giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Intervista a Steccanella: “Lotto per non far morire Battisti in carcere”

Davide Steccanella gode di un doppio, prezioso punto di vista: da sei mesi è l’avvocato di Cesare Battisti, a cui sta cercando di far scontare una pena coerente con la Costituzione sia nell’entità che nei modi; da un’altra prospettiva, che ‘allena da anni’, è uno dei massimi storici degli anni del terrorismo italiano e non solo, autore di testi fondamentali  come ‘Gli anni della lotta armata: cronologia di una rivoluzione mancata’. Per la prima volta da quando affianca Battisti, catturato in Bolivia a gennaio dopo 37 anni di latitanza e in carcere per scontare due ergastoli relativi a 4 omidici, Steccanella si concede in un’intervista a tutto campo.

Cosa significa per te, che ha studiato anche da storico quel periodo pur non avendolo mai  vissuto direttamente, difendere Cesare Battisti?

Avrei preferito continuare a occuparmene da storico, sicuramente non avrei mai pensato da avvocato di scrivere un’istanza su fatti commessi nel 1979. All’inizio è stato difficile,  però nel momento in cui una persona in stato di detenzione mi nomina come avvocato non posso che fare solo l’avvocato e dimenticare di essere uno storico. Da quell’istante, considero il mio cliente una persona che ha necessità di una difesa tecnica e quello è il mio approccio, anche  se è senz’altro singolare fare diventare cronaca giudiziaria quella che è invece è storia. La situazione di Battisti è molto particolare perché qui non soltanto si parla di fatti commessi 40 anni fa ma lui è una persona che è andata via dall’Italia 40 anni fa, nel 1979 quando, dopo  due anni di galera, è stato fatto evadere da altri, è andato all’estero e non ha più fatto rientro nel nostro Paese. Ora, chiunque abbia potuto vivere in Italia negli ultimi 40 anni sa che questo è un Paese completamente diverso. C’è questo duplice problema: sono vecchi i fatti ed è vecchissimo questo rapporto con lo Stato che in questo momento sta eseguendo nei suoi confronti una pena. C’è anche una difficoltà di comunicazione: Battisti è una persona abituata a parlare da anni altre lingue. Insomma, è tutto molto singolare rispetto alle precedenti mie esperienze professionali.

Prima di tornare in Italia, Battisti a un certo punto dice di essere andato dalla Francia al Brasile grazie ai servizi segreti francesi. Poi non ha mai più smentito questa storia. E’ davvero andata così e, nel caso, cos’ha ricevuto in cambio dai servizi? 

Io parlo delle cose che so e questo non lo so, il mio cliente non mi ha mai riferito modalità di questo tipo. In quegli anni sono state molte le persone che si sono sottratte alle sanzioni riparando all’estero. Non era così inusuale che un soggetto riuscisse ad andare all’estero senza bisogno dei servizi segreti. Parliamo di una persona che è da 40 anni all’estero e che di dichiarazioni ne ha fatte tante, ogni volta determinate dalla situazioni in cui si trovava. Per questo,  preferisco adeguarmi a quello che mi ha detto di persona e su questo aspetto non ho avuto nessuna conferma. Da quello che ho capito io, mi pare assolutamente compatibile la sua versione. Ai tempi anche prendere gli aerei non era così complicato come oggi, è pieno di casi, non sarebbe né il primo né l’ultimo ad averlo fatto in quegli anni, non è necessario che ci sia dietro chissà quale protezione francese.

Battisti ha ammesso di avere avuto un ruolo materiale o come mandante in quattro morti: quella del maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, del gioielliere Pierluigi Torregiani, del commerciante Lino Sabbadin e del poliziotto Andrea Campagna. La decisione  di ammettere gli addebiti dopo averli negati per anni è una decisione che ha preso lui oppure tu, come legale, gliel’ha suggerita? 

