giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Il sogno del calciatore della Mauritania di giocare in Nepal

Gli scenari calcistici in cui è ambientata questa storia sono inediti, eppure è proprio il sogno della gloria attraverso un pallone che avrebbe spinto un aspirante campione che vive in Mauritania a rivolgersi a un ‘procuratore’ senegalese per andare a giocare in Nepal.

Gli ha pagato una somma convertibile dalla moneta locale in 4500 euro affinché organizzasse per lui un viaggio  nel paese dalle alte vette “per essere allenato al gioco del calcio”.  Il calciatore si sarebbe poi ritrovato - questa è l’ipotesi che si legge nel capo d’imputazione firmato dalla Procura della Mauritania -  “per sei mesi senza fare nulla“  in Nepal  “fino a quando non ha capito di essere stato vittima di un truffatore che lo ha messo in pericolo durante questo viaggio”.

A quel punto, ha  sporto denuncia alla giustizia del suo Paese lamentando di essere stato vittima di una truffa, reato punito con 5 anni di carcere in Mauritania. La sesta camera investigativa della Corte della Regione di Nouakchott ha chiesto l’arresto per il 33enne senegalese che, in seguito, si è saputo avere lasciato il suo Paese e trovarsi a Milano dove è stato catturato dai carabinieri. Spezzato il sogno del ragazzo mauritano, la questione è ora il trattamento che viene riservato al  procuratore.  In carcere, spiegano i suoi avvocati Mauro Straini ed Eugenio Losco, le visite mediche hanno fatto emergere una “severa cardiopatia” da cui è affetto che parrebbe incompatibile con la detenzione. Ma il tema principale è che  il  presunto  agente di campioni rischia di finire in un carcere della Mauritania, uno Stato dove, osservano i legali, c’è il rischio che venga torturato come denunciano dai dossier di Amnesty International. Lui ha già dichiarato ai magistrati milanesi, chiamati a valutare la richiesta di estradizione, di non volere rientrare nel suo Paese “in quanto sono estraneo alle vicende per le quali viene richiesta la mia consegna”.  (manuela d’alessandro)

Perché a Milano non c’è una nuova Tangentopoli

Lo dicono nei corridoi alcuni cronisti e  magistrati di più lunga memoria, lo ha sostenuto Luigi Di Maio. “A Milano è in corso una nuova tangentopoli”. Ma è proprio così?

Certo l’attività tra il quarto, il quinto e il sesto piano del Palazzo di Giustizia è febbrile. Gente che entra ed esce in continuazione dagli uffici dei 4 pubblici ministeri impegnati nell’inchiesta che ha portato all’arresto di due uomini di Forza Italia (Fabio Altitonante e Pietro Tatarella), alla richiesta di domiciliari per un altro (Diego Sozzani), all’iscrizione nel registro nel registro degli indagati dell’eurodeputata azzurra Lara Comi, del Presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, e del vertice della Confindustria lombarda, Marco Bonometti. Le notizie escono dalle stanze dei magistrati con una certa facilità, forse anche, come accadeva nel 1992, per creare un clima che invita chi sa di avere qualcosa da chiarire a presentarsi in Procura. In effetti, sono numerosi gli imprenditori che sono corsi a farsi ascoltare. Qualcuno, entrato come testimone, ne è uscito da indagato, ma certo con una posizione più ‘leggera’ che se non fosse andato di sua spontanea volontà a raccontare quel che sa. Addirittura c’è un nome in comune tra le carte ingiallite della vecchia tangentopoli e quelle fresche dell’inchiesta ‘Mensa dei poveri’, così definivano gli indagati il ristorante Berti di Milano, vera tappa per gourmand a dispetto dell’umile definizione e punto strategico, a due passi dalla  Regione, indicato come sede dei presunti intrallazzi. E’ quello dell’allora socialista Loris Zaffra, fedelissimo di Bettino Craxi, che però qui non è indagato ma solo citato in qualche intercettazione. 

Eppure gli albori della Tangentopoli che  travolse la nuova Repubblica  (25400 avvisi di garanzia, oltre 4500 arresti) appaiono diversi, sotto diversi aspetti, da quelli di questa indagine degli anni duemila a cui per contiguità territoriale può essere affiancata quella che ha portato la Procura di Busto Arsizio all’arresto di mezza giunta leghista di Legnano. 

E’ molto differente il contesto politico. Allora c’era un  sistema che stava finendo, era caduto il Muro di Berlino cancellando nelle urne la pregiudiziale contro i comunisti: gli elettori sapevano che avrebbero potuto non votare più il blocco dei ‘partiti di sistema’, come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Ora al governo c’è un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha fatto del grido ‘Onestà, onestà’ il suo motto e un altro, la Lega, il cui leader Matteo Salvini, non perde occasione per sottolineare di essere contro i ‘poteri forti’, pur essendo alla guida del Paese. 

