giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Sulle Br i pm intercettano senza l’ok del gip

Pur di arrivare a celebrare il processo alle Brigate Rosse per i fatti del 5 giugno 1975 alla Cascina Spiotta morte di Mara Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso i pm di Torino continuano a combinarne di tutti i colori in violazione della procedura. L’imputato Lauro Azzolini è stato intercettato tramite il captatote trojan senza che esista agli atti un decreto specifico di autorizzazione da parte del gip.
Il decreto era necessario perché si parla di un imputato già prosciolto con le indagini a suo carico riaperte con un revoca della sentenza di proscioglimento che non si trova perché scomparsa durante una alluvione. Verdetto revocato senza neanche essere letto.
La conversazione tra Azzolini e la moglie veniva in modo illegittimo utilizzata nell’interrogatorio di Luigi Bialetti sentito come testimone con l’obbligo di dire la verità nonostante in precedenza fosse stato indagato per falsa testimonianza.
Il difensore di Azzolini l’avvocato Davide Steccanella chiede l’espulsione degli atti illegittimi e non utilizzabili dal voluminoso fascicolo processuale. Vediamo cosa deciderà il gup nell’udienza che inizia dopodomani 26 settembre a Torino. Con Azzolini sono imputati Renato Curcio Mario Moretti e Pierluigi Zuffada.
Nessun accertamento è stato fatto per stabilire le modalità con cui fu uccisa Mara Cagol mentre era a terra disarmata ormai arresa.
Ogni sforzo è stato concentrato per individuare il brigatista scappato dopo lo scontro a fuoco che la procura di Torino ritiene di aver individuato in Lauro Azzolini. Questo succede nonostante il Ris dei carabinieri non abbia trovato impronte attribuibili a Azzolini sulla porta della cascina e sul furgone utilizzato dai brigatisti.
Stiamo parlando di una indagine densa di irregolarità atti illegittimi e forzature della procedura ai fini di processare la storia. Nel caso gli inquirenti fossero in buona fede ci sarebbe da chiedere come abbiano fatto a laurearsi e a superare il concorso da magistrati. È più semplice pensare invece a militanti del loro processo che con ogni probabilità fossero stati al posto dei loro predecessori mezzo secolo fa sarebbero riusciti a fare anche di peggio. E questo è tutto dire.
(frank cimini)

Tutti per Youssef “che ormai canta nel vento” ma ci indica i nostri errori

 

L’applauso che di solito scioglie il minuto di silenzio nelle commemorazioni questa volta non c’è. Sono molti quelli che prendono il microfono in bilico con la commozione per ricordare e provare a dare un senso alla morte di Youssef Mokhata Loka Barsom, bruciato vivo chiuso in un bagno della sua cella di San Vittore. Più di duecento nella sala del Municipio 1, tanti avvocati,  due magistrati, educatori, tanti che battono i tribunali e le corsie dolorose del carcere e che però sentono che questa volta si è oltrepassata una frontiera nella storia di un ragazzo di 18 anni che per due volte i giudici minorili avevano assolto per un vizio totale di mente.

‘Non mi ascoltate’ sussurra Youssef chino con le mani sulla fronte, appoggiato a una sbarra che arde nella vignetta sulla locandina. E invece stavolta sì, e ci sono anche tanti ragazzi della sua età.

Lella Costa recita la ‘Preghiera di gennaio’ di Fabrizio De André. “Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento ma ti potrà indicare gli errori di noi tutti che vuoi e puoi salvare”.  Antonio Casella, volontario nel carcere milanese da decenni, parla di un “orrore da proclamare a tutta voce per quanto è stato disumano” e del “volto sfigurato della pena” .

L’avvocata Antonella Calcaterra legge una lettera della scrittrice Daria Bignardi che racconta di avere ricevuto una foto di Youssef da Cecco Bellosi che gestisce la cooperativa ‘Il Gabbiano’, dove quel ragazzo è stato amato.