Mai nella vita ho preso una decisione per conto dei miei clienti, soprattutto se è di questa delicatezza e di questa importanza. E’ una scelta che ha fatto lui e io gli ho creato i mezzi tecnici per portarla avanti. In quel momento ho ritenuto, quello  sì, di scegliere l’interlocutore che mi sembrava più adatto e istituzionale, cioè il procuratore dell’antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, che, tra l’altro, è un magistrato che stimo tantissimo e di cui mi fido ciecamente. La decisone è stata sicuramente sua ma tenete conto che sono state scritte un po’ di inesattezze su questo fatto, nel senso che Battisti non ha mai negato di fare parte dei Pac che erano una delle tantissime formazioni armate di quegli anni. Lui non ha mai detto ‘Io non ho fatto la lotta armata’. Se il discorso è relativo ai singoli episodi, il negarli ha un senso di fronte alle autorità che deve riceverli. Battisti non ha mai partecipato ai processi in Italia, era in contumacia e la prima volta che ha  trovato un magistrato, cioè dopo il rientro nel nostro Paese, ha fatto quella dichiarazione. Eventuali dichiarazioni fatte ai media all’estero in precedenza vanno prese con le molle. Non è corretto dire che ha cambiato idea, ha sostanzialmente sempre ammesso la sua situazione storica e politica sulla quale ha anche scritto dei libri. A Nobili ha detto che le sentenze corrispondono al vero perché insieme a tanti altri è stato un militante dei Pac. Teniamo presente che i Pac non erano le Br,  ma un gruppo ristretto. Se fai parte dei Pac, le azioni sono quelle e pensare che fai parte dei Pac senza partecipare a quelle azioni poteva sembrare contraddittorio. In Francia o in Brasile potevano crederci, non conoscendo la storia di questo Paese, nessuno in Italia poteva immaginarlo.  

Nell’interrogatorio davanti a Nobili, Battisti ammette di  avere ucciso, sparandogli, il poliziotto Andrea Campagna “su indicazione data dal collettivo di Zona Sud in quanto Campagna era stato ritenuto uno dei principali responsabili di una retata ai danni dei compagni del collettivo Barona che erano poi stati torturati in caserma”. Come si lega quell’episodio alla vicenda di Battisti?

Quello è un fatto provato, ormai storico, anche se l’inchiesta venne archiviata, e riguarda tutti i militanti del collettivo Barona che furono sottoposti a tortura in caserma. Si sanno anche i nomi. C’entra fino a un certo punto con Battisti. Certamente fu un episodio orrendo, che però in realtà aveva riguardato una serie di persone che non c’entravano nulla coi Pac. Ho trovato onesto da parte di Battisti non strumentalizzare per se stesso quell’episodio che effettivamente non aveva nessuna attinenza. Questa è una brutta pagina di quella storia che ho anche riportato in un libro, facendo parlare i protagonisti. Il problema di quella storia è che non si è trattato di una serie di episodi giuridicamente delittuosi ma si è inserita in un gigantesco conflitto sociale che ha coinvolto  il nostro Paese per più di 15 anni. Per durare più di 15 anni in uno Stato capitalista, che non sono le montagne della Sierra Nevada, evidentemente era una situazione storica molto particolare al cui interno si colloca la microesperienza di Battisti e di migliaia di altre persone.  Che lo Stato in qualche modo abbia reagito andando oltre i mezzi consentiti è  abbastanza normale, cioè tu dichiari guerra e l’attaccato risponde. Battisti è stato un combattente di quel periodo e trovo anche che sia abbastanza coerente che non faccia il  ‘piangina’ rimproverando lo Stato. Aveva messo in conto che lo Stato reagisse in quel modo. Cioè lui non è un democratico, non puoi chiedere a Battisti di utilizzare lo sdegno democratico perché sarebbe anche contraddittorio. Battisti è l’ultimo a sorprendersi che la polizia torturasse i militanti arrestati. Non toccava a lui parlane, ma allo Stato ammettere.

