giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Perché è impossibile trovare un’etica nei casi di cronaca (compresa la storia di Giulia)

Che dovessimo studiare semiotica, teorie della comunicazione di massa, analisi dei media per fare i giornalisti ci sembrava in certi lunghi pomeriggi passati in via Sant’Agnese, a Milano, un po’ una perdita di tempo. Volevamo stare in redazione, scendere nell’aula del seminterrato e parlare di pezzi, interviste, foto, realtà. Poi c’era un professore che veniva dal centro San Fedele, padre Luigi Bini, un gesuita svizzero che a volte ci sembrava un marziano con le sue lezioni di etica della comunicazione.

Passati circa venticinque anni mi viene spesso da pensare a quei colleghi della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica, se anche a loro, guardando i Tg, leggendo i giornali, scrivendo articoli o commissionando pezzi, capiti di ritrovare qualcosa di già detto e previsto dalle analisi e le dinamiche che studiavamo in quegli anni. A me capita. Quando vedo le notizie da prima pagina, e scelgo la parola vedere apposta, mi prefiguro già la puntata successiva, come una serie di una piattaforma con tutti i passaggi e le variabili. Così prevedibili sono la realtà e l’umana natura? La risposta è no.

Visto il luogo in cui uscirà questa sequenza di frasi, in uno spazio digitale, stilisticamente addomesticato alla brevità e alla perentorietà anche, non posso permettermi troppe divagazioni e andrò subito al punto.

Perché quando vediamo i protagonisti di questi fatti da prima pagina ci aspettiamo invece qualcosa di nuovo, sorprendente e definitivo che porti a una svolta, un insegnamento, un’esemplarità? 

E’ per quella cosa che dice il Censis, cioè il sonnambulismo dell’ipertrofia emotiva? Cioè l’essere sollecitati talmente tanto da un diluvio di emozioni, dolore, rabbia, indignazione, da non sentire più niente e allo stesso tempo rimanere sempre nell’attesa di un risveglio? Che qualcosa finalmente accada e ci spieghi cosa è successo prima o cosa ci siamo persi?

Si. Questo «sì» vale però come effetto, non come causa. Prima c’è un altro meccanismo che agisce, il diventare appena si entra nel setting della notizia, sia come lettore e attore, un altro essere, finzionale, un personaggio della stessa rappresentazione mediatica.

Entri persona reale con il tuo vissuto, il tuo passato, esci mutato e mutante, a seconda dell’inclinazione che riesci a prendere sotto il peso inerziale dell’immaginario mediatico.

Diventi una persona simbolica, una maschera, come il personaggio della relazione sociale pensato  a Chicago da Goffman che faceva partire questo meccanismo molto prima, dalla vita quotidiana stessa. Figuriamoci per chi ascende agli onori o discende nei disonori della cronaca. Se si guarda bene è già un ruolo. Il padre, la madre, il giudice, il medico, la vittima, il soccorritore, il corrotto, il freak, il protagonista, l’aiutante, l’antagonista e la principessa. Uso queste ultime quattro figure per mostrare a cosa sto pensando, a Propp e alla sua morfologia della fiaba. C’è una morfologia della notizia che non sfugge a una simile forma, non c’è niente da fare, è l’inerzia dell’immaginario, una sorta di peso gravitazionale del nostro accadere, un recinto che ci chiude ma che ci protegge anche da realtà non classificabili che possono sempre accadere, evocate come un ignoto temibile dietro l’angolo.

Una volta reificato, il personaggio-maschera può parlare alla massa uniformata del mondo delle correnti social che acchiappano visualizzazioni, A questo punto tutto quello che si intravvedeva di personale e unico si traduce in un linguaggio base, da paniere Istat del parlato italiano. Le parole diventano hashtag perché solo così funzionano, aggregate a flussi tematici. I discorsi ampi e articolati si frantumano in pochi secondi di reel, ripetuti senza dover cliccare la funzione restart, basta poi un gesto di un pollice per passare a un altro flusso.

Entri subito, se non fosse per quella cosa che giudichiamo noiosa dei cookies, nella macchina economica di questo sistema, fino a determinare in una scala dimensionale le pubblicità che valgono di più se porti la pagina a moltiplicare le visualizzazioni, le home page più cliccate, fino ad alimentare le aspettative dell’audience tv e richiamare gli ingaggi delle società di produzione, gli uffici di comunicazione che dettano le scalette.