 “Mi ha detto che gli piaceva tantissimo farsi i selfie e che si faceva volere un gran bene. Spesso si ama chi è più complicato, soprattutto se è giovanissimo. I ragazzini fanno un sacco di sciocchezze ma hanno bisogno di aiuto, non di essere chiusi in prigione”. “E’ da quattro mesi che le celle di San Vittore bruciano con dentro le persone e non sempre ne escono incolumi, in particolare nel sesto reparto – considera l’ex cappellano del carcere, don Roberto Mozzi -. E’ irragionevole pensare di rispondere a un malato con la pena e non con la cura. Il fuoco fa male ed è pericoloso ma San Vittore, così com’è, ancora di più”.
Arriva un messaggio vocale di Fabio Fazio: “Chi ha 18 anni con una diagnosi di malattia mentale non può stare in carcere, è intollerabile ed è una sconfitta per tutti noi che siamo fuori, separati dalle mura che non ci fanno vedere”. E poi la riflessione di Monsignor Antonio Delpini che reclama “un’attenzione più corale e duratura perché la notizia racconta una storia inquietante”.
Invita a non “attribuire sbrigativamente colpe e inadempienze alle persone che lavorano in carcere in un sistema che è unanimemente riconosciuto insostenibile. Si dovrebbe evitare che una vita valga così poco”.
Valeria Verdolini di Antigone sottolinea che sono tante, troppe le “notizie terribili” che arrivano dalle carceri milanesi, alludendo anche alla presunte violenze degli agenti penitenziari al Beccaria, “ma non ci si abitua mai a quella sofferenza e a quel dolore”. “Bisogna battersi contro l’assuefazione – è il pensiero della presidente della Camera Penale milanese Valentina Alberta -. Durante una delle tre visite di quest’anno, abbiamo trovato un ragazzo che era in punizione perché aveva tirato delle uova contro un agente. Ho trovato disumano che fosse lì e che non sia stato invece ascoltato”.
La parlamentare europea di Avs Ilaria Salis spiega che “è stata una notizia che mi ha gelato il sangue ma non un fulmine a ciel sereno per quello che ho visto a San Vittore quando l’ho visitato”.  
Poi, c’era chi lo conosceva, Youssef. La sua tutrice legale volontaria che fa un appello perché più persone si dedichino a esercitare il ruolo di accompagnare i minori che giungono in Italia e attraversano muri burocratici e umani. La sua avvocatessa Monica Bonessa: “E’ stata una morte evitabile ma non è vero che non è stato visto. Abbiamo alacremente lavorato coi servizi sociali e le comunità minorili che sono piene di ragazzi con un disagio psichiatrico ma ci sono dei ‘buchi’ nel sistema. Il modo migliore per commemorarlo è mettere a terra le soluzioni”.
Un giovane dell’associazione ‘Sbarre di zucchero’ legge un ricordo di chi lo conosceva: “Mi aveva conquistato il tuo sorriso, la tua anima semplice. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che avevo il cuore buono. Lui ce l’aveva”.
Scorrono un video in cui col sorriso solare dei 18 anni gira un mestolo in una pentola colma di cibo. Si sentono le parole in arabo e italiano e la musica dolce  di ‘Bayna’, la canzone di Ghali, qui  per un ragazzo che era arrivato su un barcone, superando rotte tumultuose, prima di perdersi in Italia.
“Non c’è figlio che non sbaglia no/Tu sogni l’America io l’Italia/La nuova Italia”. (manuela d’alessandro)

La violazione del principio di uguaglianza nel dl sicurezza sulla difesa dei militari

E’ prevista per martedì 17 settembre l’ultima parte della discussione alla Camera dei Deputati del disegno di legge n. 1660, l’ennesimo Pacchetto Sicurezza, ultimo parto dell’ideologia securitaria del Governo.

L’asse portante del provvedimento è costituito dal forte aggravamento della reazione sanzionatoria per fatti tipicamente commessi in occasione di manifestazioni pubbliche, frutto dell’insofferenza del Governo per ogni forma di conflitto sociale e, in genere, di dissenso.

