giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La mappa delle 500 telecamere nel Palazzo e i dubbi dei lavoratori

Quella che vi mostriamo in esclusiva è la mappa del centinaio di telecamere che verranno installate entro la fine dell’anno al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Proprio dove l’imprenditore Claudio Giardiello circa tre anni fa compì il suo eccidio con una pistola introdotta eludendo i controlli ai varchi.   In tutto gli ‘occhi elettronici’ saranno 500, sparsi in ogni angolo dell’immensa costruzione di età fascista e anche nella nuova palazzina di via San Barnaba, aule comprese se i giudici daranno l’autorizzazione.

E’ la prima iniziativa del procuratore capo Roberto Alfonso sul tema della sicurezza sollevato dalla strage. Lo stanziamento che ha reso possibile il piano telecamere è di circa un milione e verrà seguito, entro il 2020, dall’installazione dei tornelli agli ingressi e dei videocitofoni davanti alle stanze di ogni magistrato. Si riuscirà a eliminare del tutto il rischio che scorra di nuovo del sangue nella casa milanese della giustizia?

C’è poi il tema della privacy. Camminare nel Palazzo di Giustizia significherà essere ‘pedinati’ passo passo da uno sguardo invisibile.  In un riunione che si è tenuta nei giorni scorsi coi rappresentanti dei sindacati, Alfonso ha sostenuto che “l’unico scopo delle telecamere è aumentare gli standard della sicurezza, senza alcuna limitazione o ripercussione nei confronti dei lavoratori” e che una copia del progetto è stata mandata all’Ispettorato del Lavoro e all’Autorità garante dei dati personali. Una sindacalista ha chiesto e ottenuto dal procuratore garanzie sul fatto che le telecamere non vengano utilizzate per controllare l’attività lavorativa e, in particolare,  le timbrature. (manuela d’alessandro)

Per i Ligresti lo stesso fatto ‘non sussiste’ a Milano, ma a Torino sì

Capi d’imputazione ‘fotocopia’ che a Torino hanno portato ad arresti e condanne e a Milano a un’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’, ribadita oggi in appello nei confronti di Paolo Ligresti. Un caso incredibile di contraddizione tra magistrati  di fronte agli stessi fatti, quelli relativi alla gestione delle società di famiglia, che il 17 luglio del 2013 portarono all’emissione di un’ordinanza cautelare per falso in bilancio e aggiotaggio firmata dal gip torinese, su richiesta della Procura sabauda, nei confronti di Salvatore Ligresti (scomparso di recente) e dei figli Jonella, Giulia e Paolo Ligresti. La ‘fortuna’ di quest’ultimo è stata quella di trovarsi, al momento del blitz, in Svizzera da cittadino elvetico. In queste vesti non ha potuto chiedere il rito immediato scelto invece dalle sorelle e dal padre, poi condannati a Torino nell’ottobre del 2016, e ha affrontato da solo un’udienza preliminare trovando un gip che ha dichiarato la propria incompetenza territoriale e ha trasmesso gli atti a Milano. Qui, nel dicembre del 2015, su richiesta dello stesso pm Luigi Orsi il l gup Andrea Ghinetti lo ha assolto col rito abbreviato. Una decisione non condivisa dal procuratore generale Carmen Manfredda che ha impugnato la sentenza ma poi, essendo andata in pensione, ha lasciato il caso alla collega Celestina Gravina che ha invece chiesto e ottenuto l’assoluzione per Paolo, difeso dall’avvocato Davide Sangiorgio, e per l’ex attuario Fulvio Gismondi e l’ex dirigente Pier Giorgio Bedogni. Le motivazioni al verdetto saranno depositate tra 90 giorni e forse a Torino si avrà la saggezza di aspettarle prima di celebrare l’appello di Giulia e Jonella, assistite dai legali Gian Luigi Tizzoni, Lucio Lucia e Salvatore Scuto. Non si può nemmeno dire che siano state date interpretazioni diversi alle stesse vicende perché a Milano ‘il fatto non sussiste’ proprio. Com’è stato possibile? Le interpretazioni sono varie, certo è che all’epoca l’impostazione dell’inchiesta del pm Orsi era meno ‘garibaldina’ di quella della Procura di Torino che intervenne con gli arresti ‘scippando’ di fatto l’indagine poi in effetti risultata di competenza milanese.  (manuela d’alessandro)

“Distrutto dall’inchiesta su Hacking Team, 3 anni dopo torno a vivere”

“Ero finito nel mirino per avere lasciato la società perché non condividevo le loro scelte etiche e di business, ma ora finalmente un giudice ha messo la parola fine a questa storia”.  Alberto Pelliccione, 35 anni, sta comprando bottiglie di vino buono da offrire ai familiari a Singapore, dove si trova per lavoro. Era stato accusato di aver orchestrato, assieme ad altri ex dipendenti, il più clamoroso attacco informatico della storia italiana, quello ai danni di Hacking Team, società che vende software – spia a polizie e governi. Oltre 400 gigabyte di documenti interni alla società, tra cui email e password dei dipendenti, e il codice sorgente di Rcs, vennero squadernati sul web tra maggio e luglio 2015, e fecero il giro del mondo.

