giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Terrorismo, Cassazione: per Cerrone motivazione carente

“La motivazione sull’esistenza dell’ipotizzata associazione con finalità terroristiche è carente. La sovrapposizione della struttura associativa e quella del centro sociale è affermata ma non sufficientemente illustrata e non fa comprendere  in che modo la frequentazione e del centro sociale Bencivengasia già di per se espressiva dell’esistenza di un rapporto di stabile e organica compenetrazione e del sodalizio tale da implicare un ruolo dinamico e funzionale”. Questo scrive la Cassazione in merito all’attività politica dell’anarchica Francesca Cerrone arrestata per  ordine dei giudici di Roma.

La Cassazione ha annullato con rinvio degli atti al Riesame per un nuovo giudizio l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Cerrone nel frattempo resta detenuta e va ricordato che la Cassazione ha impiegato dai primi d dicembre a oggi due mesi e mezzo depositare la motivazione. Non sono stati ancora depositati invece i motivideella decisione relativa ad altri quattro anarchici i quali ai primi di novembre erano stati rimandati gli atti al Riesame sempre  con annnullamento dell’ordine di carcerazione.

Per quanto riguarda la posizione di Cerrone la Cassazione ha annullato senza rinvio il mandato di arresto in riferimento alla stesura del documento “Dire e se dire” dove veniva contestata l’istigazione a delinquere anche in rapporto alla campagna di solidarietà con i detenuti. Sempre senza rinvio cassata l’accusa riguardante i fumogeni accesi durante una manifestazione davanti al carcere di Rebibbia.

In pratica il lavoro della procura, del gip autore del solito copia e incolla, e del Riesame responsabile dell’assenza totale di qualsiasi sforzo critico è stato fatto a pezzi dalla Cassazione. La suprema corte già in pasto aveva fissato dei paletti ben precisi in tema di associazione sovversiva ma le procure fanno di non capire sempre ligi ai canoni dell’emergenza infinita.

(frank cimini)

Giustizia superlumaca anarchici in attesa in galera

Alla giustizia lenta e lentissima siamo abituati da sempre ma “il fenomeno” è ancora più inquietante quando a pagarne le conseguenze sulla propria pelle sono indagati detenuti in custodia cautelare e a carico dei quali la procura (Roma nel caso specifico) non ha ancora esercitato l’azione penale.
Ai primi giorni del novembre scorso la Cassazione rispediva al Riesame gli atti relativi all’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo per 4 anarchici invitando il Tribunale a decidere ex novo. Ecco, sono passati quasi tre mesi e le motivazioni della Cassazione non sono state ancora depositate. Fatto che rende impossibile una nuova udienza mentre gli indagati restano in cella. A metà dicembre analoga decisione per una quinta persona del gruppo, con rilievi critici ancora più forti in merito alla scelta del Riesame di confermare il
carcere. Anche queste motivazioni mancano all’appello.
Gli avvocati della difesa avevano presentato ricorso contro gli arresti paventando che il costante richiamo alla vicinanza ideologica a una determinata area dell’anarchismo diventasse l’unico criterio alla base degli arresti. I legali ricordavano che proprio la Cassazione aveva nel recente passato fissato dei paletti ben precisi affinché non si perseguisse il fatto ma il “tipo di autore”. Si tratta della tendenza che è storicamente rappresentata nel concetto di “diritto penale del nemico”.

Del resto al centro dell’inchiesta c’erano una serie di manifestazioni sit-in volantinaggi contro il carcere come istituzione e per denunciare le condizioni di detenzione aggravate dall’emergenza Covid. C’era e c’è il rischio di criminalizzare un pubblico attivismo politico impostato su una critica radicale anche dura a istituzioni pubbliche.. (frank cimini)