Altro elemento peculiare della nuova indagine è che gli ipotizzati finanziamenti illeciti qui non sono destinati ai partiti, come accertò il pool Di Pietro – Borrelli – Colombo – Davigo, ma ai singoli politici, come Altitonante e Tatarella. Non ai segretari dei maggiori partiti con la complicità dei tesorieri come accadde negli anni Novanta. 

L’entità delle somme di denaro delle presunte corruzioni è davvero bassa. La prima tangente, quella da 7 milioni consegnata a Mario Chiesa nel suo ufficio del Pio Albergo Triulzio, era una cifra enorme rispetto alle poche  migliaia di euro a cui si fa riferimento nelle ipotesi accusatorie dei pm di Milano e Busto.  Emergono invece piccoli favori personali, come la sistemazione della sorella nel caso dell’assessore al commercio di Cassano Magnago (Varese) che avrebbe consegnato al politico di Forza Italia Gioacchino Caianiello una busta da 5mila euro, spiegando in un’intercettazione che si tratta della “decima parte” dell’incarico ottenuto dalla sorella in una società pubblica.

Ora, sempre stando agli schemi tracciati dalle Procure tutti ancora da accertare con sentenze, il movimento della corruzione va dal politico all’imprenditore e non viceversa. All’epoca di tangentopoli, la politica aveva ben altro nerbo e chi voleva accaparrarsi appalti e affari andava a cercare scorciatoie dai politici. Qui gli imprenditori sembrano impegnati a  ‘coltivarsi’ politici di non alto livello, come nel caso dell’arrestato Daniele D’Alfonso, che sarebbe arrivato a pagare le ferie a Tatarella (“Minchia, questo preleva come un toro”, si indigna in un’intercettazione mentre il forzista è in vacanza in Sardegna) per ricevere ‘scorciatoie’ nella sua attività nel settore delle bonifiche ambientali. 

In tangentopoli, a parte in Sicilia, la mafia non compariva negli episodi di corruzione contestati dalle procure. Qui abbiamo uno dei personaggi cardine dell’indagine, D’Alfonso, a cui viene addebitata l’aggravante mafiosa perché avrebbe messo a disposizione gli appalti vinti in modo illecito a uomini e mezzi del clan ‘ndranghetista dei Molluso. Anche se l’indagine, con l’assegnazione alla Dda, nasce da accertamenti sull’imprenditore Renato Napoli, che, citato in alcune informative di operazioni sulla ‘ndrangheta, in realtà non è mai stato condannato per mafia e giustamente lo rivendica attraverso il suo difensore.     

L’uso del carcere sembra più moderato. Delle 72 misure cautelari chieste a Milano ne sono state concesse dal gip solo 43 e molte sono ‘obblighi di firma alla polizia giudiziaria’.  Due sue tre degli arrestati a Legnano sono ai domiciliari. Tangentopoli è stata la stagione della prigione preventiva, con una lunga scia di suicidi che ha portato, a distanza di anni, a una profonda riflessione anche da parte di uno dei magistrati del pool Gherardo Colombo, che oggi porta nella scuole la sua idea di inutilità del carcere stimolando a una svolta culturale contro la corruzione e ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera: “La politica è meno colpevole del cittadino”. (manuela d’alessandro)

Sette udienze e 5 giudici cambiati, l’odissea di un operaio paralizzato

Sette udienze,  cinque giudici cambiati, un solo testimone sentito. Quello in corso davanti al Tribunale di Lodi dall’aprile del 2016 per un grave infortunio sul lavoro è un processo che racconta molto della lentezza della giustizia italiana.

I fatti risalgono al 5 maggio del 2014 quando A.C, all’epoca 41enne, titolare di una società che aveva ricevuto in subappalto i lavori per la ristrutturazione di un’abitazione a Melzo (vicino a Milano), scivola da un parapetto e si procura una lesione vertebrale che lo fa finire su una sedia a rotelle, senza possibilità di recupero.
La Procura di Lodi apre e chiude in soli sei mesi l’indagine a carico del rappresentante legale della ditta che ha dato i lavori in subappalto ad A.C., accusandolo di lesioni aggravate. E’ con l’inizio del processo che l’iter giudiziario si arena. Il pm emette una citazione diretta a giudizio (si salta, quindi, l’udienza preliminare) nel maggio del 2015, fissando la data d’inizio del processo nell’aprile del 2016, quasi un anno dopo.

