Marcello Piacentini era un tipo che amava tenere tutto sotto controllo. Volle scegliere di persona le oltre 140 opere di 52 artisti per impreziosire il grandioso Palazzo di Giustizia di Milano da lui progettato nel 1932. Mario Sironi era invece uno che aveva un talento esplosivo: come tutti i futuristi, poteva avere una tendenza all’esagerazione, anche se poi si rivelò sensibile alla malinconia in molti suoi dipinti. Un carteggio tra i due portato alla luce dall’esposizione sull’arte italiana tra le due guerre alla Fondazione Prada (fino al 25 giugno) svela i grattacapi dell’architetto su una delle opere simbolo del Palazzo, il mosaico affidato al pittore e scultore fascista, oggi visibile nella Corte d’Assise d’Appello. “Caro Sironi – scrive il 19 settembre 1938 l’architetto scelto dal regime – mi dicono che sei stato a Milano per presentare i cartoni del mosaico del Palazzo di Giustizia. Tu sai che ho piena fiducia in te, ma avrei avuto piacere di vederti prima di iniziare il lavoro musivo. In ogni modo ti raccomando caldissimamente di tenerti il più possibile – senza naturalmente con questa significare nessuna rinuncia alla tua personalità d’artista – a proporzioni – anche nei particolari – giuste e normali, senza deformazioni. Tu devi sempre ricordarti che la più importante aula del Palazzo di Giustizia non può essere palestra di polemiche e discussioni artistiche . Guai se magistrati e avvocati dovessero amministrare la giustizia in un ambiente che suscitasse chiasso artistico!”. Piacentini era preoccupato che l’estro dell’artista uscisse dai binari della sobrietà nell’esecuzione dell’imponente mosaico che rappresenta la ‘Giustizia armata con la legge’. E in effetti Sironi non tradì le sue indicazioni. Anche nel colore, nota il critico Marcello Ronchi sul sito della Procura, “Sironi mira all’essenza e sul brunico registro del fondo concede qualche azzurro grigio, del bianco, qualche terra rossa, un po’ di azzurro chiaro e pochissimo rosso vivo. Tavolozza elementare che sostituisce la gioia che può dare una ricca gamma coloristica con il senso di un misurato linguaggio composto di note gravi, che meglio fa risaltare la forma plastica”. (manuela d’alessandro)
Il riscattto di Marta, che mascherava le botte con il trucco
Il linguaggio è quello del cuore, e non te lo aspetteresti in un atto giudiziario. Del resto chi scrive ha vissuto l’inferno delle botte, della dipendenza psicologica, del giogo di un uomo che per lei rappresentava un punto di riferimento e invece non era altro che un violento. Questa è una storia di sofferenza, ma anche di riscatto e speranza, che ricostruiamo attraverso alcune sentenze e le poche pagine di una denuncia ai carabinieri.
“Ero talmente coinvolta sentimentalmente e succube del mio fidanzato che sottostavo ai suoi comportamenti violenti pensando fosse amore”, scrive Marta, oggi 25enne, nella denuncia presentata a dicembre scorso nei confronti del suo ex fidanzato, Roger, dieci anni più grande, davanti ai carabinieri di Rho.
Parla degli anni in cui ha subito e non ha mai protestato. Cinque volte in ospedale, ricoverata due volte, una delle quali perché Roger l’aveva “scaraventata a terra”, fratturandole il pavimento orbitale. Un’altra le aveva sferrato un pugno talmente forte da spaccarle il labbro inferiore. “Quando venni convocata per essere sentita come teste, non dichiarai la verità perché ero innamorata di lui e allo stesso tempo temevo la sua reazione violenta”. Ai medici, con l’occhio gonfio all’inverosimile, aveva dichiarato di essere caduta in bicicletta. Poi Roger viene arrestato, grazie alla denuncia della madre di Marta. Dopo un paio di settimane in carcere, viene messo ai domiciliari. E lì Marta continua a cercarlo. Lo incontra nella taverna di casa, lontano dagli occhi dei genitori di lui. E lì, si sottopone agli stessi interrogatori di sempre: “Con chi ti vedi, con chi parli, sei una stronza, una zoccola, te la farò pagare”. Altre botte. E’ Marta a trovare i soldi per pagare gli avvocati di lui. Quindicimila euro, alla fine. In parte suoi risparmi, in parte denaro rubacchiato in casa e fuori. Tanto che lei finisce nei guai con la giustizia. E’ Roger stesso ad averle insegnato un trucchetto per ingannare i negozianti, una specie di gioco delle tre carte con i resti delle banconote. Lui intanto è viene condannato a tre anni e 4 mesi in abbreviato, con una sentenza innovativa perché riconosce ai famigliari un risarcimento, pur quasi simbolico, per il danno esistenziale subito nel vedere trasformata e allontanata Marta: figlia e sorella. Roger sconta la condanna e torna libero, Marta però si riprende la sua vita. Questa volta è lei a raccontare agli inquirenti tutto quello che ancora non conoscono. Altri episodi di violenza, i soldi, gli insulti, gli ultimi appostamenti di lui.