Lo Stato italiano continua a  cercare i latitanti all’estero, com’era Battisti. Alcuni protagonisti di quegli anni e diversi intellettuali ritengono che lo Stato dovrebbe non limitarsi a ridurre quelli commessi all’epoca come dei fatti criminali ma anche espressione di un conflitto sociale.  E’ possibile che prima o poi accada?

C’è stato un conflitto di classe che si è inserito perfettamente in quel ventennio molto particolare di un secolo molto particolare, con guerriglie sparse in tutto il mondo. Questo lo Stato non lo vuole ammettere ma ai tempi del sequestro Moro sarebbe stata sufficiente una dichiarazione che c’era un conflitto sociale in corso per salvare la vita del politico. Lo Stato decise di non farlo allora ed è ovvio che non lo fa 40 anni dopo, ma così si continuerà a raccontare una storia monca che non fa capire né com’è nata né com’è finita, con ciò lasciandola sospesa. Tu puoi raccontare la storia solo se la definisci, se no resta lì e queste sono delle protuberanze che assomigliano a una forma di vendetta tardiva. Io sono contrario anche a recuperare i criminali nazisti, c’è poco di giuridico e tanto di vendetta, oltre al discorso della propaganda politica. Sapere che un ministro, Matteo Salvini, dice che un detenuto deve marcire in galera mi fa orrore e in questo do’ atto alla Corte d’assise d’appello di Milano, che si è occupata del caso, di avere ristabilito i giusti termini giuridici. La storia di un Paese non doveva essere delegata alla magistratura che non ha il compito di risolvere un conflitto sociale. Battisti non ha inventato la lotta armata ma faceva parte di altri 6mila cittadini condannati per lotta armata. Ho trovato ripristinato il principio secondo cui nessuno deve marcire in galera proprio nell’ordinanza che ha respinto la mia istanza di commutare in 30 anni la pena dell’ergastolo (nel provvedimento, i giudici hanno stabilito che Battisti “potrà godere dei benefici penitenziari, in virtù di un trattamento che è diretta attuazione del canone costituzionale della funzione rieducativa della pena”, ndr). In quell’ordinanza, il percorso penitenziario arrivato dalle leggi degli anni ’70  ha trovato un senso anche perché se lo Stato si limita a essere una retina che raccoglie tutti i ruderi di una guerra finita ci fa brutta figura lui. Uno Stato forte chiude i conti col passato. C’è stato bisogno di una mia istanza per ottenere il riconoscimento del ‘presofferto’, cioé i quasi 8 anni di carcere che Battisti aveva già scontato. I media hanno fatto passare il concetto che abbiamo chiesto uno sconto di pena, ma non è così. Io mi sono limitato a osservare che una parte di galera l’aveva già fatta.

Come hai trovato Battisti dal punto di vista umano?

L’ho visto per la prima volta nel carcere di massima sicurezza, è una persona di 65 anni che ha tutta una storia particolare, completamente diversa da dalla mia, per cui all’inizio è stato un po’ difficile. Quello che posso dire è che mi pare una persona sincera. Il mito  che era stato costruito non mi sembra corrispondere per niente alla persona fisica e reale che in questi mesi sto conoscendo,. Sicuramente la mia impressione è migliore di quella che la stampa aveva trasmesso.

Tu sostieni che Battisti non sia stato espulso ma estradato, e per questo gli vada applicata la pena massima dei 30 anni di carcere perché in Brasile non è previsto l’ergastolo, a differenza che in Bolivia. Perché ne sei convinto? 