Niente di buono, ma neanche di nuovo. Poi, scorrendo gli emendamenti apportati dalle Commissioni, ci si imbatte in una vera e propria perla: gli articoli 22, tutela legale per il personale delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e 23, tutela legale del personale delle Forze armate, articoli che saranno oggetto di votazione proprio martedì.

L’ipotesi è quella in cui un operante di polizia o dell’esercito finisca indagato o processato perché accusato di aver commesso un reato “per fatti inerenti al servizio” (tanto per capire, “fatti inerenti al servizio” furono i pestaggi della Diaz, le torture di Bolzaneto o, più recentemente, quelle di Santa Maria Capua a Vetere).

Se il testo di queste due disposizioni fosse approvato, sarebbe estesa a dismisura l’operatività di un istituto poco noto in materia di assistenza legale degli appartenenti alle forze dell’ordine: l’anticipazione del pagamento delle spese di difesa da parte dello Stato. Questo significa che, a prescindere da ogni valutazione sulle condizioni di reddito e sulla gravità della contestazione, per difendersi potranno scegliersi un avvocato e farselo pagare dall’amministrazione di appartenenza, cioè dai contribuenti.

Un vero e proprio privilegio, negato ai comuni cittadini, che, quando hanno la sfortuna di affrontare un processo penale come imputati, il difensore devono pagarselo.

L’unica eccezione a questa regola è prevista dalla Costituzione, che assicura ai non abbienti (cioè coloro che guadagnano meno di 1000 euro al mese) i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Ma i poveri sono trattati con molta meno generosità.

Primo, non possono scegliere un avvocato qualsiasi, ma solo uno di quelli iscritti nell’apposito albo. Secondo, le spese non sono anticipate, ma liquidate dal giudice alla fine di ogni fase. Infine, e soprattutto, la misura del compenso riconosciuto al difensore dei non abbienti non può superare la metà della tariffa professionale, ridotta ulteriormente di un terzo: per esperienza, non più di 5.000 euro per tutti i gradi del giudizio.

Quanto potrà ottenere il fortunato difensore di un appartenente alle forze di polizia o all’esercito, grazie alla nuova previsione? Una cifra molto superiore, superiore perfino al massimo di quanto previsto dalla tariffa professionale: fino a 10.000 euro per ogni fase di giudizio, in tutto anche 40.000 euro di parcella (indagini, primo, secondo e terzo grado).

Un esempio tratto da una esperienza diretta può aiutare a capire.

Abbiamo difeso con il gratuito patrocinio una ragazza accusata di aver opposto resistenza ad un agente di polizia che cercava di identificarla. All’esito di un lungo dibattimento, l’imputata è stata assolta e l’agente denunciato alla Procura. Alla difesa sono stati liquidati 1800 euro (e si tratta di una cifra anche superiore alla media). Per la stessa attività, nel processo a carico del poliziotto che l’avrebbe ingiustamente accusata, il difensore potrebbe ottenere da parte dello Stato il pagamento di 20.000 euro (fase indagini e primo grado di giudizio).

Insomma, una clamorosa violazione del principio di eguaglianza nel diritto di difesa.

Avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini

Giustizia per la triste striscia pedonale

C’erano delle strisce. Erano oblique, forse un po’ malinconiche, non rispettavano il canone-universale-di-bellezza-della-striscia-pedonale, per quell’andamento diagonale appena accennato, ma univano funzionalmente l’ingresso di via Freguglia al marciapiede, schivando opportunamente i parcheggi riservati, quelli gialli.

Poi hanno aggiunto due posti, due. E la striscia ha fatto largo, raddrizzandosi non del tutto, ma un pochino. Lucida, bianca come il latte. Ora punta dritta verso via Sant’Antonio Maria Zaccaria. In mezzo alla strada.


C’era un ingresso carraio. Quello per le auto, sempre in via Freguglia, pochi metri più in là. Il sabato pomeriggio, si entra solo da lì a palazzo, pure a piedi. Ma niente strisce bianche e niente intervalli neri. Hanno pensato di metterle. Così. Un ponte lanciato verso il mare aperto, un brivido urbanistico.


