giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Il vuoto di memoria di De Benedetti al processo contro Tronchetti

Un vuoto di memoria roboante, tanto che in aula ci si guarda esterrefatti. Carlo De Benedetti, 81 anni pieni di verve, ‘dimentica’ nel processo in cui ha citato per diffamazione Marco Tronchetti Provera di avere patteggiato tre mesi di carcere per falso in bilancio quando era all’Olivetti.

Davanti al giudice, ingaggia un duello aspro col legale  del Presidente di Pirelli, l’avvocato Tullio Padovani, osso durissimo, che passa in rassegna una per una tutte le frasi incriminate del suo assistito, tra cui questa: “De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti”.   “Quell’affermazione  è falsa – protesta l’ingegnere  – nessuno ha mai impugnato i bilanci, erano integri e genuini”.  “Le chiedo – insinua allora Padovani –  se lei ha memoria di una sentenza di condanna nei suoi confronti da parte del Tribunale di Ivrea del 14 ottobre 1999, poi passata in giudicato, per falso in bilancio in relazione ai bilanci Olivetti”. “No, non ricordo di questa sentenza perché sarà finita nel nulla l’accusa”, risponde De Benedetti. E il legale: “Non è finita nel nulla, ma con una sentenza di patteggiamento a tre mesi di reclusione per falso in bilancio con risarcimento per l’Olivetti. Le imputazioni – precisa – si riferivano a delle trasformazioni contabili. Lei non ricorda di avere risarcito Olivetti?”. “No”, risponde ancora una volta l’ingegnere. “Eppure questo risulta dalla sentenza – insiste il legale – che mi riservo di produrre. Quindi i bilanci erano criminosamente falsi e lei patteggiò la pena”. In effetti, la sentenza di patteggiamento venne revocata dalla Cassazione nel 2003 perché il bilancio qualitativo non era più previsto dalla legge come reato, ma De Benedetti sembra proprio avere smarrito ogni memoria di quella vicenda. Continua a leggere

Procuratore smentisce il Corriere…. come l’uomo che morde il cane

Non era mai accaduto. E’ successo oggi. Il procuratore della Repubblica di Milano ha smentito il Corriere della Sera in relazione a un accordo raggiunto dal colosso Google con agenzia delle entrate, gdf e pm attraverso il pagamento di 320 milioni di euro per risolvere un contenzioso fiscale.

Edmondo Bruti Liberati, senza nemmeno citare il quotidiano o generiche notizie di stampa, ha emesso un comunicato ufficiale in cui afferma: “E’ stato intrapreso il contraddittorio con rappresentanti del gruppo Google…. allo stato non sono state raggiunte intese con la società che si è riservata di fornire dati che consentano di quantificare la redditività in Italia”.

Cioè, dice Bruti, l’accordo non è stato perfezionato. Su Corriere.it Luigi Ferrarella, l’autore dell’articolo, precisa che l’accordo raggiunto la settimana scorsa dopo una riunione in procura prevede che la settimana prossima la compagnia americana presenti l’istanza di adesioneall’agenzia delle Entrate sulla base della fotografia scattata dal processo di constatazione della gdf.

Anche Google aveva smentito, ma che lo faccia la compagnia interessata al contenzioso fa parte del gioco, è quasi scontato. Che il procuratore di Milano prenda, si diceva una volta carta e penna ora sostituite dal computer, per controbattere quella che al massimo appare come una inesattezza sui tempi della formalizzazione nero su bianco di un accordo già intervenuto è sicuramente singolare.

Il capo della procura di Milano che smentisce o meglio cerca di smentire il Corriere è un po’ come l’uomo che morde il cane. Insomma è una notizia, che va al di là di un pur importante contenzioso fiscale. Anche il circuito mediatico giudiziario di cui parlano spesso i critici, in realtà non moltissimi, della repubblica penale nata nel 1992 ma con ogni probabilità pure molto prima, conosce i suoi intoppi.

Tornando a Google, la settimana prossima l’accordo sarà formalizzato esattamente nei termini di cui ha scritto il quotidiano di via Solferino. Ma allora sarà una notizia vecchia. La novità, vera e unica, è il procuratore di Milano che si imbarca nella smentita (tentata) del Corriere (frank cimini)

 

“Evasore seriale”, gli sequestrano 5 mln senza una condanna

E’ stato sempre prescritto, tranne un’assoluzione per insufficienza di prove, nei numerosi processi per frode fiscale in cui è incappato. Ma i giudici della sezione Autonoma Misure di Prevezione, presieduti da Fabio Roia, gli hanno sequestrato 5 milioni di euro sulla base di “indizi” che dimostrerebbero una “spoporzione tra gli investimenti effettuati nell’ambito delle sua attività lavorative  e il reddito dichiarato.

Con un provvedimento ‘pilota’, la Guardia di Finanza di Milano ha portato via all’imprenditore di origini irpine  Mario La Porta, attivo nel settore del movimento terra, 60 immobili, terreni, conti correnti e due società, come misura di prevenzione e non a seguito di inchieste o procedimenti in corso. “Questi beni, secondo i giudici, “appaiono indicativi di una disponibilità economica temporalmente in gran parte coincidente con le attività illecite poste in essere (…) che non trova giustificazione in adeguati e proporzionati redditi leciti, sì da ritenere che costituiscano il frutto o il reimpiego di attività illecite”. Secondo il pm Alessandra Dolci, a partire dal 2000 l’imprenditore si è dedicato a “diverse attività illecite” anche per reati in materia ambientale e di immigrazione e “principalmente” ha messo in atto “un’evasione fiscale in forma sistematica e seriale” accumulando “un ingentissimo patrimonio immobiliare”. Tutti raggiri al fisco mai culminati in una condanna sebbene accertati in sede tributaria. Per giustificare la ‘pericolosità sociale’ di Mario La Porta i giudici si riferiscono ad accertamenti condotti dalla Dia che evidenzierebbero “consolidati rapporti” tra la famiglia La porta ed esponenti della criminalità organizzata calabrese, in particolare col clan dei Flachi. Ora in un’apposita udienza i giudici dovranno decidere se confiscare o meno i beni sequestrati all’imprenditore.  Resta il fatto che per la prima volta, almeno a Milano, c’è stato un sequestro patrimoniale a carico di un presunto evasore come misura di prevenzione, ‘solo’ sulla base di indizi. (manuela d’alessandro)

