giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Scarcerato l’(ex)ergastolano ostativo Musumeci, voce degli ‘uomini ombra’

Per la prima volta in Italia un ergastolano ostativo ottiene la liberazione condizionale. Ed è Carmelo Musumeci, un uomo speciale che ha reso pubblici dolore e speranza attraverso il suo blog dal carcere a nome degli ‘uomini ombra’, cioé dei reclusi la cui pena detentiva coincide con la durata della vita e una data immaginifica: 31/12/99999.   Col costituzionalista Andrea Pugiotto, ha pubblicato il libro ‘Gli ergastolani senza scampo’, diventato una sorta di manifesto giuridico e umano contro la gabbia intangibile.  Un testo in cui Musumeci ha riportato i ‘dialoghi’ crudi e poetici con la sua ombra. “Il mio corpo è chiuso in questa tomba, ma il mio cuore sciocco ha sempre sperato nella libertà”.  Oggi, dopo che già da quasi due anni godeva di un regime di semilibertà, condivide dal suo profilo Facebook il giorno più luminoso: “L’altro ieri ho ricevuto una di quelle telefonate che ti cambiano la vita. Il numero era quello del carcere di Perugia. Mi avvisano di rientrare in carcere perché devo essere scarcerato”.

Il Tribunale della Sorveglianza umbro gli ha concesso la liberazione condizionale. “Quando esco dal carcere mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. In pochi istanti mi ritornano in mente tutti e 27 gli anni di carcere, coi periodi di isolamento, gli scioperi della fame, le celle di punizione senza libri, né carta né penna per scrivere. Passavo le giornate solo guardando il muro”. L’ex ‘boss della Versilia’  era entrato in cella il 25 ottobre del 1991 e una serie di condanne lo aveva inserito nel ristretto club di chi ha come unica prospettiva il carcere. Ma è riuscito ribaltare il suo destino, distogliendo quello sguardo dal muro con la forza e la fantasia. Grazie anche al coraggio di alcuni giudici adesso Musumeci, che ha 63 anni e tree lauree conquistate in cella, è arrivato alla soglia dell’inimmaginabile per gli ‘uomini ombra’. Come è potuto accadere ce lo spiega l’avvocato ed esponente radicale Maria Brucale, dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’: “Musumeci, come altri pochi detenuti ostativi, aveva ottenuto la semilibertà dopo che era stata accolta la sua richiesta di inesigibilità della collaborazione . Ma adesso i giudici si sono spinti oltre riconoscendo la liberazione condizionale dopo un percorso lungo e faticoso. E’ una notizia meravigliosa, un grido di speranza nel buio”.

Nella loro ordinanza, i giudici scrivono di “un grande percorso di crescita personale che ha portato Musumeci a leggere e studiare in carcere con granitica volontà” e del suo impegno come “scrittore e conferenziere”, oltre che “del suo essere un uomo nuovo che si riscatta dal passato impegnandosi quotidianamente nell’assistere la disabilita”.  L’ergastolano ostativo, a differenza di quello comune, non ha diritto ai benefici penitenziari in assenza di una “condotta collaborante” con la giustizia. A meno che, come nel caso di Musumeci, non venga riconosciuta “l’inesigibilità della collaborazione” grazie alla quale aveva ottenuto la semilibertà, goduta lavorando di giorno nella casa Famiglia di don Oreste Benzi, ma sempre con l’obbligo di rientro in carcere. Adesso  Carmelo ha tra le mani una libertà quasi intera e notti per guardare le stelle.

“Poi scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi accendo una sigaretta e, dopo la prima tirata, smetto di fumare, medito che adesso dovrei smettere, perché ora la mia unica via di fuga per essere libero non è solo la morte.  Alzo lo sguardo al cielo. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto in carcere. Non è ancora la libertà piena ma ci sono vicino e sono tanto, ma tanto felice. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Più che credere in me stesso, penso di avere scelto di credere negli altri”.  

(manuela d’alessandro)

 

Caporalato, l’umiliazione nel racconto degli operai di Pavia

Diecimila libri da spostare in un turno di lavoro, contratti ‘settimanali’ rinnovati per anni, 200 ore di straordinari mensili, violazioni sistematiche di ogni diritto. Queste erano, stando ai racconti di 300 di loro, le condizioni degli operai emerse dagli atti di un’indagine sul caporalato in uno dei più grandi poli logistici dedicati all’editoria in Europa, vicino a Pavia, una struttura al servizio delle principali case editrici italiane.

