giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Detenuti di Opera contro i topi, morso un recluso malato di cancro

Topi nelle docce, topi che mordono detenuti e medici, che mettono in pericolo la salute di chi, già malato, sta dietro le sbarre. Cosa succede a Opera? A raccontarlo sono gli stessi reclusi che, in una lettera alla direzione della casa circondariale, protestano per la massiccia presenza di ratti, evidenziando il caso di uno di loro, malato di tumore, morso da un roditore e sottoposto per questo a profilassi.

Una trentina di carcerati lamenta che gli episodi relativi alla presenza dei roditori, “anche di dimensioni notevoli nella doccia del reparto infermeria”, “si stanno ripetendo da mesi ma, nonostante le numerose segnalazioni, non si è giunti a nessuna soluzione da parte della direzione”. “Crediamo che la situazione sia diventata davvero intollerabile – si legge nella missiva scritta a mano che abbiamo potuto leggere – considerando il luogo in cui siamo e soprattutto l’alto numero di detenuti ristretti  con gravi patologie”. I firmatari fanno riferimento perfino a “un medico morso alla gamba come da certificazione infettivologica”.

Il caso portato a emblema è quello di Cosimo Loiero, malato di cancro e azzannato da un topo, che ha chiesto di essere  scarcerato e messo ai domiciliari nei mesi scorsi per “l’incompatibilità del regime carcerario con le sue condizioni di salute”, ma prima la Corte d’Appello e poi il Tribunale del Riesame di Milano gli hanno detto di no. Loiero,  44 anni, condannato in primo grado a 18 anni  col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, si è ammalato di un linfoma di non – Hodgkin poco dopo essere stato arrestato nel  2016. Per i giudici del Riesame, “pur dovendosi dare atto della assoluta serietà e complessità delle patologie dalle quali risulta affetto Loiero, la detenzione in sé considerata, ovviamente effettuata come nel caso in un centro clinico (ma dalle carte si evince che non ci va mai, ndr)  non palesa insuperabili problematiche connesse alla patologia”.

La consulenza della difesa e la perizia del Tribunale concordano nel dire che  i cicli di chemioterapia a cui si sta sottoponendo determinano “un elevato rischio di complicanze infettive a breve e a lungo termine” perché il paziente è immunodepresso. Ma le conclusioni divergono. Per il medicio incaricato dalla difesa,  questo quadro clinico rende molto pericolosa la permanenza dietro le sbarre dal momento che “in ragione della terapia in corso Loiero presenta un rischio aumentato di eventi infettivi”.  Il perito del Tribunale invece si limita a indicare le precauzioni a cui dovrebbe attenersi il detenuto (”le norme igieniche devono essere garantite e verificate, evitando bagni a uso promiscuo o la scarsa pulizia degli ambienti”) ma sostiene “di non essere in grado di verificare quale sia la concreta situazione della casa circondariale, ad esempio “quante volte lavano i pavimenti o quante persone sono contemporaneamente presenti nel medesmo luogo”. La valutazione alla fine è stata fatta dal Tribunale del Riesame che ha affrontato anche l’episodio del morso del topo, esposto dallo stesso Loiero prima in udienza, dove ha mostrato i segni lasciati sul braccio dal ratto, sia  in una lettera ai suoi avvocati, firmata anche da due detenuti – testimoni.  “Il 29 aprile del 2018 alle 4 del mattino, un topo sbucato dai cestini portacibo  mi ha morso sul braccio destro ed è poi scappato. Lo ha ucciso il mio compagno di cella con una scopa e io ho deciso di conservarlo in un contenitore per alimenti per farlo vedere al medico perito che mi ha visitato il giorno dopo”. Loiero, che aveva appena terminato un ciclo di chemio, è stato visitato dal medico infettivologo del carcere che gli ha fatto una puntura antitetanica  prescrivendogli una cura di antibiotici per alcuni giorni. Sul punto, il Riesame “in assenza di elementi obbiettivi di riscontro, prende atto delle dichiarazioni del detenuto” e “nell’incertezza dell’effettività di quanto rappresentato da Loiero, segnala che sono state adottate le cautele del caso attivando un’adeguata profilassi attraverso la somministrazione di vaccino e antibiotici a riprova dell’adeguatezza della reazione sanitaria”. Non è chiaro da dove derivi l’incertezza dei giudici sul fatto dal momento che, come spiega uno dei legali di Loiero, l’avvocato Giuseppe Gervasi, “l’animale è stato conservato e consegnato al medico, il mio assistito è stato sottoposto alla profilassi del caso in carcere e in udienza ha mostrato i segni del morso”. Per il difensore “è grave che il Tribunale si limiti a ‘prenderne atto’ e a dire che il problema è stato superato dall’antitetanica senza preoccuparsi di svolgere accertamenti sull’episodio e sulla presenza di topi a Opera. Ed è assurdo  il passaggio del provvedimento in cui i giudici sottolineano che il perito ha fatto presente a Loiero  la pericolosità  della conservazione e del contatto con la carcassa, possibile causa di infezione. Come se fosse responsabilità sua essersi messo a rischio, quando invece è stato morso in carcere”. I difensori di Loiero hanno presentato ricorso alla Cassazione contro la decisione del Riesame.

