giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Quello che c’è ancora da fare sul fine vita per Cappato

“Senza la forza di Beppino Englaro non saremmo arrivati alla legge sul biotestamento né alla sentenza della Corte Costituzionale su Dj Fabo che chiede al Parlamento di intervenire”. Marco Cappato è l’uomo che, da leader dell’associazione ‘Luca Coscioni’, ha attraversato da protagonista quella che lui chiama la “rivoluzione copernicana” sul fine vita in Italia, rischiando il carcere per avere accompagnato tanti malati a morire in Svizzera e sostenendo le battaglie pubbliche di alcuni di loro diventati dei simboli. “Quella di Beppino è stata la prima delle storie che hanno contribuito a fare dei passi avanti decisivi. La caratteristica fondamentale di Beppino è stata la sua serietà quasi monomaniacale, ossessiva nel ribadire il punto della storia di Eluana, senza mai fare politica, o meglio, facendola solo in relazione a quello che Eluana voleva. Non si è mai distratto, è stato cocciuto: si batteva per il rispetto di quello che Eluana desiderava, non si è mai messo a parlare d’altro”. I “passi avanti” sono avvenuti nelle aule di giustizia, fuori dal Parlamento: “Sono stati tre i provvedimenti  giudiziari che hanno segnato delle svolte. Il proscioglimento del medico Mario Riccio per avere aiutato a morire Piergiorgio Welby, l’archiviazione dell’inchiesta a carico di Beppino Englaro e la sentenza della Consulta su Dj Fabo che chiede alla politica di riempire il vuoto legislativo su casi come quello di Fabiano Antoniani. L’altra vicenda chiave è stata quella di Walter Piludu. Dieci anni dopo il caso Welby, ai medici della Asl di Cagliari è stato ordinato di intervenire dal giudice. Quindi siamo passati dal caso Welby, dove un medico è stato incriminato all’inizio per avere staccato la spina, e poi prosciolto, al caso Piludu in cui ai medici  è stato ordinato di interrompere la respirazione artificiale, su sua richiesta ovviamente. In dieci anni, senza nessun intervento legislativo, è stato stravolto il rapporto tra medico e paziente”.
C’è “un faro” per Marco Cappato a unire gli epiloghi di queste storie ed è “nell’articolo 32 della Costituzione,  quello per cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”. Invita a non fermarsi alle differenze terminologiche (eutanasia, biotestamento, stop all’alimentazione forzata) perché “quello che le lega tutto è il diritto ad autodeterminarsi. Ad Eluana non si sarebbe potuta sospendere l’alimentazione se non ci fosse stato un momento, ricostruito dai giudici in base alle testimonianze, in cui lei, e non suo padre o i magistrati, aveva espresso in modo chiaro la sua volontà”.
La politica è pronta adesso per dare seguito all’invito della Consulta a scegliere come definire casi come quello di Dj Fabo? “Io credo di sì, poi non è detto che lo faccia, non sono né ottimista né pessimista.  Lo ritengo possibile perché non dico io, ma tutti i sondaggi possibili e immaginabili, che tre quarti degli italiani sono favorevoli al fatto che la persona sia libera di decidere. La possibilità di avere una buona legge sta nel fatto che c’è un sentimento diffuso a favore della libertà di scelta”.
Se è vero che i momenti cruciali sono stati certificati nelle aule dei tribunali, per Cappato il cambiamento è andato avanti in modo ineluttabile per due ragioni: “La prima, la più importante, è che è mutato il modo di morire, sia per il progresso tecnologico che per l’innalzamento della vita media. Negli ultimi 15  anni morire è sempre meno un attimo e sempre più un processo che può durare anche mesi o anni. Se chiedevi prima ai cittadini cosa ne pensavano, ognuno poteva avere la sua idea, oggi il cento per cento degli italiani sa di cosa stiamo parlando, anche se non glielo dice la televisione. Tutti hanno almeno un amico, un parente che si è trovato in questa situazione di sofferenze e, per questo, la gente è disponibile a prendere in considerazione questo tipo di legge. Poi le vicende come quella di Eluana sono state determinanti per trasformare la conoscenza in consapevolezza politica, cioè per far capire che quello che tu hai vissuto per un genitore o un amico è anche un problema della società. Nel vedere la sofferenza di Eluana tutti hanno riconosciuto il proprio vissuto”. Eppure, stando ai primi dati, sembra che il testamento biologico abbia trovato per ora pochi proseliti.  “Non abbiamo ancora dati veri e sistematici, ma è vero che è un fatto  ancora abbastanza marginale. Questo perché non è stata ancora promossa una campagna di informazione,  non esiste una banca dati nazionale e questa legge non è ancora entrata come strumento nell’ordinarietà del rapporto tra medico e paziente. E’ un tipo di legge che non basta mettere sulla carta”. Marco Cappato non ha più portato in Svizzera nessuno, dopo Dj Fabo. Non perché abbia paura visto che, per questo gesto, è a processo per istigazione al suicidio, in attesa che il Parlamento definisca una legge entro l’ottobre di quest’anno. “Continuo ad aiutare le persone che chiedono informazioni all’associazione ‘Coscioni’ ma non c’è stata più una di queste che abbia avuto bisogno di me per andarci. Se il mio aiuto fosse di nuovo indispensabile, non esiterei a fornirlo”. (manuela d’alessandro)    

