giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La ‘storica’ vittoria contro l’autovelox killer di viale Fulvio Testi

E’ la strada incubo  per gli automobilisti milanesi,  presidiata da due autovelox infallibili che trafiggono chi accelera oltre i 50 chilometri orari, non trattenendo l’impulso di lasciarsi andare in quella che appare una ‘prateria’ verso il cuore della città. Le multe sono ‘virali’, quasi impossibile farsele cancellare nonostante le proteste di massa.  A rendere l’entità della questione il dato – riportato dal quotidiano ‘Il Giorno’ – che nei primi 6 mesi del 2018 gli eccessi di velocità in questa via avevano portato nelle casse comunali 7,6 milioni di euro.   Questa volta però, una siepe che ingentilisce le traiettorie di cemento ha messo al tappeto i due ‘guardiani’ della velocità.  Il giudice di pace Cinzia Pandiani ha annullato il 23 dicembre scorso una multa inflitta all’avvocato Enrico Giarda, difeso per l’occasione dalla collega di studio Pia D’Andrea perché “le riproduzioni fotografiche relative al tempo dell’accertata infrazione mostrano la segnaletica stradale verticale coperta dalle fronde e dalle foglie dei rigogliosi cespugli posti al limite della carreggiata”. Una esuberante manifestazione ‘vegetale’ che rendeva “non visibile il segnale con l’avviso di controllo elettronico della velocità”. Il Comune ha provato a difendersi consegnando alla giudice delle foto in cui si vede che “siepi risultavamo regolate e la segnaletica era ben visibile” ma non ha precisato a quando risalissero quelle immagini. Nessun dubbio quindi che il verbale datato 19 novembre 2018 andasse stracciato.  Tantissimi i ricorsi respinti negli ultimi anni contro il contestatissimo rilevatore di velocità. Per dire, il giorno in cui l’avvocato Giarda si è visto annullare la multa, 29 ricorsi erano stati respinti, il suo l’unico accolto. (manuela d’alessandro)

La vera sconfitta della giustizia italiana è il Davigo pensiero

Chiunque mi conosce sa che non sono mai stato uno strenuo difensore della categoria professionale cui appartengo. Dopo oltre 30 anni che faccio questo mestiere ho imparato ad apprezzare il valore delle singole persone, indipendentemente dalla funzione che svolgono, credo forse di avere più amici tra i magistrati che tra i colleghi, perché continuo a pensare che quello che quotidianamente facciamo in tribunale, ognuno nei rispettivi ruoli, sia appunto un mestiere, e non una missione che ci divide in due “sette” esistenziali, inespugnabili e contrapposte.

Le recenti (ed ennesime) esternazioni gravemente offensive del dottor Davigo sulla figura dell’avvocato, con tutto quello che ne è conseguito a livello di “tifo”, non sono altro che il prodotto finale di una cultura becera che da troppi anni è stata fatta passare impunemente presso l’opinione pubblica e per la quale siamo un po’ tutti colpevoli.

Quella che per anni ha descritto ai non addetti ai lavori gli avvocati come dei furbastri che con metodi degni del peggior “azzeccagarbugli” lucrano sul crimine impunito contrastando con ogni “cavillo” il serio lavoro dei magistrati, unico baluardo impegnato a salvare il paese da una pletora di ladri.

Basta leggere le principali argomentazioni che hanno sorretto la recente approvazione della legge sulla prescrizione, dove il principale accusato era il legale, reo di interporre impugnazioni (previste per legge), al solo fine di consentire al proprio cliente di farla franca a discapito delle vittime dei peggiori misfatti.

O le modalità con le quali vengono quotidianamente date sui media le notizie di arresti preventivi o condanne provvisorie, in raffronto a quelle che attestano assoluzioni o scarcerazioni.

