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Sulla storica sentenza della Cassazione frutto dell’indagine ‘Infinito’, la Camera Penale di Milano non partecipa all’esultanza mediatica e della Procura che ha accolto la conferma di 92 condanne. E neppure mostra di gradire gli “osanna” di Ilda Boccassini successivi al verdetto che ha sancito la presenza radicata della ‘ndrangheta in Lombardia.
Non è naturalmente il merito delle accuse al centro della riflessione contenuta in una nota firmata dal Consiglio Direttivo. Quello che preoccupa gli avvocati, “nonostante lo scrutinio di legittimità della Cassazione”, è che si sia arrivati a questo epilogo a partire da una sentenza di primo grado considerata una “riproposizione pedissequa del contenuto dell’ordinanza di custodia cautelare che, a sua volta, aveva recepito integralmente contenuto e parole della richiesta di applicazione di quelle misure cautelari”. “Un pericoloso gioco di scatole cinesi – così viene definito il cammino di questa indagine verso la condanna definitiva pronunciata il 6 giugno dalla Cassazione – in cui le motivazioni di una parte del processo, ovvero quella cui si riconduce la responsabilità delle indagini e, quindi quella più vicina, anzi necessariamente alleata agli inquirenti, diventa il tessuto motivazionale di un giudizio di condanna, senza che sia stato possibile in modo esauriente e convincente individuare in quella motivazione parti della stessa a cui poter affidare la testimonianza di una autonomia del giudizio del decidente e, quindi, di un valido esercizio della delicata funzione giurisdizionale”.
Basare una condanna su una sentenza ‘foocopia’ delle indagini viene ritenuto dalla Camera Penale un “”preoccupante paradigma di giudizio perché, di fatto, ha mortificato la funzione del processo e quindi l’accertamento della verità processuale e le conseguenti responsabilità”. Infine, il riferimento non è esplicito ma è chiarissimo, ai legali milanesi non sono piaciuti gli “osanna” intonati da Ilda Boccassini, che ha coordinato l’inchiesta e ha parlato di “vittoria della Procura”. “Riteniamo che tali toni non siano – si legge nella nota – comunque mai adeguati nell’ambito della definizione dell’accertamento giudiziario dal momento che la stessa magistratura ha sempre ricordato, spesso in maniera inconferente, come il processo penale non sia un agone nel quale si esercitano le capacità muscolari delle parti”. (manuela d’alessandro)