giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Spiati, pm ne voleva 13 in carcere. Gip: manco uno

Al di là delle serenate d’amore di giornali e tg l’inchiesta sugli spiati si rivela un flop. La procura di Milano aveva chiesto 13 arresti in carcere e 3 ai domicilieri.  Ha ottenuto 4 ai domiciliari e due misure cautelari minori.

Il gip ha ridimensionato il tutto a una storia ordinaria di spionaggio industriale. Dalla procura una richiesta scritta in 1172 pagine. Tutta scena. Sembrava in pericolo la democrazia. Emerge invece che si è trattato di un gruppo di truffatori capaci di vendere a prezzi alti ai loro clienti informazioni che spesso erano già di pubblico dominio.

Il ministro della Giystizia Carlo Nordio che evidentemente non ha nulla di meglio da fare ha parlato di gap tra la tecnologia dei “criminali” e lo Stato. Il problema invece sta nell’assenza totale di anticorpi da parte della pubblica amministrazione. Un problema già emerso evidente almeno ai tempi di Mani pulite ma da allora sempre insabbiato.

Insabbiato dalla politica. E quando la politica fa finta di niente risulta poi impossibile che l’intervento dei magistrati possa risolvere qualcosa. infatti anche in questo caso la montagna rischia di partorire il classico topolino.

Il ricorso della procura al Riesame già annunciato pare la classica pezza peggio del buco. Negli organi di informazione non c’è senso critico fanno copia e incolla con le ordinanze di custodia anche quando sono un flop. Lo spettacolo va avanti in questo modo da anni. E diciamo il mondo peggiora. Chi controlla chi non si capisce. Ma tutto va bene madama la marchesa.

(frank cimini)

 

Brigate Rosse trojan usato su ignoti che invece sono noti

Ti piazzano addosso il captatore trojan ti intercettano un per mesi confrontando le tue parole con quanto repertato 50 anni fa e quando i tuoi difensori eccepiscono l’assenza del decreto autorizzativo da parte del gip il gup rigetta l’eccezione e ti spiega che il decreto non era necessario perché al momento l’inchiesta era contro ignoti. Diventata contro noti solo dopo aver ascoltato le conversazioni intercettate. Insomma ti metto addosso il mezzo più invasivo possibile e non si può dire che ti sospetto. Sei ignoto.
Stiamo parlando dell’inchiesta sulla sparatoria di Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 quando morirono il carabiniere Giovanni D’Alfonso e Mara Cagol. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra arresa e disarmata.
Il gup Ombretta Vanini ha deciso che non c’erano irregolarità e violazioni dei diritti apprestandosi il prossimo 30 ottobre a rinviare a giudizio per concorso in omicidio Renato Curcio, Mario Moretti, Pierluigi Zuffada e Lauro Azzolini.
Il captatore trojan insomma veniva usato per ragioni di assoluta urgenza. Su un fatto badate bene avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987 senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione di Alessandria.
A far riaprire l’indagine era stato l’esposto presentato dagli eredi del carabiniere. In aula in udienza preliminare sono stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Br. Un fatto notorio già all’epoca dei fatti e della prima inchiesta poi “alluvionata”. Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico quello degli anni ‘70.
Ovviamente davanti a questi veri e propri strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tabti garantisti che affollano un paese disgraziato. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan.
Quando si tratta di quella storia, un conflitto sociale durissimo sfociato in una guerra civile a bassa intensità ma neanche troppo bassa le garanzie non esistono. Infine ultima considerazione. Con quello che hanno speso per i captatori trojan non si può permettere cha la procura di Torino una delle più forcaiole d’Italia venga smentita.
Per cui si andrà in corte d’Assise per assistere ai vincitori che processano i vinti. Norimberga due.
(frank cimini)