Di pochi giorni fa la notizia, passata quasi inosservata sui media rispetto alla grande eco che ebbe l’indagine, dell’archiviazione da parte del gip di Milano Alessandra Del Corvo nei confronti di Pelliccione e degli altri indagati. A puntare il dito contro di loro era stato David Vincenzetti, l’ex ad e fondatore della società con sede a Milano. “Era il 2015, un anno e mezzo prima avevo dato le dimissioni da Hacking Team – ricorda  Pelliccione, precoce cyber talento tra i più brillanti nel settore della sicurezza -  poi sul mio esempio se ne andarono altri. Non volevamo più stare in quell’ambiente, soprattutto per ragioni etiche. Furono segnalati abusi dell’utilizzo del software in Marocco, dove venne usato contro gli attivisti per i diritti umani, a Dubai dove un professore venne imprigionato, sempre tramite il software di HT, per le sue idee, in Etiopia, dove il governo lo usò per rintracciare e punire giornalisti che erano contro il regime. E ancora, in Messico dove alcuni politici utilizzavano gli strumenti forniti dalla società per spiare i cronisti anche nell’intimità, e in Sudan”. Tutto grazie a un software che, come un cavallo di Troia, si infilava nei computer e negli smartphone consentendone la totale sorveglianza all’insaputa del ‘bersaglio’. Dopo avere lasciato Hacking Team, Pelliccione fonda la società ReaQta con sede a Malta finalizzata – secondo la denuncia di Vincenzetti rivelatasi infondata – a neutralizzare il codice Rcs. “Quando si è saputo dell’inchiesta sono rimasto sconvolto. Ho pensato subito a uno sgarbo che mi era stato fatto da dentro. All’improvviso ho cominciato a essere trattato come un criminale, sapevo di non avere fatto nulla ma ero nella mani e nei tempi della magistratura. Nessun cliente si fidava più di noi, per un anno il nostro business è rimasto congelato. La notizia era arrivata ovunque, negli angoli più remoti del mondo”. Nell’agosto del 2015, Pelliccione viene convocato dal pm Alessandro Gobbis: “Gli spiegai che secondo me si era trattato di un attacco politico, come poi venne confermato dalla rivendicazione di ‘Phineas fisher‘ (mai individuato, ndr). Credo che lui capì che non c’entravo niente ma mi fece intendere che il caso era delicato e non si sarebbe chiuso velocemente”. Dai dati resi pubblici in seguito all’attacco, era emerso che un colonnello e un generale dei servizi segreti italiani erano legati ad HT. Nel frattempo, il pm che, secondo Pelliccione “ha svolto un lavoro eccellente”, inizia a seguire la pista americana recuperando le orme di un cittadino statunitense di origini iraniane, Fariborz Davachi, titolare di una rivendita di auto nel Tennesee. Per la Procura e per il giudice che ha archiviato avrebbe avuto un ruolo nella preparazione materiale dell’attacco ma potrebbe essere stato solo l’esecutore di una trama di cui era all’oscuro. “Chi vende una pistola illegale non è tenuto a sapere delle intenzioni omicide di chi la compra”, ragiona Pelliccione secondo cui invece, a differenza di quanto sostenuto da pm e gip, gli Usa hanno collaborato come dovevano per individuare gli autori del blitz. “L’Fbi ha fatto le perquisizioni e trasmesso gli atti all’ambasciata romana, poi a un certo punto, usciti dal mondo ‘terreno’ dove si è incontrato Davachi, è diventato impossibile seguire le tracce nel mondo digitale”. Quelle che invece è certo, secondo il gip, è che l’incursione informatica non ha servito nessuna buona causa ‘umanitaria’, come sostenuto da ‘phineas fisher’, rovinando invece “indagini in corso per la scoperta di gravi reati, come il terrorismo internazionale”. Questo romanzo digitale potrebbe avere un’appendice. Pelliccione, assistito dagli avvocati Marco Tullio Giordano e Giuseppe Vaciago, sta pensando ad azioni legali contro Vincenzetti anche sulla base di un passaggio del provvedimento del gip che rimarca un possibile tentativo di intrusione proveniente dall’interno di HT ai danni di un indirizzo di Malta.