Gli avvocati al cinema non sono mai Perry Mason

 

Solo chi non ha mai messo piede in un’aula di giustizia italiana può ancora credere che un avvocato somigli a quel Perry Mason che convinceva le giurie popolari americane con la sola forza della ragione.

Eppure la figura dell’avvocato ha da sempre attirato attori e cineasti di tutto il mondo.

Andando un po’ a zonzo per la sterminata filmografia troviamo negli anni ’50, dopo il citato Raimond Burr, lo straordinario Charles Laughton di “Testimone d’accusa” di Billy Wilder, mentre in Italia imperavano i legali macchietta alla Alberto Sordi o Vittorio De Sica che in “Altri tempi” di Blasetti conierà, nella sua memorabile arringa, quella storica definizione di “maggiorata fisica” per difendere la Lollo, non potendosi avvalere della codificata “minorata psichica”.

Passeranno molti anni prima di trovare nel cinema di casa nostra avvocati più seri, perché impegnati in processi realmente accaduti, come nel caso di Stefano Accorsi, alter ego di Raffaele Della Valle in “Un uomo per bene” di Zaccaro, oppure del meno edificante Marco Giuliani in “Sulla mia pelle” di Cremonini.

Frattanto negli anni ‘60 il grande Gregory Peck si porta a casa un Oscar per “Il buio oltre la siepe” di Mulligan, nei ’70 sono tutti impegnati a fare altro e negli ’80 l’idealista Paul Newman de “Il Verdetto” di Lumet si confronta con l’irresistibile Danny De Vito, matrimonialista uscito distrutto, al punto da riprendere a fumare, dall’esiziale “Guerra dei Roses”.

Nei ‘90 arrivano gli avvocati belli, ricchi e rampanti, si comincia con Tom Cruise, che schianta in controesame l’imbolsito Jack Nicholson in “Codice d’onore” di Reiner, prima di diventare “Il Socio” di Pollack, e si continua con un Richard Gere turlupinato dal proprio cliente in “Schegge di paura” di Hoblit, un Keanu Reeves che fa “L’avvocato del diavolo” nel film di  Hackford, di nuovo Richard Gere in “Chicago” di Marshall, fino al come sempre strepitoso Roberto Downey Jr. in “Il Giudice” di Dobkin.

Ma il politically correct imponeva di proporre anche figure più nobili, come il Mattew Mc Conaugey di “Il Momento di uccidere” di Schumacher, il Denzel Washington di “Filadelfia” di Demme, il Mat Damon di “L’uomo della pioggia” di Coppola, fino a Chris O’Donnell, nipote del condannato Gene Hackman in ”L’ultimo appello” di James Foley, oppure talentuosi squattrinati come il Dustin Hoffman di “Sleepers” di Levinson e il Joe Pesci di “Mio cugino Vincenzo” di Lynn, per mio conto tra le più riuscite interpretazioni delle loro rispettive carriere.

Infine, seppur tardivamente, faranno ingresso sulla scena anche avvocate del gentil sesso, eredi della grande Katharine Hepburn di “La costola d’Adamo” di Cuckor, e così, dopo Jessica Lange, lacerata dal conflitto familiare in “Prova d’accusa” di Costa Gravas,  troviamo Cher in “Presunto colpevole” di Yates, Susan Sarandon in “Il Cliente” di Schumacher e Emma Thompson in “Nel nome del padre” di Sheridan, fino a quella Julia Roberts, che pur non essendo iscritta all’albo, sarà lei a vincere da sola la causa di Erin Brokovic nel film di Soderbergh.