“Dovevo spostare 10mila libri per turno, era un lavoro insostenibile.  Di notte, il mio compagno mi vedeva piangere sempre perché avevo dolori ovunque, in particolare forti dolori alle braccia e alle gambe. Successivamente sono stata in cura al San Matteo per varie patologie”. E’ la testimonianza di una lavoratrice resa alla Procura e a Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia nelle carte dell’inchiesta che ha portato il 27 luglio scorso all’arresto di 12 persone accusate di sfruttamento della manodopera, oltre che di frode all’erario. Le indagini, incentrate sull’ascolto di lavoratori italiani e non, all’inizio molto reticenti a parlare per timore di ritorsioni, hanno riguardato le 40 cooperative presenti nell’area logistica della Ceva Logistics di Stradella (estranea all’indagine) ribattezzata ‘Città del Libro’ proprio perché è un centro di stoccaggio di libri e giornali delle più importanti case editrici. Cooperative che in realtà sarebbero state riconducibili, attraverso una serie di schermi societari, a un unico gruppo di persone.

“I ritmi di lavoro sono insostenibili – è il racconto di un’altra operaia – devo correre sempre, ho perso tutti miei chili. Corro talmente tanto che scendono giù i pantaloni, ma devo accettare le condizioni perché ho due figlie da mantenere. Ora voglio collaborare, dico tutto, ma ho paura di essere lasciata a casa, come è già successo a un collega. In Ceva si applica una forma di ricatto non detta. Formalmente nessuno ti impone di fare lo straordinario, ma se non lo fai c’è un’elevata possibilità di essere lasciati a casa. Ogni turno dura in media 12 ore”. Nello stabilimento, spiegano i lavoratori, la produttività veniva valutata in base alle “righe” eseguite al giorno, dove per “righe” si intende “il prelievo di due libri al minuto”. “Dovevo eseguire almeno 130 ‘righe’ al giorno – dice un’altra lavoratrice – chi ne fa meno viene lasciato a casa. Ciascun turno prevedeva regolarmente 12 ore di lavoro e quando non sono stata più in grado di sostenere questi turni così pesanti, dovendo accudire mia madre disabile, sono stata lasciata a casa”.  ”Per sette anni ho lavorato con contratti a termine della durata sempre di di 3 mesi”, svela una donna rumena, mentre altri parlano addirittura di “rinnovi settimanali” presso il cosiddetto ‘reparto picking’ (gestione e logistica del magazzino). Le ore notturne e quelle di straordinario, stando agli operai, venivano pagate sempre la stessa somma, da alcuni indicata in 7 euro all’ora. Gli straordinari, prima del 2016, quando sono ‘entrati’ i sindacati nello stabilimento e la situazione “è un po’ migliorata”, consistevano in “più 200 ore al mese”, spesso non calcolati in busta paga. “Certi giorni – afferma un lavoratore ucraino – veniva appeso un cartello con la scritta ‘Tassativamente obbligatorio sabato e domenica lavorativi’. Nella bacheca dove venivano appesi i turni veniva indicato solo l’inizio del turno mentre sulla sull’orario di fine servizio veniva indicata la dicitura F.S. (fine servizio)”. Sintetizza il gip che ha disposto le misure cautelari: “Sono emersi chiari, precisi e concordanti elementi relativi all’intermediazione illecita e allo sfruttamento dei lavoratori, al reclutamento di manodopera destinata al lavoro presso la Ceva in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e la corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali; violando reiteramente la normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, alle ferie, in totale dispregio delle norme di igiene e del lavoro”.

(manuela d’alessandro)

 

 

 

 

 

 

 

 

“Verrà la morte”, la poesia di Pavese che (anche) ha risolto’ il delitto Macchi

Non c’è nulla di poetico in un omicidio, ma in questo omicidio c’è molta poesia.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, uno degli incipit più abbaglianti della poesia italiana, viene eletto a pieno titolo tra gli indizi che hanno portato alla condanna all’ergastolo di Stefano Binda per avere ucciso con 29 coltellate Lidia Macchi il 5 gennaio del 1987 nei boschi intorno a Varese. Perché Lidia, scrivono i giudici nelle motivazioni al verdetto dell’aprile scorso, quei versi li “conservava in borsetta trascritti su un foglio” e Stefano ne era così ossessionato da parlarne in continuazione nei corridoi del liceo, come ricorda la super testimone dell’accusa Patrizia Bianchi.