La prima udienza viene subito rinviata al novembre del 2016 per un errore di notifica commesso dagli uffici giudiziari. Si riparte nel febbraio del 2017 con  fulmineo aggiornamento  a maggio per il cambio del giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede. Finalmente, nel dicembre del 2017 si arriva alla costituzione delle parti, atto che certifica di fatto l’inizio del processo, ma nulla più. Tutto rimandato quindi all‘ottobre del 2018 per l’esame dei testimoni che però non si riesce a svolgere perché muta ancora il giudice. Di nuovo in aula l’8 marzo del 2019 quando dovrebbero essere sentiti tre testimoni, ma, dopo avere ascoltato uno di loro, i buoni propositi del giudice svaniscono perché incombono, stipati  in fondo all’aula, una trentina di testimoni che attendono di essere sentiti nel procedimento fissato subito dopo. Si decide di dare a loro  la priorità e tutti convocati di nuovo, compresi i due testi non sentiti, al 27 novembre del 2019.  A.C., il lavoratore di origine albanese, aveva scelto, stando a quanto riferito dal suo legale, di provare a farsi risarcire nell’ambito di un giudizio penale e non civile pensando  che fosse la maniera più  veloce per ottenere il denaro. Quasi tutti i rinvii sono stati determinati dal cambio di giudice. Nei tribunali ‘piccoli’ accade spesso che i magistrati siano di passaggio, circostanza che non aiuta alla “ragionevole durata” del processo, diritto sancito dalla costituzione. (manuela d’alessandro)

La crisi dell’avvocato gratis, sempre di più i ‘no’ dei giudici

Se non muori di fame, pur dichiarando di essere nullatenente, non hai diritto all’avvocato gratis.  E’ questa la tendenza che si sta affermando in tribunale a Milano come ha denunciato per primo l’avvocato Corrado Limentani in un post su Facebook che ha raccolto tantissime adesioni da parte di altri rappresentanti del foro meneghino. Un tempo, racconta il legale, tra i massimi esperti sul tema a cui ha dedicato anche dei corsi di formazione, “il giudice chiedeva all’imputato che si dichiarava povero di portargli vicini di casa e amici che testimoniassero la sua effettiva indigenza per valutare se avesse diritto all’avvocato gratis”.

Verrebbe da sorridere pensando all’apparente criterio granitico previsto dalla legge attuale in base alla quale può approfittare di questo istituto di grande civiltà, nato per garantire a tutti la possibilità di difendersi, chi dichiari un reddito inferiore a 11mila euro.  Invece le cose sono molto più complicate nella realtà. 

Si moltiplicano le decisioni dei giudici che negano il beneficio anche per chi ha un reddito zero o inferiore alla soglia prevista dalla legge   con la motivazione che, vista l’oggettiva impossibilità di sopravvivenza da parte del richiedente e del proprio nucleo familiare alla luce di un reddito così esiguo come quello dichiarato, si presume che percepisca denaro non dichiarato a fini fiscali  in quanto provento di attività lavorativa in nero, o benefici di regalie o elargizioni di congiunti il cui ammontare consente il sostentamento. La dichiarazione  di nullatenenza, quindi, finisce con l’essere carta straccia e non consente di effettuare alcuna concreta valutazione sulla presenza dei requisiti per essere ammessi al gratuito patrocinio. Spesso, segnalano diversi avvocati, i giudici presuppongono, senza fare verifiche,  che gli imputati nascondano il loro reddito in quanto provento di reato prima ancora che ci sia una sentenza che li dichiari responsabili.

La tendenza, stando a quanto riferito da diversi legali, è cambiata da un anno mezzo a questa parte quando i giudici hanno cominciato a concedere meno il patrocinio a spese dello Stato. E’ chiaro che dietro ad alcune dichiarazioni di indigenza possono esserci degli abusi ma il punto, chiarisce Limentani, “è che i giudici non dispongono accertamenti per verificarlo, come sarebbe in loro potere”. Decidono ‘a prescindere‘ che, se una persona non muore di fame, non può essere così povera. Il che contrasta con una sentenza con cui la Cassazione, nel 2017, stabiliva che “la semplice affermazione dell’assenza totale di reddito non è affatto di per sé un potenziale inganno (com’era stato ritenuto nel caso della donna che poi ha vinto il ricorso alla Suprema Corte, ndr)” e il giudice deve attivare i suoi “poteri di accertamento”, come per esempio sollecitare l’intervento della Guardia di Finanza, per valutare se l’imputato stia mentendo sulle sue condizioni economiche solo per non pagare la parcella.