(manuela d’alessandro)

“False malattie, water, bombole del gas” per il direttore del carcere di Bergamo

“Lunedì vado all’ospedale militare e mi dici i sintomi che devo accusare. Qual è la sindrome ansioso depressiva che devo accusare”. In effetti un po’ d’ansia l’allora direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino sembra manifestarla  al telefono col dirigente sanitario della struttura, Francesco Berté. Un’agitazione che, secondo la Procura, è legata alla volontà di non andare a lavorare tra il 29 gennaio e il maggio del 2018, giusto il tempo di raggiungere la pensione.  “Mi volevano mettere in ferie e allora mi metto in malattia… – suona preoccupato Porcino in un’altra conversazione intercettata -  mi hanno fatto girare i coglioni ma se mi chiedono che sintomi ho non li so”. “Eh – gli spiega un interlocutore a cui si rivolge in un’altra telefonata – che hai poco interesse durante la giornata…che sei stanco…ti si chiude ogni tanto lo stomaco…in un modo che non è grave …solo un po’ di sintomi depressivi”. Ma a Porcino pare non bastare: “Devo essere grave invece…devo essere grave”.   Con la complicità di quattro indagati, tre medici e un dirigente sanitario, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare a carico anche dell’ex direttore, “la dolosa e inveritiera attestazione di sindrome ansioso depressiva  comportava l’esonero del Porcino per la durata  di 205 giorni determinando il diritto al trattamento economico spettante per le residue ferie non dovute  col correlato illecito arricchimento”. Con “possibili riflessi economici positivi” sulla pensione.

Quasi surreali alcune delle contestazioni mosse a Porcino, dall’aver chiesto a un agente della polizia penitenziaria di andare in orario di servizio a prelevare due bombole del gas a casa sua, ricaricarle e poi riportarle nella sua abitazione, all’essersi “appropriato” assieme a un altro indagato di “almeno due water nuovi appena imballati”, portati via dal carcere. Addirittura gli viene addebitato di essersi impossessato di una risma di carta della struttura. Infine, avrebbe pure ricevuto “scatoloni di medie dimensioni contenenti presumibilmente macchinette di caffé” per avere favorita un’azienda ‘amica’nella procedura per l’installazione di distributori di cibi, bevande e tabacchi.  Gli arresti nascono da un’inchiesta coordinata dai pm Maria Cristina Rota ed Emanuele Marchisio che era nata per far luce sul trattamento carcerario “di favore” garantito a un imprenditore arrestato, nell’aprile 2017, dalla Guardia di Finanza di Vibo Valentia, nell’ambito di indagini sulla realizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’uomo, detenuto a Bergamo, aveva usufruito di un lungo ricovero all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, grazie a certificazioni mediche che attestavano un grave shock emotivo che invece non aveva subito.

Le indagini hanno fatto emergere il coinvolgimento nella vicenda dell’attuale comandante della Polizia Penitenziaria di Bergamo, Antonio Ricciardelli,  e hanno accertato false attestazioni sanitarie per far ottenere benefici economici (pagamento licenza non fruita all’atto del pensionamento, trattamenti privilegiati di quiescenza, riposo medico per patologie inesistenti e concordate) all’ex direttore del carcere di via Gleno, da pochi giorni, in pensione. Dalle intercettazioni, spunta anche un presunto falso sulla durata di un colloquio  che il procuratore di Brescia, Tommaso Buonanno ebbe il 29 marzo  scorso con il figlio Gianmarco, detenuto per rapina. L’incontro era durato un’ora e mezza ma Ricciardelli e un agente annotarono sul registro la durata di un’ora. (manuela d’alessandro)

La notte che tutti erano liberi al carcere di Opera

Una serata di “Rinascimento”, così la introduce Angelo Aparo, lo psicologo che da anni porta i detenuti a parlare coi ragazzi nelle scuole. E sembra proprio immaginarla maiuscola la ‘R’ di rinascimento perché c’è una cattedrale di bellezza che fiorisce in questa notte speciale al carcere di Opera dove si trovano assieme magistrati, carcerati, vittime e giornalisti, ispirati dal documentario ‘Lo Strappo – quattro chiacchiere sul crimine’.