DePasquale condannato da giudice che assolse Di Pietro

Sono passati molti anni ormai e le storie sono molto diverse, ma per chi conosce la vera storia di Mani pulite non quella raccontata dalle gazzette della Repubblica delle procure è impossibile non reagire con un sorriso amaro.
Fabio De Pasquale è stato condannato per non aver depositato prove a favore degli imputati del processo Eni-Nigeria. Rifiuto di atti d’ufficio. Le motivazioni tra 45 giorni e i gradi successivi di giudizio chiariranno le sue responsabilità.
Il presidente del Tribunale che lo ha condannato è Roberto Spanò colui che da giudice delle indagini preliminari alla fine degli anni ‘90 decide che non c’era neanche bisogno del vaglio dibattimentale. Antonio Di Pietro uomo simbolo della magistratura di allora era puro come un giglio di campo.
Davanti alla richiesta di processarlo l’Associazione Nazionale Magistrati fece un comunicato con cui per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima.
Di Pietro che viveva a scrocco degli indagati del suo ufficio tra Mercedes telefonini con bolletta pagata prestiti a babbo morto restituiti dentro scatole di scarpe non si poteva toccare.
Non era processabile per evitare che venisse fuori la farsa della rivoluzione politico giudiziaria, la presunta lotta alla corruzione che c’era anche prima del 1992 ma che le procure in testa Milano facevano finta di non vedere.
De Pasquale si era scontrato con Di Pietro perché questi interveniva sui suoi fascicoli. Un indagato di De Pasquale latitante si consegnò a Di Pietro. De Pasquale ebbe la notizia dalla telefonata di una giornalista. Il capo della procura San Francesco Saverio Borrelli si schierò dalla parte di Tonino da Montenero di Bisaccia. Di Pietro aveva il paese nelle sue mani. Poveri noi, detto ancora oggi per allora. (frank cimini)

“Le interviste tv non possono essere prove” dicono i giudici della strage di Erba

 

Senza entrare nel merito del romanzo giudiziario ormai liso della strage di Erba che ancora non è arrivato all’ultima pagina perché la difesa farà ricorso contro il ‘no’ alla revisione, le motivazioni alla sentenza che mette un’altra anta davanti alla porta già chiusa dalla Cassazione firmate dai giudici della Corte d’Appello di Brescia dicono qualcosa di molto interessante a proposito di uno strumento sempre più utilizzato  per riaprire partite quasi impossibili.

Parliamo delle interviste televisive, qui in particolare quelle andate in onda nel programma tv ‘Le Iene’ ma i giudici Antonio Minervini, Paolo Mainardi, Ilaria Sanesi sembrano andare dal particolare all’universale.

I magistrati spiegano che non possono valere come “prova nuova” in grado di riaprire un processo perché, “diversamente dal testimone escusso in giudizio, il soggetto intervistato non ha l’obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità e non assume alcun impegno in tal senso. Al contrario, è sicuramente condizionato dal mezzo e dalla pubblicità che esso garantisce e tende generalmente a compiacere l’intervistatore e a porsi in una luce favorevole, abbandonandosi a supposizioni ed esprimendo opinioni personali che non sarebbero ammesse in sede processuale”.

Le “nuove prove” in grado di scalfire una sentenza definitiva, insistono, ”devono avere un elevato grado di affidabilità ed essere idonee a ribaltare l’affermazione di penale responsabilità contenuta nella sentenza di cui s’invoca la revoca. La diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti, inoltre, può costituire prova nuova solo se fondata su nuove acquisizioni scientifiche, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili e sempre che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e condivise all’interno della comunità scientifica di riferimento. Poiché una parte delle prove di cui la difesa chiede oggi l’acquisizione sono rappresentate da interviste rese a testate giornalistiche e televisive, a queste preliminari considerazioni sulla nozione di prova nuova, deve aggiungersi che la natura di documento dei supporti cartacei e audiovisivi di tali interviste non vale, ad avviso della Corte, a conferire loro il rango di prova ammissibile in sede processuale. Nessun presidio, al di là della deontologia dell’intervistatore, è previsto a tutela della genuinità e libertà delle sue risposte e della correttezza delle domande, che ben possono essere, in un’ottica di mero giornalismo investigativo, suggestive, insinuanti e insidiose. L’argomento vale per tutte le interviste proposte dalle difese nell’istanza di revisione e nelle successive memorie, a maggior ragione per quelle a soggetti che hanno deposto nel dibattimento di primo grado, la cui testimonianza non può essere falsificata da risposte incerte o apparentemente in contrasto con quanto dichiarato nella sede processuale deputata, offerte a distanza di quasi vent’anni dai fatti e dalla testimonianza resa in primo grado, fuori da un’aula di giustizia, in contesti privi della sacralità propria del processo, senza obbligo di verità”.