Tutto questo apparato non si vede, riesce a non disturbare la trasparenza del media. Non fa vedere l’artefatto, sembra tutto vero e autorevole come quella frase che si diceva nel periodo dell’Archeotv «l’ha detto la televisione» o ai tempi della radio, l’antenata di tutto questo sistema come ci spiegava il professore Giorgio Simonelli con il suo piglio gentile ad equilibrare qualche conclusione apocalittica.

E al famoso lettore, cioè a chi digita, legge, guarda, allettato da una grande notizia, dove la realtà da mostrare sembrava tanta e vivida con tante cose da svelare, con protagonisti ricchi di valori e/ o disvalori, dove si assicura una mobilitazione di pensieri tali da richiamare la spiegazione importante del pensatore onnisciente che deve però parlare poco, giusto per abbozzare un senso,  al famoso lettore, dicevamo, ora non sembra abbastanza.

Manca l’insegnamento, un’etica definitiva, un ecco adesso ci siamo, ricordiamocelo, fissiamolo per sempre come un mai più del nostro comportamento. Mai più tragedie, mai più guerre, mai più incidenti, mai più. Seguono la delusione e poi l’accusa. La storia non regge la missione iniziale, c’è qualcosa della materia bruta che non riesce ad entrare nel making of e annulla le aspettative. C’è disorientamento, come l’effetto di un neon sparato negli occhi, che cancella le sfumature, i rilievi, le profondità. Sempre nella nostra scuola della Cattolica, Alberto Negri, professore di Semiotica del testo audiovisivo, parlava proprio di neon-tv per descrivere l’abbaglio che sembra mostrare le cose in modo più vivido ma in realtà le cancella per sovraesposizione.

E che facciamo?  Qualcuno comincia a ribellarsi e a parlare dell’assenza di un contesto comune di valori che ci possa tutelare da questi abbagli e dalle false speranze, «ai miei tempi», «eccetera eccetera», fino a pensare che è meglio starsene rintanati nelle nostre piccole comunità, aver voglia di spegnere tutto come soluzione (tentazione a cui in realtà io cedo volentieri, ndr). Anche questo un già visto e previsto. Uscire da questa che i massmediologi chiamano infosfera non è però possibile. Cercare di prenderne le distanze si, almeno per vedere come funziona (riprendere in mano gli appunti di Padre Bini, nel mio caso) o provare a vederci da fuori, come faceva Lorenz con le oche.

Un’etologia prima dell’etica, e sarebbe già tanto.

Giusi Di Lauro

Differenze di trattamento del caso di Roma Termini e del figlio di Salvini

 

Tema numero uno. Un uomo probabilmente affetto da disagio psichico, senzatetto, vagabondo, straniero, qualche precedente di polizia, accoltella una turista a Roma. Due bravi carabinieri fuori servizio lo individuano a catturano, in stazione Centrale a Milano, martedì 3 gennaio.

Fermo di polizia giudiziaria. La mattina dopo, mercoledì 4 gennaio, il pm di turno chiede la convalida del fermo e attorno a mezzogiorno la invia al gip. Il giudice fissa l’interrogatorio per le 3 di pomeriggio dello stesso giorno. Alle 18.00 le agenzie scrivono che il fermo è convalidato, alle 18.30 aggiungono i primi dettagli sul provvedimento. Sono passate esattamente 24 ore dal fermo.

Intanto per tutta la mattina e il pomeriggio molti giornalisti attendono di poter intervistare i due carabinieri. Loro sono disponibili, il comando pure, ma ci vuole l’autorizzazione della Procuratore capo, da cui dipende praticamente ogni comunicazione giudiziaria, in seguito alla riforma Cartabia. Ma se non c’è neanche un comunicato sul fermo, figuriamoci se sono autorizzate le interviste.

La nota arriva alle 16.45, autorizzata dalla Procura di Roma. Comunica che l’uomo è stato arrestato – cosa che tutti sanno dalla sera prima – aggiungendo pochissimi dettagli. I giornalisti vengono fatti entrare in caserma all’istante, per intervistare i due militari.

Tema numero due. Il figlio di un ministro viene rapinato per strada da due giovani nordafricani. E’ il 23 dicembre, due giorni prima di Natale. Non è un caso difficile da risolvere, e la parte offesa, accompagnata dal padre in Questura, dà pronta e utile collaborazione. Il 5 gennaio i due rapinatori vengono arrestati, con misura di custodia cautelare firmata dal gip, su richiesta del pm. Sono passati 13 giorni dal fatto. Alle 17.25 del 5 gennaio l’arresto viene comunicato con una tempestiva nota ufficiale.

Dica il candidato (avvocato, giornalista):

- Quante volte ha assistito in vita sua a tempstiche così rapide tra un fermo di pg e la sua convalida.