Ogni qualvolta un pm, che fino a prova contraria dovrebbe essere una “parte” processuale al pari del difensore, arresta chi ritiene sospetto di avere commesso un delitto, i titoli parlano di “killer catturato”, “banda sgominata”, “sistema di malaffare stroncato” e “decapitata la centrale del crimine”, mentre se per ipotesi un magistrato non riesce a scrivere in oltre due anni le ragioni per le quali ha appioppato anni di galera a un cittadino (anche al fine di consentirgli una legale rivalutazione della propria posizione), si grida allo scandalo per il mafioso o pedofilo (anche se ovviamente per la legge tale ancora non è), uscito vergognosamente di galera per scadenza termini.

Se una gigantesca costruzione accusatoria di una Procura frana miseramente al successivo vaglio del giudicante tutte quelle pagine di giornale che per mesi, e spesso anni, avevano sbattuto il mostro in prima pagina, ne riferiscono con malcelata compostezza preannunciando successivi gradi di giudizio.

Il risultato è che ormai per la gran parte degli italiani sarebbe auspicabile che i processi venissero fatti senza l’intralcio degli avvocati e che i codici di procedura si limitassero ad indicare ai magistrati il modo più spiccio per sbattere in galera l’arrestato di turno, perché, come ha sostenuto anche il citato dottor Davigo, gli imputati si dividono in due categorie: quelli che vengono condannati e quelli che riescono a cavarsela per mancanza di prove.

La vera sconfitta dell’attuale sistema penale italiano è questa, per mio conto. L’avere inculcato nei cittadini l’idea che il processo è una farsa se non si conclude con la condanna e che il lavoro di chi è chiamato a fare rispettare le leggi nell’interesse del proprio cliente sia non solo inutile, ma addirittura dannoso per la collettività.

Per questo avrei gradito leggere qualche intervento in più da parte dei magistrati che sanno benissimo che la loro delicata funzione trova un senso solo se continua ad essere tutelato al massimo il diritto di difesa, perché il giorno che dovessero finire per “farsi il processo da soli”, anche loro avranno cessato di esistere.

Avvocato Davide Steccanella

La forza di Cappato che resta in aula dopo la morte della madre

La notizia arriva nel giorno in cui la sua battaglia si compie. “Tua mamma è morta”. Marco Cappato stava ascoltando i suoi avvocati chiedere l’assoluzione nel processo che lo vede accusato di ‘aiuto al suicidio’ per avere accompagnato Fabiano Antoniani in una clinica svizzera. Si alza, il volto stravolto da uno dei dolori più taglienti. Esce dall’aula circondato dal pudore delle telecamere e dei taccuini che, per una volta, si abbassano. Piange abbracciato alla moglie Simona, poi con gli occhi rossi torna a sedersi al suo posto, nella stanza gremita dell’Assise, diventata all’improvviso silenziosa attorno a una sofferenza che tutti sono in grado di riconoscere. Il processo riprende con la sua liturgia. Parola ai legali e spazio a eventuali dichiarazioni dell’imputato. Cappato è di nuovo in piedi, la prima voce esce bassa, poi fila via sicura: “In piena sintonia e assonanza con gli argomenti che avete prospettato  rimettendovi alla Corte Costituzionale, voglio dire che ho aiutato Fabiano a morire per una motivazione di libertà e di diritto all’autodeterminazione individuale, a determinate condizioni”. Ricorda le donne e gli uomini che ha portato in Svizzera, sottolinea che finora il diritto a morire quando la vita non è più ritenuta dignitosa è per pochi. Per chi ha denaro e forza di affrontare un viaggio lontano dalle sue radici. Prima che i giudici si chiudano in camera di consiglio lascia il Palazzo di Giustizia, ricevendo l’affetto di chi resta ad ascoltare la sua vittoria e quella di Fabiano, che diventò suo amico per sempre nella strenua ricerca di pace. (manuela d’alessandro)       

“Mi sedetti su un gradino della banca e cambiò la mia vita”