Il giorno dopo il puzzle ha cominciato a comporsi, pur tra gli interrogativi e gli occhi sbalorditi di chi ogni 24 ore si è preso la briga di raccogliere testimonianze fotografiche dell’opera, perplesso per la discutibile creatività del Comune.


L’ispirazione a M.C. Escher del progetto alimenta tra i residenti dubbi sulle ragioni di tale dispendio di energia e vernice per pochi posti auto, e sulla sagacia del progetto.


Attendiamo di vedere il disegno completo, con quelle belle righine sfavillanti, per una equilibrata valutazione dell’opera. Intanto però: giustizia per la striscia pedonale.

Il ragazzo morto bruciato in carcere che era stato assolto per un vizio totale di mente

“Un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere”, arrivato in Italia dall’Egitto con mani e piedi legati nella cucina di un barcone e morto a 18 anni carbonizzato in una cella del carcere San Vittore.

Suicidio, incidente od omicidio colposo, reato per cui la Procura indaga il suo compagno di cella, lo stabiliranno le indagini.

È una storia breve tanto quanto disperata quella di Joussef Barson, che sembra toccare molti punti fragili dell’accoglienza, della giustizia e della gestione del disagio mentale. Per due volte da minorenne era stato assolto per vizio totale di mente perché una perizia psichiatrica aveva certificato che non era in grado di intendere e di volere e, quindi, non poteva stare in una prigione. Per questo i giudici del Tribunale dei Minori avevano disposto l’applicazione della misura di sicurezza della comunità terapeutica ritenendolo ‘socialmente pericoloso’.

Nello studio degli esperti datato 9 ottobre 2023 si legge che i dati clinici acquisiti “permettono di concludere per la necessità di cura di un contesto altamente protetto che assicuri condizioni di cura integrate in cui è da ritenersi essenziale un’adeguata terapia farmacologica”.

Perché stava in carcere? Il suo attuale legale aveva chiesto al gip di acquisire la perizia psichiatrica e proprio poco prima che morisse aveva ricevuto la fissazione della data del processo immediato. Quella di prima ‘non valeva’ anche se è difficile pensare che nel giro di pochi mesi Barson avesse acquisito forza mentale e lucidità per affrontare una detenzione tanto più nell’istituto più sovraffollato d’Italia.

Anzi, dalla narrazione dell’avvocata Monica Bonessa, che si commuove pensando a questo destino infelice, la sua esistenza da adulto era stata ancora più tragica.”Era arrivato in Italia dall’Egitto, passando per la prigione in Libia, a bordo di un barcone quando era minorenne – racconta la legale che lo ha assistito fino al compimento della maggiore età -. L’ avevano trovato legato nel bagno del barcone, punito per i suoi comportamenti respingenti verso gli altri. Ci siamo spesi tantissimo col Comune di Milano e con l’Ussm (servizi sociali per i minorenni per i minori autori di reato)del carcere Beccaria per aiutarlo nel corso degli anni. È stato in almeno cinque comunità diverse, dall’ultima è scappato quest’estate e da allora viveva in strada dove ha commesso l’ultima rapina ai danni di una signora. Faceva anche uso di stupefacenti”.

Barson aveva difficoltà ad avere relazioni col prossimo: “Ogni volta che veniva avvicinato mostrava reazioni violente, era un ragazzo che non sapeva né leggere né scrivere, non sapeva tenere in mano nemmeno una penna. Negli ultimi mesi era stato ricoverato due volte, in una l’ospedale gli aveva fatto firmare una lettera di auto-dimissioni nonostante la sua patologia psichiatrica. Ai primi di luglio era stato accoltellato alla gola in strada e aveva provato a bussare all’ultima comunità in cui era stato dove però non erano riusciti ad accoglierlo anche per il suo stato di alterazione”.

“È una storia tremenda con molte situazioni che potevano essere gestite in modo diverso – commenta l’avvocata. “A Milano aveva solo il fratello che non era in grado di gestirlo. Ultimamente chiedeva spesso della madre e del padre rimasti in Egitto e avevamo pensato di fare domanda per il suo rimpatrio, ma non c’è stato tempo”. (manuela d’alessandro)