(manuela d’alessandro)

 

Fondi Expo giustizia, il gip di Trento archivia tutto

Ha attraversato città, lagune e monti il fascicolo sui fondi Expo assegnati alla giustizia milanese. Senza un’iscrizione nel registro degli indagati, senza un’attività investigativa visibile all’esterno. Alla fine, nella pace delle montagne trentine, a pochi passi dal confine italiano, ha trovato requie dopo un solo anno di vita. Il gip di Trento ha archiviato il fascicolo dell’inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione da parte del Comune di Milano e dei magistrati di una decina di milioni di euro destinati per lo più al processo informatico. Non è colpa di nessuno se da anni i monitor comprati coi soldi pubblici (appalto da quasi due milioni) rimandano solo buio e silenzio e non le indicazioni al cittadino su come orientarsi nel Palazzo, com’era stato promesso. E se la maggior parte del tesoro è  stato distribuito con affidamenti diretti e non con gare pubbliche può forse destare stupore ma non suggerisce, nemmeno a titolo di ipotesi, un reato. Nella primavera di un anno fa, l’Anac, ‘bastonata’ ieri dal procuratore Francesco Greco per i ritardi nella trasmissione delle segnalazioni, aveva presentato un esposto a Milano. Molto tempo prima, notizie di stampa nel 2014 avevano avanzato dubbi sull’utilizzo di questi soldi, ma a nessuno è venuto in mente di fare approfondimenti.  Fatto sta che i pm si sono accorti dopo un po’ di mesi che non potevano tenere le carte a Milano perché potenzialmente erano coinvolti dei loro colleghi seduti al tavolo attorno al quale si decideva la spartizione dei fondi. Atti a Brescia, allora, dove però il presidente delle Corte d’Appello è Claudio Castelli che a Milano da gip di era occupato del processo digitale. Tutto a Venezia ma anche qui si è scoperto che c’era un magistrato forse coinvolto nella vicenda. Infine, l’approdo a Trento, procura guidata dall’ex milanese Sandro Raimondi. Titoli di coda. Resta da attendere la Corte dei Conti che sta compiendo gli accertamenti di sua competenza prima di tirare una linea definitiva dal punto di vista giudiziario su una storia che dietro di sé lascia comunque molte perplessità.

(manuela d’alessandro)

fondi-expo-il-comune-accusa-i-magistrati-e-fa-i-loro-nomi-ad-anac

quel-monitor-di-expo-al-passo-carraio-dove-non-serve-a-nessuno

Procura di Milano contro Anac: “Rendete inutili le nostre indagini”

Era nell’aria da un po’ ma ora abbiamo l’ufficialità: tra la Procura di Milano e l’Anac è rottura con la prima che accusa la seconda di rendere “inutili” le sue indagini.   La mina salta alla presentazione del Bilancio di Responsabilità Sociale del 2017, un’occasione in cui di solito abbondano le ‘buone maniere’ e i linguaggi affettati. Invece il procuratore capo Francesco Greco prende il bazooka: “In attuazione del protocollo di Intesa del 5 aprile 2016 – si legge nel libretto che riassume un anno di lavoro – l’Anac ha trasmesso numerosi illeciti  da cui si potevano desumere fatti di corruzione. Tuttavia il ritardo con cui le notizie sono state trasmesse e soprattutto le modalità di acquisizione degli elementi (acquisizione di documentazione presso gli enti coinvolti) hanno determinato una discovery anticipata, sostanzialmente rendendo inutili ulteriori indagini nei confronti di soggetti già allertati”.  Un riferimento implicito certo è alle carte mandate in Procura da Raffaele Cantone  sulla vicenda dei milioni di fondi Expo per la giustizia milanese. Troppo tardi, secondo i magistrati che si sono trovati a indagare su una presunta turbativa d’asta relativa alla gestione dei soldi da parte della magistratura milanese e del Comune di Milano a distanza di anni dai fatti. E dopo che Anac è andata ad acquisire cumuli di carte a Palazzo Marino. E’ finita che la Procura di Milano si è liberata dell’indagine, non con un certo fastidio, spedendola a Brescia per potenziali coinvolgimenti di magistrati che si sono occupati del ‘tesoro’ proveniente dall’Esposizione. C’è anche da dire, almeno per questa inchiesta, che organi di stampa tra cui Giustiziami avevano scritto molto tempo prima dell’intervento di Anac ma in Procura non si era ritenuto di intervenire.

Altro terreno di tensioni era stata  l’inchiesta sulla pubblicità delle aste giudiziarie avviata dalla Procura sempre a partire da un dossier di Anac che aveva accolto con un certo stupore, stando a nostre fonti, la richiesta di archiviazione presentata dai pubblici ministeri e poi accolta da un gip.  Secondo l’Autorità, il  bando lanciato nel 2012 dalla Camera di Commercio era stato viziato da “gravi anomalie”. A vincere fu la sola società partecipante, con un ribasso del 72,5%. L’Anac mandò gli atti alla magistratura nel 2015, 3 anni dopo i fatti, mentre l’archiviazione è del maggio scorso. Il rapporto tra l’Authority e la magistratura  era apparso invece idilliaco ai tempi del procuratore Edmondo Bruti Liberati da cui erano arrivati riconoscimenti ad Anac all’epoca dei primi arresti legati a Expo. In serata, Greco ridimensiona parlando di “problemi tecnici” e di “ottimi rapporti con Cantone”.

(manuela d’alessandro)