Tutto per Achille Serra, poi Questore di Milano, Prefetto di Palermo, Firenze, Roma e senatore della Repubblica, inizia il 12 dicembre 1969 quando il capufficio Ernesto Panvini decide di mandarlo in piazza Fontana “per imparare”, mettendosi alla prova con quella che sembrava un’attività di routine. “Avevo 27 anni, dopo la laurea in Legge e il concorso sono arrivato a Milano, ero un apprendista commissario – racconta – mi avevano messo alla centrale operativa per fare esperienza sul campo. Arrivò al 113 una telefonata anonima in cui si riferiva che era scoppiato un tubo del gas e c’erano uno o due feriti. Panvini annunciò  che toccava a me perché era una buona occasione per apprendere il mestiere.  Appena giunto in piazza Fontana con altri due colleghi a bordo della volante ‘in sirena’, mi resi subito conto che non era affatto una cosa da poco”.

Le immagini e gli odori sono nitidi nel suo ricordo: “Vidi che tutti i vetri dei palazzi circostanti erano frantumati e avvertii un odore di carne bruciata. Quando entrai, mi si spalancò uno ‘spettacolo’ che, ancora oggi, a 50 anni di distanza, ho negli occhi: c’era un uomo vicino all’ingresso tagliato in due, mezzo tronco e mezzo sangue. In mezzo a un fumo indescrivibile e alle urla dei feriti, scorsi alcuni arti staccati dai corpi”. In quel momento, il giovane poliziotto capì che doveva avvertire i suoi superiori: “Mi attaccai alla radio e invocai almeno un centinaio di ambulanze, ma dalla centrale operativa mi presero per pazzo. Mi dissero: ‘Sei giovane, non ti preoccupare, vedrai che si risolve tutto, adesso mandiamo il funzionario anziano’. Rientrai e la prima cosa che volli fare, siccome c’era tantissimo fumo, fu quella di aiutare i feriti che non riuscivano a uscire. Era molto difficile perché al centro della sala c’era un buco enorme, una voragine. Si sentiva un penetrante odore di mandorla perché la bomba aveva lasciato questa sensazione olfattiva”.  La scena si era animata all’improvviso e con violenza: “Eravamo vicini al Natale e i milanesi andavano fuori per le spese. Appena sentito il botto, la gente si riversò su piazza Fontana e arrivarono di corsa a sirene spiegate le ambulanze, le auto dei vigili del fuoco, dei carabinieri, della polizia”. In quel momento la vita di Serra prese una direzione non prevista, senza possibilità di ritorno. “Dopo avere fatto tutto che quello che potevo, mi sedetti sconvolto sul gradino della banca insieme a Panvini. Avevo preso da poco la decisione che, dopo l’esperienza milanese, sarei andato a Roma per diventare avvocato. Ma in quell’istante, in piazza Fontana, fui certo che sarebbe stato molto più opportuno restare in polizia per difendere la sicurezza e la legalità”. Dei funerali Serra ricorda “un’intera città che piangeva e l’omelia del cardinale Colombo. Non scorderò mai che, quando arrivò in piazza Fontana, si inginocchiò sul cadavere ‘mezzo uomo e mezzo sangue’ e lo benedisse, come poi fece con tutti gli altri”. Tra i sentimenti ancora vivi a 50 anni di distanza “c’è il rancore per quel governo che non trasferì il mio carissimo amico Calabresi, che, dopo la la morte di Pinelli, subì un ‘omicidio quotidiano’ e non gli diede la scorta. Quello era il momento in cui si chiedeva il disarmo della polizia. Un periodo terribile a cui guardo ancora con amarezza e stupore”. La giustizia ha stabilito che gli autori della strage appartenevano al gruppo di estrema destra di Ordine Nuovo. E’ una risposta sufficiente per Serra? “”Preferisco non rispondere, io ho una mia idea su quello che accadde e la tengo per me”. (manuela d’alessandro)

 

‘Gli sfiorati’, Steccanella sgretola le certezze di una generazione

 


“Appartengo alla generazione di quelli che hanno mancato gli appuntamenti più significativi. Troppo piccolo per vivere da protagonista gli anni Sessanta e Settanta e troppo vecchio per godere degli stupefacenti sviluppi tecnologici del millennio”.