Nella denuncia firmata di suo pugno, sostenuta di nuovo dalla madre, dall’avvocato Patrizio Nicolò e dagli assistenti sociali, Marta racconta così la sua storia: la prima volta “mascherai i lividi che avevo in volto con il trucco, e indossando indumenti lunghi per quelli che avevo sul corpo”. La seconda volta “lui tentò di strangolarmi, tant’è che per alcuni giorni rimasero sul collo i segni delle sue dita, come se fossero graffi”. Anche dopo il terzo episodio simile “non rivelai a nessuno queste violenze per timore che lui lo venisse a sapere e mi facesse ancora del male (…) Ogni volta che mi picchiava, dopo poco si pentiva, mi chiedeva scusa e io per amore lo perdonavo”.
Ora lei non lo perdona più. Ed è improbabile che lo perdonino i giudici, ora che il pm Stefano Ammendola gli ha notificato una nuova chiusura indagini, questa volta anche con l’accusa di estorsione. “Il rimpianto più grosso che ho è di non averlo denunciato prima”, è il messaggio che oggi Marta vuole lanciare alle tante che come lei ha fatto in passato, subiscono in silenzio.
Botte da orbi tra i magistrati per il libro di Iacona
“E’ inaccettabile paragonare le attività del Csm ai metodi utilizzati dalle organizzazioni criminali”. “Così intimidite chi esercita il diritto di critica”. Botte da orbi tra le toghe, spaccate sul libro ‘Palazzo d’Ingiustizia’ firmato da Riccardo Iacona e uscito nel momento in cui gli equilibri del potere giudiziario sono più labili in vista delle elezioni per il nuovo Csm. Ieri sera, quattro magistrati, tra i quali Piercamillo Davigo (intervistato nel libro), hanno recapitato alla mailing list di Anm un invito: “Prendiamo atto che, a seguito della pubblicazione di un libro che contiene specifiche e gravi accuse all’indirizzo del Csm, le uniche reazioni associative hanno riguardato le modalità espressive di tali critiche. Confrontiamoci invece apertamente sul merito delle questioni denunciate piuttosto che sulla forma delle espressioni, anche per evitare il rischio che la pubblica sollecitazione di iniziative disciplinari si traduca in una sostanziale intimidazione nei confronti di chi ha esercitato o vorrebbe esercitare il diritto di critica”. Stamattina, la violenta replica di Anm a cui, mastica e rimastica, continua ad andare di traverso l’intervista in cui il giudice Andrea Mirenda riferisce di “metodi mafiosi” nell’organo di autogoverno,considerazioni che gli sono valse una richiesta di procedimento disciplinare. Il paragone secondo Anm “è inaccettabile e inappropriato” e “fatta salva la libertà di manifestazione del pensiero danneggia l’Istituzione e l’intero ordine giudiziario, instillando nei cittadini l’idea di un Csm che non garantisce l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, così offuscandone l’immagine, gettandovi discredito”. Sempre oggi, per la prima volta il nome di Alfredo Robledo, dal cui racconto è nato il libro, emerge dal dibattito aperto da giorni, ma senza mai citarlo. A farlo è la candidata al Csm Alessandra Dal Moro (moglie di Gherardo Colombo) che definisce l’inchiesta di Iacona “la presentazione di una vicenda in totale condivisione con uno dei protagonisti” la cui “unilateralità del taglio, immediatamente evidente, è estranea al mio modo di ragionare”. “Non mi convince neppure – aggiunge Dal Moro, di Area come Edmondo Bruti Liberati – la rappresentazione di una Procura della Repubblica che col lavoro quotidiano di tutti i suoi sostituti ha fatto tanto per questo Paese”. Tra le risposte, quella di Felice Lima: “I Democraticoni fanno fuoco e fiamme contro Mirenda, solo perché Mirenda è piccolo e solo e sarebbe giudicato dalla giustizia disciplinare gestita come dicono Iacona e Robledo”. Anche al Palazzo di Giustizia di Milano il malumore di molti è alto per le accuse contenute nel libro, tanto che si vocifera di iniziative a tutela dell’”orgoglio di appartenenza” a questo Tribunale che tra i suoi ‘eroi’ vide proprio Davigo e Colombo. Alcuni magistrati si chiedono tra loro se sia opportuno o meno andare alla presentazione ufficiale del volume, prevista per il 2 maggio alla Feltrinelli di Milano. Lontano il tempo quando Riccardo Iacona veniva chiamato a moderare i convegni di Anm, ora può essere pericoloso andarlo a sentire. (manuela d’alessandro)
Un premio speciale per ricordare Cristina Bassetto
“L’uomo che piantava gli alberi” è il fortunato racconto scritto da Jean Giono sull’incontro tra un ragazzo in cerca di acqua e un solitario pastore provenzale che, tutti i giorni, pianta cento ghiande in un terreno arido e disabitato. Una fatica generosa e libera, per uno sforzo che lascerà traccia nei boschi che cresceranno, cambiando la faccia della sua terra.