In un caso denunciato dall’avvocato Francesca Beretta, “a una donna imputata per maltrattamenti che non riceve nessun aiuto economico dai familiari è stato chiesto di dimostrare di non avere redditi da attività illecita. Nel caso li avessi – si chiede la legale – mi devo autodenunciare?”. “Siamo stanchi – afferma Beretta – viene negato un diritto a chi lo avrebbe e noi dobbiamo scegliere tra un processo gratis e rinunciare al cliente per non lavorare gratis”. Inoltre, “quando gli imputati sono irreperibili, i giudici ti costringono a produrre la dichiarazione consolare relativa ai redditi prodotti all’estero ma i consolati non rispondono mai. Sto attendendo una risposta dal 18 settembre del 2018 dal consolato del Marocco. C’è di più: molti giudici vogliono che contattiamo l’Ufficio immigrazione della Questura che, come il consolato, non risponde mai, nemmeno su sollecito”.

Interessante anche l’analisi statistica dei dati raccolti dall’Ordine degli Avvocati. In ambito civile, nel 2018 sono state 4618 le istanze di patrocinio dello Stato valutate in via preliminare dal consiglio dell’organo di rappresentanza dei legali presentate da persone richiedenti la protezione internazionale, sulla cui ammissione poi il giudice ha la parola definitiva. Circa il 50% delle richieste totali nel civile con una liquidazione media per ciascun legale  di 800 – 900 euro a procedimento (il dato non è ufficiale ma riferito da fonti qualificate). Un numero che cresce sempre di più. Ogni anno, lo Stato mette a disposizione un budget per ciascun Tribunale (a Milano 15 milioni di euro) per varie spese di giustizia, tra cui anche una somma da destinare all’istituto dell ‘avvocato gratis’. Quando il capitolato di spesa si esaurisce, le note vengono comunque liquidate dai giudici agli avvocati che però non vengono pagati perché mancano le risorse. “Come Ordine – spiega l’avvocato e consigliere Andrea Del Corno – il problema è quello delle disponibilità finanziarie per liquidare le note”. Appare evidente che le somme stanziate dallo Stato non sono sufficienti, anche alla luce dell’incremento delle domande dei migranti, il cui diritto all’avvocato è indiscutibile quanto quello per gli indigenti italiani. (manuela d’alessandro)

Giulia Ligresti, innocente dopo 6 anni da colpevole

Ci sono casi  in cui la fallibilità della giustizia diventa eclatante. Per  6 anni Giulia Ligresti, figlia del costruttore Salvatore, è stata colpevole con sentenza definitiva, quella con cui un giudice di Torino ha accolto la sua richiesta di patteggiare 2 anni e otto mesi nell’ambito del crac di Fonsai, la compagnia assicurativa di famiglia. Ora la corte d’appello di Milano ha revocato quel verdetto, cancellandolo, perché il 29 ottobre scorso Paolo Ligresti, suo fratello, è stato assolto per gli stessi fatti dalla Cassazione. Un innocente e una colpevole per le stesse accuse non possono essere tollerati nel nostro ordinamento e ai magistrati non è restato che prenderne atto restituendo a Giulia una fedina penale cristallina.

Non è l’unica assurdità in  questo storia perché il 19 ottobre, dieci giorni prima dell’epilogo favorevole a suo fratello, Giulia era finita in carcere diversi anni  dopo la sentenza per quella prassi dei tribunali di Sorveglianza a metterci secoli a fissare le udienze. Nonostante potesse in teoria avere accesse a misure alternative alla detenzione, il giudice di Torino aveva respinto l’istanza di messa alla prova presentata dai suoi legali, Gian Luigi Tizzoni e Davide Sangiorgio. Un mese dopo, appurato il contrasto della sua sentenza con quella favorevole a Paolo, aveva potuto lasciare San Vittore.

“La sentenza di Milano – commentano i suoi avvocati – restituisce piena dignità a Giulia Ligresti, bersaglio di un’ingiusta carcerazione e ristabilisce la verità su un’operazione finanziaria la cui reale storia inizia finalmente a essere scritta. Non ci fu nessun crac e nessuna responsabilità da parte della famiglia”.  Giulia era stata arrestata insieme alla sorella Jonella e al padre il 17 luglio 2013 con l’accusa di aggiotaggio e falso in bilancio. In seguito a una perizia medica, che aveva accertato la sua profonda prostrazione psicologica, aveva lasciato il carcere un mese dopo. Ora potrà chiedere un risarcimento per ingiusta detenzione anche se lei, nel giorno della vittoria, preferisce non infierire: “Ho sempre avuto fiducia nella giustizia senza smettere di lottare, nemmeno quando sono finita in carcere da innocente”. (manuela d’alessandro)