In tutti gli atti pubblici della Digos non si parla mai di una procedura di espulsione, Battisti sempre viene definito come estradato e, come tale, va trattato secondo quanto stabilito dal trattato tra Brasile e Italia del 2017.  A mio parere l’Italia non può fare questa figuraccia di non rispettare l’accordo col Brasile. Non capisco le levate di scudi alla mia richiesta di commutare la pena dal carcere a vita a 30 anni su un uomo di 65 anni. Chiunque dotato di un minimo di buon senso capisce che trasformare in 30 anni la pena su una persona di questa età è di assoluta irrilevanza. Allora mi chiedo: perché tutto questo accanimento su cose che non hanno un rilievo effettivo? Significa che lo Stato va oltre, che in qualche modo vuole fargliela pagare un po’ di più e questo è sbagliato. Prendo però atto che, in questi sei mesi, gli unici soggetti coi quali ho potuto interloquire rimanendo nell’ambito del diritto sono stati i magistrati e la poliziotta Cristina Villa (tra le principali artefici della cattura in Bolivia, ndr). Meno male che mi hanno consentito di fare il mio mestiere.  Battisti ha fatto parte di una storia dolorosa, anche in questo Palazzo di Giustizia (di Milano, ndr) vediamo tutta una serie di targhe che ci ricordano le persone che sono morte in quegli anni, ma ricordiamoci che sono morte tantissime persone anche dall’altra parte e non vengono mai ricordate. Lo dicono i numeri che è stata una guerra.

A luglio scadono i sei mesi di isolamento. Cosa succederà dopo? 

Battisti è stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove non ci sono altri detenuti qualificati come lui, cioé As2 (Alta sicurezza livello 2, ndr). Questo significa che quando scadrà la pena dell’isolamento lui continuerà a scontare in maniera illegittima l’isolamento se non verrà trasferito in una carcere dove potrà stare con altri. Che uno Stato pretenda di eseguire una pena è legittimo ma questa non deve trasformarsi in una tortura. L’isolamento è una pena ulteriore che non può andare un giorno oltre la pena comminata. Se non lo spostano da lì è invece destinato a prolungare una pena a quel punto illegale. Lui deve scontare il dovuto ma non vedo perché debba essere sottoposto a un trattamento diverso rispetto agli altri detenuti. Proverò a rivolgermi al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per farlo trasferire in un altro carcere ed evitargli l’isolamento oltre la pena. Bisogna trovare un carcere dove ci sono altri As2. Battisti sta scontando una pena per una storia alla quale hanno partecipato tantissimi in questo Paese, non ha inventato niente, è figlio di un’epoca. Il mio obbiettivo è che non muoia in carcere perché quando ho scelto di fare l’avvocato l’ho fatto per un Paese dove ero convinto e lo sono tuttora che i detenuti non debbano marcire in galera. In Italia manteniamo in vigore la pena dell’ergastolo che quasi tutti gli altri Stati a cui l’Italia si sente superiore per civiltà, ritengono superata. Nell’accordo su Battisti, l’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando scriveva in tre pagine, quasi scusandosi col Brasile, di avere ancora l’ergastolo e sembrava di percepire l’imbarazzo per questo. Due anni dopo sentire l’attuale Ministro che la rivendica e si augura che un detenuto marcisca in galera lo trovo inquietante non per me bensì per tutto il sistema, in primis per gli stessi operatori del diritto, avvocati e magistrati: perché allora che ci stiamo a fare? Per marcire in galera non c’è bisogno di noi.

(frank cimini e manuela d’alessandro)

 

 

 

 

 

Il sogno del calciatore della Mauritania di giocare in Nepal

Gli scenari calcistici in cui è ambientata questa storia sono inediti, eppure è proprio il sogno della gloria attraverso un pallone che avrebbe spinto un aspirante campione che vive in Mauritania a rivolgersi a un ‘procuratore’ senegalese per andare a giocare in Nepal.

Gli ha pagato una somma convertibile dalla moneta locale in 4500 euro affinché organizzasse per lui un viaggio  nel paese dalle alte vette “per essere allenato al gioco del calcio”.  Il calciatore si sarebbe poi ritrovato - questa è l’ipotesi che si legge nel capo d’imputazione firmato dalla Procura della Mauritania -  “per sei mesi senza fare nulla“  in Nepal  “fino a quando non ha capito di essere stato vittima di un truffatore che lo ha messo in pericolo durante questo viaggio”.