Gli altarini della casta togata, il libro di Zurlo

Al fine di accompagnare i taralli del caso magistratura, derubricato dal CSM e dai giornaloni a caso Palamara con ovvia radiazione del capro espiatorio per fingere pulizia e tabula rasa, appare utile la lettura delle 223 pagine vergate dal collega Stefano Zurlo cronista nelle aule dei processi di vecchia data, edizioni Baldini e Castoldi, 18 euro.
“Il libro nero della magistratura” recita il titolo accompagnato dall’occhiello “I peccati inconfessati delle toghe italiane nelle sentenze della sezione e disciplinare del Csm.
Si tratta del terzo lavoro di Zurlo sullo stesso tema dopo “La legge italiana siamo noi” del 2009 e “Prepotenti e impuniti” del 2011, “sempre sbianchettando i nomi” specifica l’autore “per non rischiare grappoli di cause milionarie e grane a non finire. Nove anni dopo ci risiamo”.
Non c’è una virgola che sia inventata fuori posto esagerata. “Ci sono giudici che hanno depositato sentenze con mesi e mesi di ritardo e altri che hanno dimenticato in cella gli imputati per 51 giorni… giudici che hanno chiamato i carabinieri per non pagare il conto al ristorante e altri che hanno smarrito pratiche e fascicoli vanificando anni di processi….  Molti sono stati assolti perché c’è quasi sempre una scappatoia, troppo lavoro, il sistema che non funziona, la separazione dalla moglie, la malattia grave di un congiunto”.
Molti non sono sfuggiti alla sanzione, spesso minima, tra ammonimento e censura. Raramente si è arrivati alla perdita di anzianità e molto difficilmente all’espulsione dalla categoria. Tutti processi celebrati in silenzio.
In questo libro siamo oltre gli accordi sottobanco, le spartizioni tra le correnti. Siamo a fatti di vita quotidiana rispetto ai quali si resta senza parole soprattutto perché i comuni mortali per episodi simili sono costretti a vedere i sorci verdi e la loro vita sconvolta dalle decisioni dei togati.
Un giudice resta al suo posto nonostante sia responsabile di 74 procedimenti civili fuori tempo massimo con punte tra i 595 e i 560 giorni e di aver copiato pari pari 55 delle 71 pagine del testo da una delle due parti. La nobilissima arte del copia e incolla. Il signore ha “pagato” con la perdita di un anno di anzianità con gli utenti sempre costretti ad aspettare i suoi tempi.
Un altro giudice si ubriaca, barcolla, viene soccorso, arrivano due poliziotti e lui li “saluta”a modo suo: “Sbirri di merda, mi avete rotto i coglioni”. E ancora: “Ve la faccio pagare adesso chiamo il questore e vi sistemo”. Successivamente dopo aver tamponato un’auto prende a calci e pugni due carabinieri rifiutando di dare le proprie generalità. Diversi procedimenti disciplinari, il buffetto dell’ammonizione. Ma non si ferma, prosegue. Viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Adesso vive con l’assegno alimentare cosiddetto. Quello alle toghe non lo negano mai.
C’è il giudice che picchia la moglie e viene assolto con la commissione disciplinare che filosofeggia sui fallimenti esistenziali per coprire gli eccessi e gli istinti maneschi.
Non manca chi ha molestato e vessato per anni una collega “perché non ci stava”, rischia il trasferimento ma non arriva neanche quello e il giudice continua in aula a rappresentare lo Stato.
Un altro fa il giudice e il vicesindaco nello stesso territorio ma se la cava con l’ammonimento.
428 giorni, più di un anno agli arresti domiciliari per un erroraccio del gip che avrebbe dovuto firmare la remissione in libertà di due imputati a maggio del 2013 ma lo fece solo nell’agosto dell’anno successivo. La commissione disciplinare del Csm decide che si tratta di grave negligenza. Emerge che lo stesso giudice aveva dimenticato in cella un terzo imputato per 48 ore. Ma tutto finisce con una semplice censura. Nella commissione disciplinare che prende la decisione ci sono Maria Elisabetta Alberti Casellati futuro presidente del Senato e dulcis in fundo Luca Palamara. Da lui eravamo partiti per parlare del libro di Stefano Zurlo e non possiamo non finire con lo stesso, ormai ex magistrato. Quello che adesso viene misconosciuto dai colleghi a cominciare da quelli beneficiati dalle sue attività diciamo borderline. Ovvio non aveva agito da solo. Piazzare negli anni passati al Csm 86 magistrati in ruoli di vertice non è impresa da poco. Alla fine ha pagato solo lui. E molti giudici dei quali ci racconta Zurlo fecero di peggio molto di peggio, anche se il Csm quei misfatti li ha retrocessi a una sorta di vizi privati da curare al massimo con qualche caramella amara.
(frank cimini)