Davide Steccanella è uno sfiorato, appena lambito dalle contestazioni giovanili e dal furore omicida di quella stagione che traboccava di sangue e sogni. Figlio della levigata borghesia milanese, si increspa da ragazzo per il calcio, il divertimento  e la musica rock, tiene a distanza siderale la politica e diventa avvocato con l’ossessione di “cercare il punto”, come gli insegna il suo maestro in toga Ludovico Isolabella.  Finché, durante una vacanza in Spagna, ormai professionista affermato e uomo che, direbbe Montale, “l’ombra sua non cura”, divora un libro con Aldo Moro in copertina e si infligge delle domande su quelle che per lui erano state fino a quel momento verità intangibili, “il pensiero di ogni buon democratico che legge Repubblica, esalta la legalità e a ogni elezione vota obbediente il nominativo indicatogli dal centrosinistra riformista”.

Da questo momento è come se il ragazzo distratto negli anni in cui tutto gli arrivava come calore di fiamma lontana  abbia una seconda possibilità per gettarsi nell’incendio di quella che rappresentò al tempo stesso primavera e tomba di una generazione. Con un’indagine storica alla Javier Cercas, l’io narrante compie un viaggio nei luoghi della sua città toccati dagli avvenimenti di quegli anni, quasi avesse la necessità di tastare le pietre e calpestare passi antichi per capire, e nel cuore di chi, amici e non, anche colpevoli per sentenza definitiva, ha vissuto e conosciuto quello che lui ha ignorato.

“Chi oggi si preoccuperebbe di manifestare per l’Angola?”, è la riflessione che porta Steccanella a misurarsi con la voragine tra la generazione pronta a morire per chi viveva in emisferi remoti e quella degli sfiorati, aggrappati a un individualismo diventato edonista negli anni Ottanta, marchiati dalla fuga nella droga.

“Nel 1968 Milano era una città molto diversa da quella di oggi. Era meno colorata ma sembrava più in rilievo perché era più mossa e meno plastico da modellino. Le persone che andavano a piedi sembravano più visibili e tangibili e si sparpagliavano maggiormente rispetto a quella massa informe che oggi si vede marciare, quasi compatta, verso una meta precisa a orari prefissati”.

Con uno sguardo candido e puntiglioso, nutrito da letture a perdifiato, Steccanella fa alzare “l’onda rimossa” di quegli anni sommergendo le comuni certezze: “Avevo scoperto che la stragrande maggioranza dei brigatisti  erano operai e, in gran parte, emigrati dal sud o comunque dei proletari. Questo significava che, contrariamente a quanto aveva sempre raccontato il PCI, non era vero che le Brigate Rosse fossero ‘nemiche degli operai’ (…) Dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse e non erano affatto un fenomeno momentaneo”. A permettergli di centrare finalmente “il punto”, dopo una spasmodica ricerca, sono le parole dell’’Irriducibile’, ormai vecchio e malato, capaci di restituire a tutto il libro il respiro di un pezzo del Novecento che attraversò come una febbre incurabile  diversi angoli del pianeta, non solo Milano, non solo l’Italia. E solo nel volto di un uomo prossimo alla fine, Steccanella cessa di essere uno sfiorato e viene posseduto, da ora e per sempre, da un sentimento assoluto di appartenenza. (manuela d’alesssandro)

Gli sfiorati di Davide Steccanelli, edizioni Bietti, pagg. 214, disponibile alla libreria Accademia di corso di Porta Vittoria e nelle librerie Feltrinelli. Il romanzo ha vinto il premio ‘Avvocati e Autori’ della Lombardia.