Cristina Bassetto nei suoi decenni da appassionata cronista giudiziaria ha incontrato tanti ragazzi seminando in silenzio, senza chiedere mai nulla in cambio in un mondo dove tutti chiedono un like. Non c’è persona all’inizio del suo percorso professionale o in un momento di fragilità che non ricordi l’incrocio coi suoi occhi limpidi pronti all’ascolto, al sorriso, al consiglio. E’ per tutti gli alberi piantati da Cristina e per quelli che lo saranno che il presidente del Gruppo Cronisti lombardi Cesare Giuzzi ha deciso di istituire un riconoscimento speciale a lei dedicato nell’ambito del Premio Vergani. ”Un premio che vuole essere un riconoscimento del suo lavoro e un contributo da parte di tutti i colleghi affinché venga conservata la memoria del suo impegno e del suo operato”. L’assegnazione sarà decisa dalla Giuria con la consultazione di un comitato di colleghi e amici di Cristina. E lei ci ispirerà, sotto alla sua amata pianta di fico sul mare di Fano, dove sognava di tornare dopo avere seminato in tutti i suoi splendidi anni. (manuela d’alessandro e frank cimini)
“Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo, allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile”. (Jean Giono da ‘L’uomo che piantava gli alberi’).
“Oltre il confine”, la folle guerra dei precari passa dal Tribunale
Igor Greganti fa quello che nessuno ha osato nei nostri anni della crisi. Fa scoppiare una guerra. Che poi, nemmeno minuscoli focolai di piazza si sono visti, a parte qualche forcone smussato. E quindi si valuti bene la portata della sua straordinaria impresa. Col romanzo ‘Oltre il confine’, restituisce alla generazione dei 30 – 40enni italiani quello che la crisi gli ha tolto: la possibilità di una trincea, quella linea di polvere e sangue negata da un’epoca che, con la moltiplicazione dei contratti, ha sigillato i precari in tanti vasi non comunicanti, un esercito frammentato e coi fucili senza canna verso la disfatta.
E’ una guerra assurda, che non ha nulla di eroico e anzi trasuda ironia e malinconia, stati dell’anima sottili poco affini alla retorica bellica. A cominciare dalla bislacca truppa in campo: Giuseppe Manna, 20 anni compiuti nel 2000 e già testimone di un processo al Presidente del Consiglio, il giornalista stanco Gianni Tristano, l’ex banchiere cinico Simone Fronte e il fragile Paolo Arco. La loro missione non è disarcionare un nemico, grande assente dell’età della crisi, ma portare una valigetta dal contenuto misterioso oltre il confine, mentre si sfaldano tutti i centri del potere: lo Stato, il clero, le industrie, le banche, i media e la giustizia. Dalle prime sommosse si era passati alla guerra civile dopo che il Presidente del Consiglio aveva annunciato la fine della crisi in “un’altra giornata in cui era davvero difficile trovare un lavoro”.
Quali parole usare per una guerra così folle? Greganti si cimenta in un’altra impresa. Abolisce il linguaggio sciatto e sincopato dei suoi coetanei, inventando una lingua vertiginosa e lenta, che si adatta meglio alla strada tortuosa percorsa dalla generazione precaria, costretta spesso a camminare sul posto, senza andare avanti né indietro, tanto si è offuscata la sua meta originaria (l’autore sembra chiedersi: ma poi, qual era?). Igor è anche poeta, e per questo non butta sul foglio nemmeno una parola se non ha un abito elegante e un suono tondo. “Così da una decina di mesi o forse più – è il passaggio in cui si racconta la crisi di Manna – aveva scelto di vivere soltanto per se stesso e di dormire in attesa dello sviluppo degli eventi. L’unico rischio che si era concesso era stato comprare i biglietti perdenti di due lotterie appena istituite, facendosi largo anche lui nel virus che accomunava signore intolleranti e stranieri dai denti d’oro”. Finché il rumore dei fucili non fa alzare la testa dal cuscino al giovane testimone del processo al capo del Governo che ai giudici era riuscito a dire soltanto: ‘Vi rendete conto che fine abbiamo fatto?’.
La combriccola protagonista del road movie, che passa anche per una chiesa, una locanda e un ospedale, trova approdo e svolta in un luogo che rimanda alla sala stampa dell‘”immenso, quasi bello e terrificante” Palazzo di Giustizia milanese in cui, durante la guerra, si vivacchiava in “un piccolo mondo di toghe imperfette, imputati che si bastonavano da soli e notizie senza lettori, mentre fuori nemmeno gli scontri ad armi in pugno avevano una direzione precisa”. Sarà un assurdo patto generazionale a indicare la direzione salvando i ragazzi che in trincea imparano il coraggio. A firmarlo un personaggio indimenticabile per chi bazzica i corridoi del Palazzo: il “barbuto” Francesco From, “l’ex influente cronista ribelle, ora valoroso nel non trascurare i migliori tratti dell’animo umano”. Indovinate chi è.
(manuela d’alessandro)
“Oltre il confine” di Igor Greganti, Laurana Editore. Pagine 141, euro 14,90.