A quel punto, ha  sporto denuncia alla giustizia del suo Paese lamentando di essere stato vittima di una truffa, reato punito con 5 anni di carcere in Mauritania. La sesta camera investigativa della Corte della Regione di Nouakchott ha chiesto l’arresto per il 33enne senegalese che, in seguito, si è saputo avere lasciato il suo Paese e trovarsi a Milano dove è stato catturato dai carabinieri. Spezzato il sogno del ragazzo mauritano, la questione è ora il trattamento che viene riservato al  procuratore.  In carcere, spiegano i suoi avvocati Mauro Straini ed Eugenio Losco, le visite mediche hanno fatto emergere una “severa cardiopatia” da cui è affetto che parrebbe incompatibile con la detenzione. Ma il tema principale è che  il  presunto  agente di campioni rischia di finire in un carcere della Mauritania, uno Stato dove, osservano i legali, c’è il rischio che venga torturato come denunciano dai dossier di Amnesty International. Lui ha già dichiarato ai magistrati milanesi, chiamati a valutare la richiesta di estradizione, di non volere rientrare nel suo Paese “in quanto sono estraneo alle vicende per le quali viene richiesta la mia consegna”.  (manuela d’alessandro)

Perché a Milano non c’è una nuova Tangentopoli

Lo dicono nei corridoi alcuni cronisti e  magistrati di più lunga memoria, lo ha sostenuto Luigi Di Maio. “A Milano è in corso una nuova tangentopoli”. Ma è proprio così?

Certo l’attività tra il quarto, il quinto e il sesto piano del Palazzo di Giustizia è febbrile. Gente che entra ed esce in continuazione dagli uffici dei 4 pubblici ministeri impegnati nell’inchiesta che ha portato all’arresto di due uomini di Forza Italia (Fabio Altitonante e Pietro Tatarella), alla richiesta di domiciliari per un altro (Diego Sozzani), all’iscrizione nel registro nel registro degli indagati dell’eurodeputata azzurra Lara Comi, del Presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, e del vertice della Confindustria lombarda, Marco Bonometti. Le notizie escono dalle stanze dei magistrati con una certa facilità, forse anche, come accadeva nel 1992, per creare un clima che invita chi sa di avere qualcosa da chiarire a presentarsi in Procura. In effetti, sono numerosi gli imprenditori che sono corsi a farsi ascoltare. Qualcuno, entrato come testimone, ne è uscito da indagato, ma certo con una posizione più ‘leggera’ che se non fosse andato di sua spontanea volontà a raccontare quel che sa. Addirittura c’è un nome in comune tra le carte ingiallite della vecchia tangentopoli e quelle fresche dell’inchiesta ‘Mensa dei poveri’, così definivano gli indagati il ristorante Berti di Milano, vera tappa per gourmand a dispetto dell’umile definizione e punto strategico, a due passi dalla  Regione, indicato come sede dei presunti intrallazzi. E’ quello dell’allora socialista Loris Zaffra, fedelissimo di Bettino Craxi, che però qui non è indagato ma solo citato in qualche intercettazione. 

Eppure gli albori della Tangentopoli che  travolse la nuova Repubblica  (25400 avvisi di garanzia, oltre 4500 arresti) appaiono diversi, sotto diversi aspetti, da quelli di questa indagine degli anni duemila a cui per contiguità territoriale può essere affiancata quella che ha portato la Procura di Busto Arsizio all’arresto di mezza giunta leghista di Legnano. 