Assieme davvero: nessuno parla per sé ma il dialogo è continuo, un filo che tutti tessono tra le mani, che a volte brucia ma non si spezza per un secondo. Tutti in cerchio, attorno allo stesso fuoco. Come Adriano Sannino, che sta scontando la pena, e l’ex procuratore antimafia, Franco Roberti. Si erano sfiorati, anni fa. “Dopo avere sentito le lettere della vittime, mi sento piccolino vicino a questo dolore così  forte. In passato ho usato tante ‘maschere’ in carcere, ora per me è un onore stare a fianco del dottor Roberti, che conosce  quei processi in cui ero coinvolto. Io vengo da Poggioreale, sono campano, come lui. Ero dall’altra parte della giustizia, ero lì per distruggere la società. Chiedo scusa alle vittime in sala perché ho ucciso. Ma ho incontrato delle persone che mi hanno preso per mano e mi hanno fatto innamorare della vita. Grazie al direttore Giacinto Siciliano (ora a San Vittore, ndr), al ‘Gruppo della trasgressione’ di Aparo, a chi lavora in carcere”.

O come Alessandro Crisafulli, 45 anni, in carcere da 24, ergastolano. Lui ha in testa un ponte. “Siete voi, familiari, i coraggiosi, voi siete la parte che ha subito, sono io che devo fare degli sforzi per venirvi incontro. Sono un ex assassino, non ci sono parole ma io devo trovare qualcosa da dire se vogliamo costruire questo ponte a cui tutti ambiamo. Se oggi potessi incontrare il ragazzo che uccideva, 25 anni fa, più che parlargli, ascolterei i silenzi che gravavano su di lui che viveva in una famiglia silenziosa dove non era riconosciuto in alcun modo”.

Non è una strada dritta, quella dei detenuti che provano a essere liberi in una prigione. Chiede un giovane recluso dal pubblico: “Perché alcuni del ‘Gruppo della trasgressione’ quando escono in permesso commettono ancora reati?”. “E’ difficile dirlo. Io quando esco – ragiona Crisafulli – mi dico: come posso tradire chi mi ha preso in una discarica e mi ha messo su una strada? Come posso tradire ancora quel ragazzo che ero?”.

Non era nemmeno un ragazzo l’avvocato Umberto Ambrosoli quando suo padre Giorgio venne assassinato l’11 luglio del 1979.  Alla domanda dal pubblico su cosa si aspettino i familiari delle vittime dalla giustizia, rianima un episodio che ammutolisce: “Uno dei tre condannati per l’omicidio di mio padre  ripresentò,  5 anni dopo una prima richiesta respinta, una domanda di grazia. Venni chiamato dai carabinieri, com’era già successo la prima volta, che mi consegnarono un modulo per esprimere il mio eventuale consenso.  In quei giorni, mi arrivò la mail della figlia che diceva che il padre era un uomo ormai molto anziano, aveva sbagliato tutto nella vita ma aveva il diritto a morire vicino ai suoi figli.  Rimasi pietrificato, non avevo mai pensato che quell’uomo potesse avere un figlio. Degli altri due conoscevo alcuni dettagli della famiglia, ma non mi ero mai posto domande sul terzo. Mi sono sentito in colpa perché avevo perso un’occasione di curiosità per fare un percorso. Qualche settimana dopo quell’uomo è morto senza che si completasse l’iter processuale”.

Mario, ergastolano, pone un’altra domanda che farebbe paura in ogni luogo, ma non qui, stasera. “Dopo tanti anni coi compagni del Gruppo, ci siamo guardati dentro e oggi ho preso coscienza della mia colpa. Spero di poter restituire qualcosa di significativo del mio cambiamento, anche se sembra un’offesa dirlo davanti alle vittime. Ce la stiamo mettendo tutta, anche coi ragazzi delle scuole (alcuni sono in sala, ndr). La mia domanda è: cosa faccio della mia colpevolezza?”. Manuela Massenz, magistrato di Monza, risponde col coraggio che merita una domanda così:”Prendendo per mano quei ragazzi, come poteva essere Alessandro 25 anni fa, in un certo modo restituite quello che avete tolto”. Se non si dovesse chiudere per motivi di ‘palinsesto’, la sensazione è che si potrebbe andare avanti fino all’alba. C’è tempo anche per l’ammissione dei giornalisti, Paolo Colonnello e Max Rigano, che lo ‘strappo’ per i media, disinteressati alle carceri, non c’è ancora stato. Tocca al direttore Silvio Di Gregorio, che ha raccolto l’eredità preziosa di Siciliano, mandare tutti a dormire: chi fuori, chi dentro. Non prima di avere ringraziato gli straordinari della polizia penitenziaria “che sta lavorando per l’occasione dalle 8 di stamattina”. Una cattedrale ha bisogno di tutti per diventare alta e bella. (manuela d’alessandro)

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Il video della serata a Opera girato da Radio Radicale

 

Crisi senza fine della Sorveglianza, la rabbia degli avvocati milanesi

 

C’è Como, dove i detenuti che ne avrebbero il diritto non vengono scarcerati perché a stendere le relazioni sui loro progressi da allegare alle istanze di misure di prevenzione o liberazione anticipata è rimasto un solo educatore su quattro che erano. Spiega l’avvocato Paolo Camporini della Camera Penale lariana che “le istanze vengono così rigettate per mancanza della documentazione di sintesi”.