Fabio Riva, il latitante che Londra non vuole consegnare all’Italia

Dice, amaro, un investigatore: “In Inghilterra c’è la giustizia di classe, se sei ricco non ti estradano”.   

Fabio Riva, 60 anni, quando il 27 novembre 2012 parte l’ordine di arresto da Taranto con l’accusa di disastro ambientale, si trovava già a Londra. Si costituisce a Scotland Yard ottenendo la libertà vigilata su cauzione. Il 22 maggio 2014 il gip di Milano gli notifica un mandato di arresto europeo per associazione a delinquere e truffa ai danni dello Stato. Sono passati più di due anni e la giustizia inglese sembra non avere nessuna intenzione di estradare il figlio di Emilio Riva, patron del gigante siderurgico morto quando già la sua ‘creatura’ stava franando.

Nel frattempo, per quella presunta truffa da cento milioni sui rimborsi pubblici, il già vicepresidente di Riva Fire  è stato condannato il 21 luglio 2014 a sei anni e mezzo di carcere e a pagare, in solido con altri imputati, una provvisionale di 15 milioni di euro allo Stato.  In Inghilterra a un certo punto, nel 2013, sono iniziate le udienze per l’estradizione di Fabio Riva. I suoi avvocati hanno cercato di convincere la Corte britannica  degli errori della magistratura italiana. Per il versante ambientale si è scomodato il professor Suresh Moolgaukar, di Exponent, un’associazione mondiale di esperti, nata per fornire consulenza alle aziende su come affrontare i temi critici legati all’ambiente. Poi, radi contatti tra  i pubblici ministeri italiani che coordinano l’indagine e i giudici britannici. I primi che chiedono nuove, i secondi che temporeggiano. 

Ieri il Tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza di Ilva, un passaggio obbligato per permettere di portare avanti l’amministrazione straordinaria e di salvare quel che resta dell’ex diamante di famiglia. Con la certificazione del crac, Fabio Riva rischia la nuova accusa di bancarotta fraudolenta. “Quando chiediamo l’estradizione di un nomade basta un secondo – considerano in Procura – qui stanno passando gli anni”. (manuela d’alessandro)

*L’8 maggio 2015 i giudici inglesi hanno accolto la richiesta di estradizione

Prescrizione, non sapremo mai se qualcuno sbagliò nella bonifica di Santa Giulia

Non sapremo mai se qualcuno ha sbagliato  nella bonifica dell’area dove è sorto il quartiere Santa Giulia, frutto di un controverso maxi progetto immobiliare che prevedeva di ripulire 1 milione e duecentomila metri quadrati un tempo occupati da Montedison.

Il processo a carico di 11 persone, tra cui l’ex immobiliarista Luigi Zunino, accusate di irregolarità nella gestione di rifiuti, discarica non autorizzate e altri reati ambientali, corre verso la prescrizione dopo essere stato ridimensionato nella accuse più gravi al termine dell’udienza preliminare.

Nell’udienza di stamattina, le difese hanno chiesto al giudice monocratico Giulia Turri di dichiarare prescritte le ipotesi accusatorie in base a una tesi della Cassazione che collocherebbe la consumazione del reato quando c’è stata l’ultima movimentazione di terra, nel 2008. In questo caso, trattandosi di reati che si prescrivono in 5 anni, saremmo già al requiem per un processo cominciato a settembre.  Ribatte l’accusa, rappresentata dal pm Laura Pedio, che la prescrizione andrebbe calcolata dal 20 luglio 2010, giorno in cui la Procura dispose il sequestro di tutta l’area oggetto della bonifica, e quindi il processo ‘sopravviverebbe’ fino al 20 luglio prossimo.

Deciderà lunedì il giudice Turri ma sin d’ora è possibile immaginare la difficoltà di arrivare entro l’estate a una sentenza almeno di primo grado che, se fosse di condanna, consentirebbe perlomeno alle parti civili di ottenere dei risarcimenti.  Condanna tutt’altro che scontata dal momento che questa indagine,  esplosa con 5 arresti nel 2009, tra cui quello dell’ex ‘re delle bonifiche’, poi defunto, Giuseppe Grossi, ha  perso sulla strada  ‘pezzi’ importanti con la decisione del gup di prosciogliere gli imputati dal reato più grave di avvelenamento della falda acquifera. L’ex presidente di Risanamento Zunino e gli altri imputati, tra i quali ex dirigenti del Comune e dell’Arpa, devono difendersi  ‘solo’ in relazione a reati ambientili punibili con sanzione pecuniaria. Quando venne sequestrata l’area l’ipotesi della Procura e del gip era che vi fossero sostanze cancerogene nelle falde e rifiuti pericolosi dove doveva sorgere un asilo. Comunque vada, non sapremo mai con certezza, attraverso una sentenza definitiva, cosa è successo nei giorni in cui si schiantava il sogno del nuovo quartiere verde e chic di Milano.  (manuela d’alessandro)