostituzione, Montefusco scrive che “tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non é conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei magistrati”. Insomma, era una sostituzione solo per il fermo, sembra chiarire. Eppure Banci gli aveva parlato di “procedimento”.

E come mai si è aspettato tutto questo tempo per prenderne atto recapitando il caffé freddo all’ignara Banci che, almeno una telefonata, viste le minacce subite, se la aspettava? Più passano le settimane più la gestione del caso con indagini esplicitate passo dopo passo sui media compresi caffé, lotte intestine e inediti cambi di giudice in corsa, sembrano confermare il momento buio della magistratura italiana.

(manuela d’alessandro)

 

 

I dannati della gogna mediatica, il libro di Antonucci

Il processo è già una pena perché c’è la gogna mediatica. Ma non tanto al momento del processo. Molto prima. Con le indagini preliminari dove le procure sono i signori assoluti, i difensori non toccano palla e la difesa non ha difesa. Ermes Antonucci giornalista del Foglio racconta 20 casi di “dannati della gogna”, persone rovinate, con l’assoluzione che serve a molto poco quasi a niente e ci sono pure le vicende di chi paga dazio alla cattiva fama senza essere stato nemmeno inquisito formalmente.
Essere indagati dai mezzi di informazione è molto peggio che finire inquisiti dai magistrati. “Tanto più  vasta sarà l’eco mediatica dell’accusa tanto meno chi l’ha promossa sarà disposto a riconsiderarne il fondamento – scrive nella prefazione l’avvocato Giandomenico Caiazza -Il cappio si stringe intorno al collo del presunto colpevole con un doppio nodo scorsoio, la gogna mediatica da un lato, l’accusatore impegnato nella strenua autodifesa a oltranza dall’altro. Non c’è scampo fino a quando il presunto colpevole non avrà la ventura di incontrare un giudice indifferente all’una e all’altro. Un evento purtroppo nient’affatto scontato e comunque quasi sempre drammaticamente tardivo”.
Secondo Caiazza non dobbiamo disperare ma essere consapevoli che la strada da percorrere è quella di recuperare finalmente un principio di responsabilità del magistrato per i suoi atti giudiziari. “Oggi questo è precluso da un sistema di valutazioni professionali positive al 99,6 per cento, dunque inesistenti. Un potere pubblico irresponsabile rappresenta un irrimediabile squilibrio democratico” conclude il legale.
“Il fenomeno si è affermato in numerose nazioni ma è in Italia che mostra una forza è una violenza senza pari – chiosa Antonucci – tanto da portare a un annientamento sostanziale di alcuni principi basilari della nostra Costituzione, a partire dalla presunzione di non colpevolezza”.
Il tritacarne, ricorda l’autore, si palesa in varie forme: notizie passate ai giornalisti da procure e polizia giudiziaria, pubblicazione di materiale di indagine ancora coperto da segreto, diffusione di intercettazioni spesso penalmente irrilevanti, assenza di contraddittorio, invasione morbosa negli ambiti privati dei malcapitati e dulcis in fundo mancanza di attenzione per le fasi successive dei procedimenti. E se va bene minuscoli trafiletti sui giornali. “Tanto è già uscito tutto” è la considerazione di molti giornalisti che dovrebbero sottoporre a vaglio critico le tesi dell’accusa. E come potrebbero dal momento che “il pane quotidiano” arriva loro dalle procure. Come disse un famoso avvocato ai tempi della falsa rivoluzione di Mani pulite (ma i tempi non sono cambiati e se si sono cambiati in peggio): “Il pm fa anche il caporedattore nei quotidiani del mandamento giudiziario”.
Giovanni Novi, ex presidente del Porto di Genova, arrestato con l’accusa di un patto illecito stipulato con presunte irregolarità nell’assegnazione dei moli. Dal 2008 al 2014, le date del calvario. La Cassazione lo assolve sentenziando che Novi agiva per il bene del porto. Ma al danno si aggiunse la beffa. Novi non ha avuto diritto al risarcimento delle spese legali perché l’Avvocatura dello Stato interpretò la sua carica come onoraria. Insomma finché si trattava di processarlo era un presidente a tutti gli effetti. Nel momento in cui doveva essere risarcito diventava onorario. L’inchiesta evaporata avrebbe provocato al porto di Genova danni per sette milioni di euro.
“Quello che mi è dispiaciuto di piu – ha detto Novi – al momento dell’assoluzione mia moglie non c’era più “.
Calogero Mannino che fu ministro e parlamentare è stato sotto processo per 30 anni con l’accusa di essere mafioso prima dell’assoluzione definitiva. Mannino, 80 anni, pensa al futuro della giustizia alla modifica della prescrizione. “Il risultato è che i processi saranno ancora più lunghi solo perché un ministro della giustizia che non ha nessuna esperienza di aule giudiziarie ha voluto avventurarsi sull’eccitazione di alcuni organi di stampa amici”. Insomma il futuro della gogna mediatica.
Clemente Mastella è stato assolto quindici volte su quindici. Maurizio Lupi fu costretto da non indagato a dimettersi da ministro per la storia di un orologio d’oro regalato al figlio da un amico di famiglia di vecchia data.
Giulia Ligresti fu assolta dopo sei anni con la revoca della pena che aveva patteggiato da innocente. Perché quella sentenza era in contraddizione con il verdetto che aveva assolto il fratello Paolo. Dell’imprenditore Andrea Bulgarella il quotidiano Repubblica scrisse che aveva l’odore della mafia addosso. Dopo l’assoluzione non sono arrivate le scuse. È la stampa bellezza. E insieme alla “giustizia” di danni ne fa tanti.
La gogna dei dannati. Editore Liberi libri. 133 pagine. Autore Ermes Antonucci
(frank cimini)