- Quanto spesso tra la consumazione di un reato e l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare passano meno di 15 giorni.

Determini il candidato (avvocato, giornalista)

- Il livello di disfunzionalità e di ipocrisia istituzionale del sistema di comunicazione affidato ai soli comunicati dei Procuratori della Repubblica. (nino di rupo)

 

Non è un atto garantista affidare la cronaca giudiziaria a un procuratore

Davvero pensiamo che sia un atto garantista affidare la cronaca giudiziaria solo a un procuratore capo?

Così impone la legge sulla ‘presunzione d’innocenza’: parla lui e lui solo, il sovrano della procura, tale diventato dopo la riforma che un po’ di anni fa ne ha ampliato a dismisura i poteri con le conseguenze che tutti abbiamo visto, anche nelle vicende che hanno squassato Milano: Bruti Liberati contro Robledo, Greco contro Storari, per dire.

E come un vero sire parla in conferenza stampa quando decide lui di dare a un caso la patente di  ”rilevante” spiegando  con “atto motivato” le ragioni di pubblico interesse che lo spingono a farlo. Ed eventualmente, chi le boccia queste ragioni? Un ministro? Un sottosegretario? Un comitato di saggi? Distillare le conferenze stampa, visto che l’alternativa in questi casi rilevanti viene indicata in un comunicato senza possibilità di confronto coi media, significa anche ridurre al minimo uno dei pochi momenti alla luce del sole delle indagini dove chi le fa ci mette la faccia e se ne prende la responsabilità, importante anche in seguito per sapere chi si è preso l’eventuale cantonata.

Peraltro è noto che spesso il capo della Procura le indagini dei suoi sostituti le conosce per sommi capi perché non ha seguito l’inchiesta passo passo, com’è giusto che sia, quindi potrebbe non essere in grado di rispondere alle domande – resta il diritto di fare domande? – ai cronisti.

Accadrà, com’è naturale quando uno cerca di fare al meglio il proprio lavoro, che si continuerà a bussare alle porte dei sostituti , stando sulla soglia o mandando un messaggio che si autodistrugge in cinque secondi. Al pm tremebondo per eventuali sanzioni non si potrà però più attribuire più nulla, come ora spesso accade, restando in quel terreno ispido della citazione di fonti anonime, che poco contribuisce a un’idea di informazione attendibile e trasparente. In fondo, ciò  che un lettore desidera.

Il tutto in un meccanismo che da anni, nonostante le ripetute richieste dei giornalisti, impedisce l’accesso agli atti pubblici senza le disdicevoli elemosine ai bordi dei palazzi, delle questure e degli studi di avvocati.

Ci sono altri modi per garantire il garantismo? Eccome. Qualcuno lo centra pure la legge Cartabia eliminando le indagini nel cui nome viene già pronunciata una condanna (Mafia Capitale, Mani Pulite, Toghe Sporche). Dice anche che i magistrati non devono usare espressioni di condanna anticipata di  un indagato altrimenti devono rettificarle entro un giorno.

Viene da sorridere: davvero è necessaria una legge per sancire un principio che si impara al primo anno di giurisprudenza?

Veniamo a noi giornalisti: spesso colpevoli di fare i processi suoi giornali con tanto di sentenza di condanna. Vero, verissimo. E questo nonostante le miriadi di codici deontologici che imporrebbero la presunzione d’innocenza, il non mostrare un imputato in manette, non fare i nomi dei bambini e delle vittime. Che orrore, sì.

Pensiamo davvero che la soluzione possa venire calata dall’alto da un ministro (meritoriamente) garantista con una carta ottriata? Non risultano in Parlamento consultazioni coi giornalisti, solo coi magistrati. Eppure l’informazione la fanno i cronisti.

Infine, sì, è vero, la cultura del garantismo in Italia sconta anni tremendi, quelli in cui essere rispettosi del principio d’innocenza voleva dire essere berlusconiani e non esserlo no. Una cultura a intermittenza, in base ai fatti propri. Un po’ è così ancora anche se col Cavaliere sono diventati garantisti quasi tutti, tranne Travaglio, sempre perché conviene al proprio orto. E’ la politica per prima ad averla diffusa, questa cultura, perfino prima dei gazzettieri delle procure.  E adesso ci da’ la pozione da ingoiare tutta d’un botto per risolvere il problema. Qualcosa non torna. Eppure lo sapete, da queste parti del garantismo ne abbiamo fatto un’ossessione. (manuela d’alessandro)

 