E’ molto differente il contesto politico. Allora c’era un  sistema che stava finendo, era caduto il Muro di Berlino cancellando nelle urne la pregiudiziale contro i comunisti: gli elettori sapevano che avrebbero potuto non votare più il blocco dei ‘partiti di sistema’, come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Ora al governo c’è un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha fatto del grido ‘Onestà, onestà’ il suo motto e un altro, la Lega, il cui leader Matteo Salvini, non perde occasione per sottolineare di essere contro i ‘poteri forti’, pur essendo alla guida del Paese. 

Altro elemento peculiare della nuova indagine è che gli ipotizzati finanziamenti illeciti qui non sono destinati ai partiti, come accertò il pool Di Pietro – Borrelli – Colombo – Davigo, ma ai singoli politici, come Altitonante e Tatarella. Non ai segretari dei maggiori partiti con la complicità dei tesorieri come accadde negli anni Novanta. 

L’entità delle somme di denaro delle presunte corruzioni è davvero bassa. La prima tangente, quella da 7 milioni consegnata a Mario Chiesa nel suo ufficio del Pio Albergo Triulzio, era una cifra enorme rispetto alle poche  migliaia di euro a cui si fa riferimento nelle ipotesi accusatorie dei pm di Milano e Busto.  Emergono invece piccoli favori personali, come la sistemazione della sorella nel caso dell’assessore al commercio di Cassano Magnago (Varese) che avrebbe consegnato al politico di Forza Italia Gioacchino Caianiello una busta da 5mila euro, spiegando in un’intercettazione che si tratta della “decima parte” dell’incarico ottenuto dalla sorella in una società pubblica.

Ora, sempre stando agli schemi tracciati dalle Procure tutti ancora da accertare con sentenze, il movimento della corruzione va dal politico all’imprenditore e non viceversa. All’epoca di tangentopoli, la politica aveva ben altro nerbo e chi voleva accaparrarsi appalti e affari andava a cercare scorciatoie dai politici. Qui gli imprenditori sembrano impegnati a  ‘coltivarsi’ politici di non alto livello, come nel caso dell’arrestato Daniele D’Alfonso, che sarebbe arrivato a pagare le ferie a Tatarella (“Minchia, questo preleva come un toro”, si indigna in un’intercettazione mentre il forzista è in vacanza in Sardegna) per ricevere ‘scorciatoie’ nella sua attività nel settore delle bonifiche ambientali. 

In tangentopoli, a parte in Sicilia, la mafia non compariva negli episodi di corruzione contestati dalle procure. Qui abbiamo uno dei personaggi cardine dell’indagine, D’Alfonso, a cui viene addebitata l’aggravante mafiosa perché avrebbe messo a disposizione gli appalti vinti in modo illecito a uomini e mezzi del clan ‘ndranghetista dei Molluso. Anche se l’indagine, con l’assegnazione alla Dda, nasce da accertamenti sull’imprenditore Renato Napoli, che, citato in alcune informative di operazioni sulla ‘ndrangheta, in realtà non è mai stato condannato per mafia e giustamente lo rivendica attraverso il suo difensore.     

L’uso del carcere sembra più moderato. Delle 72 misure cautelari chieste a Milano ne sono state concesse dal gip solo 43 e molte sono ‘obblighi di firma alla polizia giudiziaria’.  Due sue tre degli arrestati a Legnano sono ai domiciliari. Tangentopoli è stata la stagione della prigione preventiva, con una lunga scia di suicidi che ha portato, a distanza di anni, a una profonda riflessione anche da parte di uno dei magistrati del pool Gherardo Colombo, che oggi porta nella scuole la sua idea di inutilità del carcere stimolando a una svolta culturale contro la corruzione e ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera: “La politica è meno colpevole del cittadino”. (manuela d’alessandro)

Sette udienze e 5 giudici cambiati, l’odissea di un operaio paralizzato

Sette udienze,  cinque giudici cambiati, un solo testimone sentito. Quello in corso davanti al Tribunale di Lodi dall’aprile del 2016 per un grave infortunio sul lavoro è un processo che racconta molto della lentezza della giustizia italiana.