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi /questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo/”.

Stefano, poi studente di Filosofia cui slanci giovanili verranno schiacciati dall’eroina, sviscerava tutti le opere del suo autore preferito, specchiandosi nelle sue inquietudini, ma quella poesia lo tormentava più di tutto. “Con corrispondenza impressionante – scrivono i giudici – ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’ è stata  trovata da lui trascritta, nella sua abitazione, durante una recente perquisizione “. E per la Corte d’Assise sempre questa lirica firmata dallo scrittore morto suicida, “è un elemento che individua Stefano Binda come l’amore segreto” di Lidia. Voleva condividere un pezzetto delle ossessioni di Stefano e per questo la custodiva in borsetta.  Lei ragazza discreta e brillante,  a sua volta amante della poesia tanto che è uscita una raccolta postuma, si era invaghita di quel giovane “molto intelligente e carismatico, famoso per la sua capacità di risolvere enigmi” prima a scuola e poi nell’ambiente di Comunione e Liberazione che entrambi frequentavano. “Un amore impossibile”, come lei stesso lo definì in una lettera senza fare il nome di Stefano ma per i suoi amici dell’epoca non c’è dubbio che si riferisse proprio a lui.  Binda è stato arrestato  il 15 gennaio del 2016, al termine di una sorprendente indagine dell’allora pg di Milano Carmen Manfredda che aveva riaperto il fascicolo dopo 27 anni di inerzia. La prova principale contro di lui  è una lettera intitolata ‘In morte di un’amica’ recapitata anonima il giorno delle esequie alla famiglia Macchi. Per i giudici l’autore sarebbe stato Stefano Binda come dimostrerebbero i “molti riferimenti ala scena del crimine oggettivamente riscontrabili alla prima lettura” di quella che definiscono “una poesia”. Ancora una poesia,  questa volta tutta sua.  (manuela d’alessandro)

 

 

 

La battuta choc di Berlusconi su Balotelli che non avete mai ascoltato

Ecco la frase choc di Silvio Berlusconi che finora nessuno vi ha fatto ascoltare con le vostre orecchie. Quella battuta razzista e francamente inattesa, riferita a Mario Balotelli, di cui vi abbiamo parlato quasi due anni fa, quando il video che troverete qui sotto fu depositato agli atti dell’inchiesta Ruby ter. Da allora il catenaccio anti-giornalista messo in atto dalle parti che avevano accesso a questo documento è stato micidiale. Ora qualcosa si è spezzato.

Riteniamo sia doveroso darne conto, considerato il ruolo pubblico che Berlusconi ancora ha, in un momento in cui il tema del razzismo è di lampante attualità. A Mario Balotelli la massima solidarietà per quello che forse non avrebbe voluto sentire e che invece fa ancora tristemente parte dell’armamentario para-umoristico italiano. La scenetta si conclude con Berlusconi che dice a Marysthelle Polanco “tu sei abbronzata, lui invece è proprio negro negro”. Parole che ci fa un certo effetto anche solo trascrivere. Il video lo trovate qui sotto.

Eccolo: berlusconi-balotelli-giustiziami

Detenuti di Opera contro i topi, morso un recluso malato di cancro

Topi nelle docce, topi che mordono detenuti e medici, che mettono in pericolo la salute di chi, già malato, sta dietro le sbarre. Cosa succede a Opera? A raccontarlo sono gli stessi reclusi che, in una lettera alla direzione della casa circondariale, protestano per la massiccia presenza di ratti, evidenziando il caso di uno di loro, malato di tumore, morso da un roditore e sottoposto per questo a profilassi.

Una trentina di carcerati lamenta che gli episodi relativi alla presenza dei roditori, “anche di dimensioni notevoli nella doccia del reparto infermeria”, “si stanno ripetendo da mesi ma, nonostante le numerose segnalazioni, non si è giunti a nessuna soluzione da parte della direzione”. “Crediamo che la situazione sia diventata davvero intollerabile – si legge nella missiva scritta a mano che abbiamo potuto leggere – considerando il luogo in cui siamo e soprattutto l’alto numero di detenuti ristretti  con gravi patologie”. I firmatari fanno riferimento perfino a “un medico morso alla gamba come da certificazione infettivologica”.