Stupro, due anni più terapia ma non vale certo per tutti

È una sentenza di cui dovremo ricordarci non appena per un fatto analogo un immigrato extracomunitario sarà condannato a 8 anni di carcere. Succede al Tribunale di Milano.
Il  giornalista ed ex assessore di Milano Paolo Massari ha patteggiato due anni per la violenza sessuale nei confronti di un’amica, perpetrata il 14 giugno scorso. La donna, una 56enne sua ex compagna di scuola, era stata stuprata in casa dopo una cena con lui, poi era uscita nuda in strada pur di allontanarsi dal suo aguzzino; quindi era stata soccorsa e aveva denunciato. L’ex assessore era stato portato in carcere. Da quanto si e’ saputo, ha ammesso i fatti e ha chiesto scusa alla vittima, risarcendola di una cifra attorno ai 50mila euro. In base alla norma prevista dal “codice rosso” per i profili per cui sulla “pericolosita’” prevale la “fragilita’” psicologica del soggetto, e’ prevista la pena sospesa e il trattamento terapeutico di due anni. Qualora l’imputato non si presenti anche ad una sola seduta il percorso si interrompe e si torna alla pena afflittiva. Gia’ in passato Massari si era autosospeso dalla giunta Moratti per una vicenda relativa a molestie sessuali.
“La pena è adeguata al fatto concreto – spiega il procuratore aggiunto Maria Letizia Mannella – il comportamento processaule dell’imputat è stato corretto. L’imputato ha intrapreso una terapia”.

Chi scrive queste poche e povere righe è contrario all’esistenza stessa del carcere ma ha l’impressione che la sentenza del caso Massari sia un unicum o quasi. La pena appare anzi è assolutamente ridicola rispetto a quanto avviene regolarmente nei palazzi di giustizia. Massari, ricco, belloccio, famoso e colto come suggerisce un collega della cronaca giudiziaria ha beneficiato di una sorta di perdono di fatto. Aveva anche una decina di precedenti prescritti fuori dalle indagini ma va detto anche che a difenderlo c’era e c’è un avvocato bravissimo come Luigi Isolabella erede di un principe del foro milanese. E fatto non secondario con i giornali che non infieriscono come fanno di solito con i  comuni mortali e i poveri cristi.

Questa vicenda appare sicuramente illuminante perché dimostra che la legge non è uguale per tutti. Si, così sta scritto nei tribunali ma non è vero. anzi. Una volta si parlava di giustizia di classe ed è il caso di recuperare quel termine perché assolutamente rispondente alla realtà. (frank cimini)

Battisti a forte rischio Covid, difesa chiede i domiciliari

“Anche in situazioni di ritenuta compatibilita con il carcere il magistrato di sorveglianza deve verificare se se la patologia di cui è affetto il detenuto sia da considerarsi grave e conseguentemente la prosecuzione della detenzione non possa che rappresentare un trattamento inumano e degradante”. Lo scrivono gli avvocati Maurizio Nucci e Davide Steccanella nell’istante con cui chiedono il rinvio dell’esecuzione della pena per ragioni di salute e la concessione degli arresti domiciliari per Cesare Battisti.

Gli avvocati ricordano che Battisti ha malattie pregresse da quelle polmonari a quelle epatichee al diabete ed è recluso nel carcere di Rossano dove si registra almeno un caso al giorno di un detenuto positivo al Covid.

Il pericolo di contagio spiegano i legali in un ambiente altamente patogeno come quello carcerario è sicuramente maggiore poiché non consente forme di isolamento preventivo.

L’attuale mancanza di letteratura scientifica e l’aggiornamento sul campo portano a una situazione drammatica che ricade su un diritto inalienabile quale è quello alla salute del detenuto.

Gli avvocati chiedono che Battisti vada agli arresti domiciliari a casa del fratello in provincia di Grosseto dove è stata registrata l’assenza di casi di positività al Covid.

Dopo aver riferito dell’istanza tocca aggiungere che non bisogna avere la palla di vetro per capire che la stessa non ha molte probabilità (eufemismo) di essere accolta. È la ragione principale del diniego sta ne fatto che i giudici di sorveglianza hanno paura delle reazioni della cosiddetta opinione pubblica, dei giornali e dell’ineffabile ministro della Giustizia Fofo’ Bonafede che a ogni scarcerazione per motivi di salute manda gli ispettori per criminalizzare di fatto chi ha disposto i provvedimenti.

Ma gli avvocati hanno fatto il loro mestiere a tutela dell’assistito e del diritto alla salute in carcere che va al di là del caso Battisti. Di questo si parlerà domani nel corso di una manifestazione davanti al carcere di Rossano convocara da un appello firmato da avvocati, docenti universitari, giuristi e giornalisti (frank cimini)