I fatti risalgono al 5 maggio del 2014 quando A.C, all’epoca 41enne, titolare di una società che aveva ricevuto in subappalto i lavori per la ristrutturazione di un’abitazione a Melzo (vicino a Milano), scivola da un parapetto e si procura una lesione vertebrale che lo fa finire su una sedia a rotelle, senza possibilità di recupero.
La Procura di Lodi apre e chiude in soli sei mesi l’indagine a carico del rappresentante legale della ditta che ha dato i lavori in subappalto ad A.C., accusandolo di lesioni aggravate. E’ con l’inizio del processo che l’iter giudiziario si arena. Il pm emette una citazione diretta a giudizio (si salta, quindi, l’udienza preliminare) nel maggio del 2015, fissando la data d’inizio del processo nell’aprile del 2016, quasi un anno dopo.

La prima udienza viene subito rinviata al novembre del 2016 per un errore di notifica commesso dagli uffici giudiziari. Si riparte nel febbraio del 2017 con  fulmineo aggiornamento  a maggio per il cambio del giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede. Finalmente, nel dicembre del 2017 si arriva alla costituzione delle parti, atto che certifica di fatto l’inizio del processo, ma nulla più. Tutto rimandato quindi all‘ottobre del 2018 per l’esame dei testimoni che però non si riesce a svolgere perché muta ancora il giudice. Di nuovo in aula l’8 marzo del 2019 quando dovrebbero essere sentiti tre testimoni, ma, dopo avere ascoltato uno di loro, i buoni propositi del giudice svaniscono perché incombono, stipati  in fondo all’aula, una trentina di testimoni che attendono di essere sentiti nel procedimento fissato subito dopo. Si decide di dare a loro  la priorità e tutti convocati di nuovo, compresi i due testi non sentiti, al 27 novembre del 2019.  A.C., il lavoratore di origine albanese, aveva scelto, stando a quanto riferito dal suo legale, di provare a farsi risarcire nell’ambito di un giudizio penale e non civile pensando  che fosse la maniera più  veloce per ottenere il denaro. Quasi tutti i rinvii sono stati determinati dal cambio di giudice. Nei tribunali ‘piccoli’ accade spesso che i magistrati siano di passaggio, circostanza che non aiuta alla “ragionevole durata” del processo, diritto sancito dalla costituzione. (manuela d’alessandro)

La crisi dell’avvocato gratis, sempre di più i ‘no’ dei giudici

Se non muori di fame, pur dichiarando di essere nullatenente, non hai diritto all’avvocato gratis.  E’ questa la tendenza che si sta affermando in tribunale a Milano come ha denunciato per primo l’avvocato Corrado Limentani in un post su Facebook che ha raccolto tantissime adesioni da parte di altri rappresentanti del foro meneghino. Un tempo, racconta il legale, tra i massimi esperti sul tema a cui ha dedicato anche dei corsi di formazione, “il giudice chiedeva all’imputato che si dichiarava povero di portargli vicini di casa e amici che testimoniassero la sua effettiva indigenza per valutare se avesse diritto all’avvocato gratis”.

Verrebbe da sorridere pensando all’apparente criterio granitico previsto dalla legge attuale in base alla quale può approfittare di questo istituto di grande civiltà, nato per garantire a tutti la possibilità di difendersi, chi dichiari un reddito inferiore a 11mila euro.  Invece le cose sono molto più complicate nella realtà. 