Il caso portato a emblema è quello di Cosimo Loiero, malato di cancro e azzannato da un topo, che ha chiesto di essere  scarcerato e messo ai domiciliari nei mesi scorsi per “l’incompatibilità del regime carcerario con le sue condizioni di salute”, ma prima la Corte d’Appello e poi il Tribunale del Riesame di Milano gli hanno detto di no. Loiero,  44 anni, condannato in primo grado a 18 anni  col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, si è ammalato di un linfoma di non – Hodgkin poco dopo essere stato arrestato nel  2016. Per i giudici del Riesame, “pur dovendosi dare atto della assoluta serietà e complessità delle patologie dalle quali risulta affetto Loiero, la detenzione in sé considerata, ovviamente effettuata come nel caso in un centro clinico (ma dalle carte si evince che non ci va mai, ndr)  non palesa insuperabili problematiche connesse alla patologia”.

La consulenza della difesa e la perizia del Tribunale concordano nel dire che  i cicli di chemioterapia a cui si sta sottoponendo determinano “un elevato rischio di complicanze infettive a breve e a lungo termine” perché il paziente è immunodepresso. Ma le conclusioni divergono. Per il medicio incaricato dalla difesa,  questo quadro clinico rende molto pericolosa la permanenza dietro le sbarre dal momento che “in ragione della terapia in corso Loiero presenta un rischio aumentato di eventi infettivi”.  Il perito del Tribunale invece si limita a indicare le precauzioni a cui dovrebbe attenersi il detenuto (”le norme igieniche devono essere garantite e verificate, evitando bagni a uso promiscuo o la scarsa pulizia degli ambienti”) ma sostiene “di non essere in grado di verificare quale sia la concreta situazione della casa circondariale, ad esempio “quante volte lavano i pavimenti o quante persone sono contemporaneamente presenti nel medesmo luogo”. La valutazione alla fine è stata fatta dal Tribunale del Riesame che ha affrontato anche l’episodio del morso del topo, esposto dallo stesso Loiero prima in udienza, dove ha mostrato i segni lasciati sul braccio dal ratto, sia  in una lettera ai suoi avvocati, firmata anche da due detenuti – testimoni.  “Il 29 aprile del 2018 alle 4 del mattino, un topo sbucato dai cestini portacibo  mi ha morso sul braccio destro ed è poi scappato. Lo ha ucciso il mio compagno di cella con una scopa e io ho deciso di conservarlo in un contenitore per alimenti per farlo vedere al medico perito che mi ha visitato il giorno dopo”. Loiero, che aveva appena terminato un ciclo di chemio, è stato visitato dal medico infettivologo del carcere che gli ha fatto una puntura antitetanica  prescrivendogli una cura di antibiotici per alcuni giorni. Sul punto, il Riesame “in assenza di elementi obbiettivi di riscontro, prende atto delle dichiarazioni del detenuto” e “nell’incertezza dell’effettività di quanto rappresentato da Loiero, segnala che sono state adottate le cautele del caso attivando un’adeguata profilassi attraverso la somministrazione di vaccino e antibiotici a riprova dell’adeguatezza della reazione sanitaria”. Non è chiaro da dove derivi l’incertezza dei giudici sul fatto dal momento che, come spiega uno dei legali di Loiero, l’avvocato Giuseppe Gervasi, “l’animale è stato conservato e consegnato al medico, il mio assistito è stato sottoposto alla profilassi del caso in carcere e in udienza ha mostrato i segni del morso”. Per il difensore “è grave che il Tribunale si limiti a ‘prenderne atto’ e a dire che il problema è stato superato dall’antitetanica senza preoccuparsi di svolgere accertamenti sull’episodio e sulla presenza di topi a Opera. Ed è assurdo  il passaggio del provvedimento in cui i giudici sottolineano che il perito ha fatto presente a Loiero  la pericolosità  della conservazione e del contatto con la carcassa, possibile causa di infezione. Come se fosse responsabilità sua essersi messo a rischio, quando invece è stato morso in carcere”. I difensori di Loiero hanno presentato ricorso alla Cassazione contro la decisione del Riesame.

(manuela d’alessandro)