avvocato Davide Steccanella

Strage in Tribunale, per i giudici bresciani ci furono falle nella sicurezza

Per il momento, l’unico che ha pagato è lui: Roberto Piazza, la guardia che presidiava uno degli ingressi del Tribunale di Milano quando Claudio Giardiello entrò per compiere la strage. Nelle motivazioni alla sentenza con cui, il 29 ottobre scorso, l’hanno condannato a 3 anni di carcere, cancellando l’assoluzione del primo grado, i giudici della Corte d’Appello di Brescia riconoscono però le “difficili condizioni nelle quali lavorava” e il cattivo funzionamento del sistema di sicurezza nel Palazzo di Giustizia di Milano. Su questo secondo aspetto, nessuno è mai stato nemmeno indagato dalla Procura.   
Nello spiegare perché Piazza, ultimo anello della catena, è stato condannato per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, i magistrati, presieduti da Mariapaola Borio,  sottolineano il peso di un’intercettazione in cui il killer, che sta scontando l’ergastolo per avere ucciso tre persone e ferite altre due, disse: “Io ho preso la borsa e me ne sono andato, a me nessuno mi ha fermato”. Parole che confermerebbero la negligenza nei controlli da parte dell’imputato. La mattina del 9 aprile 2015, Giardiello fece fuoco con la sua Beretta calibro 9 freddando il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani, il suo coimputato Giorgio Erba e il giudice Fernando Ciampi. Movente della strage: la rabbia nei confronti di persone che riteneva, a vario titolo, responsabili del suo crac immobiliare e dei conseguenti guai con la giustizia.
Alla guardia viene addebitato di non essersi allarmato nonostante “le tre macchie di particolare intensità” (riprese dalle telecamere della videosorveglianza), corrispondenti a pistola, caricatore  e mazzo di chiavi” che per venti secondi risaltarono sullo schermo al passaggio sotto il tunnel della ’24 ore’ di Giardiello. “Dall’altro lato – sottolineano però i giudici – non possono sottovalutarsi le difficili condizioni nelle quali Piazza si è trovato a lavorare, tenuto conto del fatto che egli, oltre ad essere addetto al Fep (l’apparecchiatura radiogena usata per i controlli, ndr) ricopriva quel giorno, in quanto unica guardia armata presente al varco di via San Barnaba, la funzione di capoposto e quindi con l’esigenza di coordinare e, in qualche modo, controllare, l’operato delle guardie armate, che lo coadiuvavano nell’espletamento dei controlli di accesso con conseguente dispersione di energie nervose”. Inoltre, i giudici evidenziano che “vi sarebbe non poco da osservare sulle modalità di gestione della sicurezza del Palazzo di Giustizia – quali ad esempi il mancato utilizzo di Fep a doppia sorgente o l’incomprensibile sdoppiamento del servizio di guardiania tra personale armato e non armato, impiegato in mansioni sostanzialmente fungibili con ovvi problemi di coordinamento”.                

L’emozionante lettera dell’ergastolano all’avvocato dopo il primo permesso premio

“Maria, continuo a leggere e rileggere il verbo ‘Ammette, ammette, ammette’ per cercare di imprimere nella mia mente la bellezza di questa parola, il suo vero significato che per me significa rinascita”.

Vito Baglio ha 50 anni, è recluso a Opera e ha appena ricevuto dal Tribunale di Sorveglianza di Milano un permesso per andare all’Università dopo 21 anni di carcere senza mai vedere la luce perché è – o meglio era fino a ieri – un ergastolano ostativo.

Maria invece è Maria Brucale, il suo avvocato che da sempre si batte  per l’abolizione della prigione senza possibilità di uscita, riservata a persone accusate di reati di particolare gravità, come quelli di mafia o terrorismo. Ha postato sul suo profilo Facebook la lettera che Vito Baglio le ha scritto subito dopo avere ricevuto la notizia del suo primo permesso: “Maria finalmente tu ce l’hai fatta, io ce l’ho fatta, entrambi ce l’abbiamo fatta. E’ bellissimo! Non volevo crederci, ma quando ho letto le ultime righe dell’ordinanza sono crollate tutte le barriere. C’è veramente scritto che posso uscire fuori dal carcere”.

“Questa lettera – racconta Brucale – è la dimostrazione di come può cambiare un uomo in carcere. Vito, che era stato condannato per reati di mafia, ha sfruttato tutte le occasioni per migliorare e ha fatto un percorso stupendo grazie anche all’associazione ‘Nessuno Tocchi Caino”. Tra le sue esperienze anche quella da ‘attore’ nel film ‘Spes contra Spem’ girato da Ambrogio Crespi e approdato al Festival di Venezia dove ha portato il tema degli ‘uomini ombra’, destinati a una carcere eterno a meno che, prescrive la legge, non collaborino con la giustizia. Negli ultimi anni la Corte costituzionale ha però aperto dei varchi ed è stato introdotto il principio dell”inesigibilità’ della collaborazione.  Questo è stato il caso di Baglio, come spiega il suo legale: “E’ impensabile che una persona come lui, che ha fatto il suo percorso, abbia ancora contatti con la criminalità. Una volta stabilito oltre un anno fa che non poteva collaborare, abbiamo finalmente ottenuto il sì dei giudici al permesso. Ora potrà averne altri ogni 45 giorni se si comporterà bene”.

(manuela d’alessandro)