Se è vero che spesso le interviste sono effetti speciali a scopo audience e clic o per fomentare fazioni e che la maggior parte delle volte il loro contributo all’accertamento della verità giudiziaria sia nullo, accade che talvolta proprio un’intervista risolva perfino un omicidio, come accaduto nel caso di un cronista di ‘Pomeriggio 5’ che, qualche giorno fa, ha raccolto la confessione di un uomo che ha raccontato di avere strangolato la madre con tanto di chiamata in diretta alle forze di polizia per farsi arrestare.

In altre occasioni, se non proprio prove, e del resto non dovrebbe essere quella l’ambizione di un cronista, alcune interviste hanno offerto stimoli o svegliato magistrati impigriti. (manuela d’alessandro)

Le motivazioni alla sentenza che boccia la revisione

 

 

Sulle Br i pm intercettano senza l’ok del gip

Pur di arrivare a celebrare il processo alle Brigate Rosse per i fatti del 5 giugno 1975 alla Cascina Spiotta morte di Mara Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso i pm di Torino continuano a combinarne di tutti i colori in violazione della procedura. L’imputato Lauro Azzolini è stato intercettato tramite il captatote trojan senza che esista agli atti un decreto specifico di autorizzazione da parte del gip.
Il decreto era necessario perché si parla di un imputato già prosciolto con le indagini a suo carico riaperte con un revoca della sentenza di proscioglimento che non si trova perché scomparsa durante una alluvione. Verdetto revocato senza neanche essere letto.
La conversazione tra Azzolini e la moglie veniva in modo illegittimo utilizzata nell’interrogatorio di Luigi Bialetti sentito come testimone con l’obbligo di dire la verità nonostante in precedenza fosse stato indagato per falsa testimonianza.
Il difensore di Azzolini l’avvocato Davide Steccanella chiede l’espulsione degli atti illegittimi e non utilizzabili dal voluminoso fascicolo processuale. Vediamo cosa deciderà il gup nell’udienza che inizia dopodomani 26 settembre a Torino. Con Azzolini sono imputati Renato Curcio Mario Moretti e Pierluigi Zuffada.
Nessun accertamento è stato fatto per stabilire le modalità con cui fu uccisa Mara Cagol mentre era a terra disarmata ormai arresa.
Ogni sforzo è stato concentrato per individuare il brigatista scappato dopo lo scontro a fuoco che la procura di Torino ritiene di aver individuato in Lauro Azzolini. Questo succede nonostante il Ris dei carabinieri non abbia trovato impronte attribuibili a Azzolini sulla porta della cascina e sul furgone utilizzato dai brigatisti.
Stiamo parlando di una indagine densa di irregolarità atti illegittimi e forzature della procedura ai fini di processare la storia. Nel caso gli inquirenti fossero in buona fede ci sarebbe da chiedere come abbiano fatto a laurearsi e a superare il concorso da magistrati. È più semplice pensare invece a militanti del loro processo che con ogni probabilità fossero stati al posto dei loro predecessori mezzo secolo fa sarebbero riusciti a fare anche di peggio. E questo è tutto dire.
(frank cimini)