Covid e carcere, un libro con cuore caldo e mente fredda

Cuore caldo e mente fredda per un ragionamento sul carcere, un argomento di cui non si parla mai abbastanza, anzi in realtà molto poco e con modi e toni spesso sbagliati. Il Covid dovrebbe essere una ragione in più affinché i detenuti possano accedere ai benefici penitenziari e si riduca la popolazione carceraria. Il condizionale è d’obbligo perché esiste una norma simbolo che fa da ostacolo all’attenuazione della durezza delle condizioni di detenzione, il famoso articolo 4 bis da non confondere con un altro articolo ancora più famoso, il 41 bis. Il 41 bis norma, si fa per dire, il cosiddetto carcere duro ed è di antica data perché nasce con l’emergenza antimafia all’inizio degli anni ‘90 ma agisce in pratica in continuità con l’articolo 90 del regolamento penitenziario che risale alla madre di tutte le emergenze, quella relativa alla repressione della sovversione interna degli anni ‘70 e ‘80.

Del tema, appunto con cuore caldo e mente fredda, ma pure con un linguaggio semplice che va al di là degli addetti ai lavori, si occupa il lavoro che ha per titolo “Regime ostativo si benefici penitenziari. Evoluzione del ‘doppio binario’ e prassi applicative. L’autrice è Veronica Manca, avvocato e membro dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Trento. Sono 280 pagine, 29 euro, editore “Giuffre’ Francis Lefebvre”.
Il cuore del problema sono tutte quelle norme che derogano alle regole generali in materia penitenziaria, ponendo in essere dei regimi applicativi “differenziati” della pena e ostativi della rieducazione e possibilità di risocializzazione. Prevalgono invece esigenze general-preventive di intimidazione, perché il condannato viene ritenuto socialmente pericoloso e quindi non meritevole di accedere ai benefici penitenziari.
Secondo l’avvocato Manca, va verificato se con le discipline differenziate si garantisce comunque il rispetto dei diritti fondamentali che fanno capo alla dignità della persona umana anche se reclusa e anche se ritenuta dal legislatore pericolosa. La risposta è senza ombra di dubbio no.
La Costituzione della Repubblica, o quello che ne rimane nel Paese dell’emergenza infinita ad avviso di chi scrive queste righe, fa fatica (eufemismo) a entrare nelle prigioni.
Secondo l’autrice del libro, l’articolo 4 bis costituisce il modello per eccellenza di deroga all’accesso ai benefici penitenziari dando origine a un binario parallelo per cui la regola diventa l’eccezione. Perché solo a determinate condizioni è possibile infatti accedere ai benefici.
Il doppio binario è parallelo fin dal processo e dal giudicato penale di condanna a causa dell’accesso diretto in carcere per gli autori di reati contenuti nell’articolo 4 bis.
E se, come si diceva all’inizio, al 4 bis si somma il 41 bis, il regime di sospensione delle regole ordinarie di trattamento, il binario parallelo può innestarsi anche prima della fase processuale quando l’autore del reato è solo un indagato o un imputato.
Il doppio binario esplica i propri effetti anche oltre l’esecuzione della pena detentiva, condiziona pesantemente la fase cautelare e influenza la strategia difensiva che deve essere necessariamente già proiettata in funzione dell’esecuzione della pena. La pena detentiva viene resa immutabile senza poter subire trasformazioni in sanzioni diverse dal carcere.
C’è un iter trattamentale parallelo che si coglie già dalla collocazione dei condannati in sezioni separate, circuiti di alta sicurezza o in sezioni apposite per i detenuti in regime di 41 bis. Ne consegue una forte compressione dei diritti soggettivi del detenuto , dalla corrispondenza ai contatti con esterni ai colloqui con i familiari.
I giudici inglesi, ricordiamo, avevano negato di concedere l’estradizione di un condannato  in Italia a causa del sovraffollamento carcerario. Al contrario gli svizzeri avevano concesso l’estradizione di un condannato premiando le recenti riforme che testimoniano una seria presa in carico del problema da parte delle autorità italiane.
Ma, per esempio, l’introduzione della legge cosiddetta “spazzacorrotti” rivela uno schema di politica criminale general-preventivo per i delitti commessi da pubblici ufficiali. È precluso l’accesso ai benefici se non per il tramite dell’avvenuta “collaborazione” con la giustizia.
Tentativi di riforma si sono avuti di recente attribuendo alla magistratura di sorveglianza il potere di valutare la posizione del detenuto anche se “non collaborante” sulla scorta di tutti gli ulteriori elementi, come l’assenza di legami con la criminalità organizzata, le condotte riparative o manifestazioni di ravvedimento.
Nel libro si ricordano le rivolte carcerarie, con 13 morti, del marzo scorso con la presa d’atto che laddove l’epidemia dovesse raggiungere i detenuti – in realtà lo sta già facendo, come raccontano le cronache di questi giorni – non ci sarebbero strumenti, strutture adeguate ne’ per fronteggiare le conseguenze ne’ per prevenire ulteriori situazioni di rischio.
Al fine di tutelare la salute dei detenuti, propone l’autrice, potrebbero essere estese le ipotesi di sospensione/differimento della pena per un arco di tempo limitato all’emergenza e/o anche un aumento di giorni da computare alla liberazione anticipata.
Tenendo presente che, allo stato, la fine della pandemia appare abbastanza lontana e che le condizioni delle prigioni non consentono di utilizzare le precauzioni adottate all’esterno, a cominciare dal distanziamento tra una persona e l’altra. Sono in gioco diritti e dignità dei detenuti ma pure diritti e dignità di noi che stiamo fuori, della società intera, perché se è vero come è vero che il livello di civiltà di un paese si vede dalle condizioni delle sue prigioni allora bisogna darsi una mossa. Non certo girarsi dall’altra parte aspettando che il problema si risolva da solo (frank cimini)