Si moltiplicano le decisioni dei giudici che negano il beneficio anche per chi ha un reddito zero o inferiore alla soglia prevista dalla legge   con la motivazione che, vista l’oggettiva impossibilità di sopravvivenza da parte del richiedente e del proprio nucleo familiare alla luce di un reddito così esiguo come quello dichiarato, si presume che percepisca denaro non dichiarato a fini fiscali  in quanto provento di attività lavorativa in nero, o benefici di regalie o elargizioni di congiunti il cui ammontare consente il sostentamento. La dichiarazione  di nullatenenza, quindi, finisce con l’essere carta straccia e non consente di effettuare alcuna concreta valutazione sulla presenza dei requisiti per essere ammessi al gratuito patrocinio. Spesso, segnalano diversi avvocati, i giudici presuppongono, senza fare verifiche,  che gli imputati nascondano il loro reddito in quanto provento di reato prima ancora che ci sia una sentenza che li dichiari responsabili.

La tendenza, stando a quanto riferito da diversi legali, è cambiata da un anno mezzo a questa parte quando i giudici hanno cominciato a concedere meno il patrocinio a spese dello Stato. E’ chiaro che dietro ad alcune dichiarazioni di indigenza possono esserci degli abusi ma il punto, chiarisce Limentani, “è che i giudici non dispongono accertamenti per verificarlo, come sarebbe in loro potere”. Decidono ‘a prescindere‘ che, se una persona non muore di fame, non può essere così povera. Il che contrasta con una sentenza con cui la Cassazione, nel 2017, stabiliva che “la semplice affermazione dell’assenza totale di reddito non è affatto di per sé un potenziale inganno (com’era stato ritenuto nel caso della donna che poi ha vinto il ricorso alla Suprema Corte, ndr)” e il giudice deve attivare i suoi “poteri di accertamento”, come per esempio sollecitare l’intervento della Guardia di Finanza, per valutare se l’imputato stia mentendo sulle sue condizioni economiche solo per non pagare la parcella.

In un caso denunciato dall’avvocato Francesca Beretta, “a una donna imputata per maltrattamenti che non riceve nessun aiuto economico dai familiari è stato chiesto di dimostrare di non avere redditi da attività illecita. Nel caso li avessi – si chiede la legale – mi devo autodenunciare?”. “Siamo stanchi – afferma Beretta – viene negato un diritto a chi lo avrebbe e noi dobbiamo scegliere tra un processo gratis e rinunciare al cliente per non lavorare gratis”. Inoltre, “quando gli imputati sono irreperibili, i giudici ti costringono a produrre la dichiarazione consolare relativa ai redditi prodotti all’estero ma i consolati non rispondono mai. Sto attendendo una risposta dal 18 settembre del 2018 dal consolato del Marocco. C’è di più: molti giudici vogliono che contattiamo l’Ufficio immigrazione della Questura che, come il consolato, non risponde mai, nemmeno su sollecito”.

Interessante anche l’analisi statistica dei dati raccolti dall’Ordine degli Avvocati. In ambito civile, nel 2018 sono state 4618 le istanze di patrocinio dello Stato valutate in via preliminare dal consiglio dell’organo di rappresentanza dei legali presentate da persone richiedenti la protezione internazionale, sulla cui ammissione poi il giudice ha la parola definitiva. Circa il 50% delle richieste totali nel civile con una liquidazione media per ciascun legale  di 800 – 900 euro a procedimento (il dato non è ufficiale ma riferito da fonti qualificate). Un numero che cresce sempre di più. Ogni anno, lo Stato mette a disposizione un budget per ciascun Tribunale (a Milano 15 milioni di euro) per varie spese di giustizia, tra cui anche una somma da destinare all’istituto dell ‘avvocato gratis’. Quando il capitolato di spesa si esaurisce, le note vengono comunque liquidate dai giudici agli avvocati che però non vengono pagati perché mancano le risorse. “Come Ordine – spiega l’avvocato e consigliere Andrea Del Corno – il problema è quello delle disponibilità finanziarie per liquidare le note”. Appare evidente che le somme stanziate dallo Stato non sono sufficienti, anche alla luce dell’incremento delle domande dei migranti, il cui diritto all’avvocato è indiscutibile quanto quello per gli indigenti italiani. (manuela d’alessandro)