C’é Milano, dove chi potrebbe lasciare il carcere non lo può fare perché, mancando 3 magistrati su 12 alla Sorveglianza e 10 persone su 43 nel personale amministrativo, i tempi di attesa per decidere sulle richieste sono biblici (“ritardi anche di 2 anni nella fissazione delle udienze e c’è un arretrato che continua a crescere, al momento di 26mila fascicoli”, da’ i numeri l’avvocato Eugenio Losco, consigliere con la delega al carcere della Camera Penale).

C’è mezza Lombardia (anche Lecco, Monza, Pavia, Busto Arsizio, Sondrio e Varese) dove per il presidente della  Camera Penale milanese Monica Gambirasio “la popolazione carceraria non vede risposta alle proprie legittime istanze e, al contempo, assiste a un drammatico peggioramento delle  proprie condizioni di vita”. A San Vittore, per dire, ci sono 6863 persone a fronte di una capienza regolamentare di 5167.

Oggi gli avvocati si mobilitano – termine tecnico, sarebbe meglio dire si arrabbiano -  per denunciare la “grave crisi” dei Tribunali di Sorveglianza e delle carceri in quello che viene spesso indicato come un distretto giudiziario se non modello, comunque meglio della media in un Paese fustigato più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per come umilia i detenuti. E si appellano per l’ennesima volta negli ultimi mesi  al Ministro Andrea Orlando e al Csm per rimediare. Il presidente dell’Ordine degli Avvocati Remo Danovi annuncia di avere istituito dieci borse di studio per altrettanti praticanti che avranno il compito  di “prestare aiuto alla Sorveglianza per sei mesi mi auguro prorogabili a un anno anche se resta il grave problema del sovraffollamento e di una disumanità dello Stato che non ha paragoni”.

A ottobre, il Presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa era arrivata a chiedere ai legali milanesi di occuparsi delle spese di assicurazione e viaggio per i ‘volontari’ della giustizia che nel Tribunali suppliscono al deficit di personale nelle cancellerie. Una giustizia che per salvarsi deve affidarsi al volontariato o alle borse di studio fa paura. (manuela d’alessandro)

 

 

Il direttore rivoluzionario Siciliano via da Opera per “scelta politica”

Giacinto Siciliano lascia il carcere di Opera, quello più grande d’Italia, col numero più elevato di ’41 bis’, tanti ‘cattivissimi’ che prima di lui stavano solo nelle grotte più oscure della fantasia di chi è fuori. Lui li ha esposti dandogli luce e dignità, li ha messi davanti a un leggio a scandire i nomi delle vittime di mafia e a una telecamera a raccontare cos’erano e cosa volevano diventare. Nessun direttore è stato più amato da chi ha compiuto i crimini peggiori e a quella figura istituzionale si è sempre rivolto con freddezza.

Se ne va dopo 10 anni, anzi lo mandano a San Vittore -  dicono avvocati e magistrati che ne hanno apprezzato il lavoro in questi anni -  non per un normale avvicendamento ma per una scelta ‘politica’ mascherata da una scadenza di fine mandato. Per lo slancio, la fantasia, la spregiudicatezza con cui ha cercato di sovvertire un luogo comune,  quello del carcere duro e senza speranza. Nell’estate del 2015, con l’aiuto anche della Camera Penale e del Garante Alessandra Naldi, ha messo i detenuti attorno ai tavoli di quelli che sono stati chiamati ‘Gli Stati Generali’. Per mesi hanno discusso e riflettuto di carcere, fragilità, affetti, bambini, migranti, libri, suicidio. Ha contribuito a far nascere uno sportello per il lavoro, primo in Italia, dentro le mura.  Ha usato come terapia la parola, la musica, il teatro.

Ha portato per la prima volta gli  ergastolani ostativi, quelli che davvero hanno una pena senza fine, a incontrare gli studenti della Bicocca.

E gli ha regalato l’opportunitàdi brillare di una luce diversa nel docu – film di di Ambrogio Crespi ‘Spes contra Spem’ girato a Opera, volato al Festival del cinema di Venezia e in mezza Italia, tra chi per la prima volta ha potuto vedere cosa c’è nella grotta oscura di chi sta in un carcere di massima sicurezza. Qualcosa che fa meno paura sotto la luce. (manuela d’alessandro)

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