Anarchici, Cassazione manda ko il pm Dambruoso

“Non è predicabile soltanto in ragione della comune adesione all’ideologia anarchica un effettivo e reale ‘contagio’ del gruppo investigato da parte delle idee e finalità terroristiche eventualmente sviluppatesi in altre cellule della galassia anarchica mentre viene richiesto al giudice di merito di fornire la prova di una tale e concreta contaminazione che deve portare alla gemmazione di cellule autonome aventi le caratteristiche tipiche dell’associazione sovversiva con finalità di terrorismo”. È questo uno dei passaggi della motivazione con cui la Cassazione rigetta il ricorso del pm Stefano Dambruoso contro la decisione del Riesame di Bologna di scarcerare gli anarchici arrestati a maggio.

La Cassazione ricorda inoltee che non sono state rinvenute armi ma unicamente  artifici pirotecnici aste e bastoni impiegati per dispiegare bandiere o stendardi. L’acquisto di maschere antigas non era finalizzato al compimento di azioni violente ma a scopi protettivi in vista di possibili azioni delle forze di polizia in occasione delle manifestazioni di piazza.

Nel  corso dei cortei e delle manifestazioni alle quali parteciparono gli indagati “al di là di qualche imbrattamento e danneggiamento non vi fu mai pericolo concreto per la pubblica incolumità“.

In occasione dell’incendio di un impianto di ricetrasmissione diventato il fulcro della ricostruzione accusatoria la Cassazione sposa la tesi dei giudici del Riesame. C’era l’obiettivo di danneggiare la struttura “ritenuta espressione dell’assoggettamento alle tecnologie da parte delle istituzioni dello Stato piuttosto che la volontà di causare un pericolo di devastazione di maggiori proporzioni”.

Al centro dell’inchiesta che portò agli arresti poi revocati dal Riesame c’erano una serie di manifestazioni di solidarietà con i detenuti che avevano visto aggravata la propria condizione dalla diffusione del Covid. Le riunioni pubbliche si erano svolte usando ogni precauzione dalle mascherine al rispetto della distanza tra le persone. Per cui l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo era apparsa spropositata e animata dalla volontà di reprimere il dissenso rispetto alle politiche securitarie. I giudici del Riesame avevano rilevato proprio questo rischio. E adesso la Cassazione ha confermato spiegando che si trattava di attività politica legittima alla luce del sole. Dambruoso è il magistrato assurto alla gloria della copertina di Time nel periodo in cui si occupava da Milano di terrorismo internazionale di matrice islamica. Poi era stato deputato di Scelta Civica con Mario Monti.(frank cimini)