giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La mafia a 3 teste non c’è. Da pm buco nell’acqua

Probabilmente si tratta del flop più clamoroso di chi indaga sulle mafie. La procura di Milano aveva chiesto 153 arresti in carcere ipotizzando una collaborazione tra Cosa Nostra, camorra e ‘Ndrangheta nel capoluogo lombardo. Il giudice delle indagini preliminari ne ha firmato solo 11 spiegando che il reato associativo non c’è e inoltre mancano le prove sulle responsabilità di un cugino di Matteo Messina Denaro le cui generalità evidentemente dovevano servire per fare titolo sui giornali e sui tg.

L’ipotesi della procura era anche scenografica, spettacolare. I nomi di tre diverse organizzazioni nel corso di riunioni al vertice tra il marzo 2020 e il gennaio dell’anno successivo avrebbero creato un’alleanza in cui le singole componenti davano vita a un’unica associazione all’interno della quale tutto apportavano capitali, mezzi mobili e immobili risorse anche umane, reti di relazione. L’organismo sempre secondo l’accusa avrebbe trovato nell’imprenditore Gioacchino Amico, arrestato, il suo fulcro nell’area milanese, nei pressi di Busto Arsizio e a Magenta.

Era stato ipotizzato un gruppo che nel rispetto dei rapporti con le cosche di origine avrebbe avuto una propria organizzazione, un proprio autonomo programma, di regole e ritorsioni per chi le violava. Ovviamente la procura nella richiesta di arresto scriveva di contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario per ottenere favori, notizie riservate, erogazione di finanziamenti, il tutto per rafforzare la tentacolare organizzazione a tre teste.

Filippo Crea, presunto s aderente alla ‘Ndrangheta, in una delle tante intercettazioni che dilagano in una ordinanza di 2050 pagine vantava “un bel pacchetto di voti perché posso portare deputati e senatori”.

Gli indagati si muovevano in diversi settori dalla sanità alla gestione dei parcheggi. La montagna però ha partorito il topolino perché alla fine ci sono stati solo 11 arresti con le accuse a vario titolo di porto d’armi, due estorsioni aggravate dal metodo mafioso, minaccia aggravata, traffico di droga, evasione fiscale.

Il gip Tommaso Perna spiega che una volta affermata la natura innovativa “addirittura unica nel panorama storico e geografico della nazione, sarebbe stato onere dell’organo requirente quello di individuare e tipizzare una autonoma associazione criminale che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali usati da clan operanti in altre aree geografiche”. La procura avrebbe dovuto accertare che l’associazione fosse radicata sul territorio e avesse acquisito in particolare la forza di intimidazione richiesta per integrare il reato di associazione mafiosa. Insomma invece di chiedere gli arresti i pm avrebbero dovuto continuare a indagare. Non l’hanno fatto. Un buco nell’acqua si.
frank cimini

Anche i ricchi bimbi viziati non meritano la gogna

Nessuno merita la gogna, neanche il più feroce degli assassini e nemmeno dopo la sentenza della Cassazione. Sembrerebbe superfluo dirlo ma in questi tempi bui va precisato per stare alla strettissima attualità neanche i ricchissimi bambini viziati adorati dalle folle perché prendono a calci una palla di cuoio possono subire la sorte toccata in quel di Coverciano nel rito della nazionale a Tonali e Zaniolo.
Gli inquirenti che da tempo conoscevano i loro nomi come scommettitori su una piattaforma digitale abusiva hanno mandato di fretta la polizia giudiziaria a raccogliere la loro versione dei fatti perché sarebbero stati presi in contropiede dalla notizia arrivata urbi et orbi da Fabrizio Corona che l’aveva addirittura preannunciata per creare suspence.
Corona è il vero dominus di questa inchiesta. Ne decide in pratica i tempi e le mosse sulla base di informazioni che non si sa da chi arrivino. Le sue parole vengono offerte ai giornali e alle Tv dalle agenzie di stampa con lanci stellettati della massima urgenza che una volta quando questo era un mestiere serio si usavano esclusivamente per notizie boom tipo la morte del Papa.
Adesso invece accade per avvisi di garanzia che a livello penale porteranno al massimo a un’ammenda dal momento che la scommessa illecita è considerato un reato lievissimo quasi un non reato a meno che il fatto non riguardi gli organizzatori del “giro”.
Certo c’è in parallelo la giustizia sportiva che rischia di troncare la carriera di questi ragazzi che si trovano ogni mese un bonifico di decine anche centinaia di migliaia di euro, che si annoiano e vanno alla ricerca di dosi di adrenalina. Il pelo di quella lana di cui dispongono in grande quantità evidentemente non basta perché sanno come va a finire.
La scommessa invece porta sorprese belle o brutte che siano. E loro “giocano” riuscendo persino a indebitarsi nonostante la gran quantità di piccioli a disposizione. Adesso sono al centro dell’attenzione generale vittime di una gogna vergognosa per chi l’ha messa in piedi e per la quale come accade in tutte le gogne non pagherà mai dazio. Colpevoli ancora prima di qualsiasi accertamento per non parlare di processi. Certo ci sono tre calciatori che hanno già ammesso le loro responsabilità. Uno Fagioli spiega di essersi autodenunciato alle autorità sportive ma lo aveva fatto dopo aver saputo dell’indagine della magistratura.
I pm di Torino mentre indagavano sulla criminalità organizzata si imbattevano nella piattaforma illegale di scommesse con cui i calciatori erano entrati in contatto per il divieto di “giocare” normalmente a puntare soldi. Pensavano di aggirare l’ostacolo ma hanno sbattuto il muso contro il muro. E stanno pagando un prezzo spropositato molto prima che loro responsabilità vengano accertate fino in fondo.
La storiaccia sembra solo all’inizio. Altri giocatori saranno coinvolti, la gogna continuerà per un bel po’ e bel difficilmente risanerà il mondo compreso il mondo del calcio che fa schifo da tempo immemore. E dove Fabrizio Corona non poteva che trovarsi a suo agio.
(frank cimini)

Cospito, giudici: in 41 bis divieto leggere stampa locale

Il Tribunale di Torino rigettando il reclamo della difesa ha confermato per L’anarchico Alfredo Cospito il divieto di leggere i giornali dell’area di provenienza perché questo potrebbe aiutarlo a mantenere i collegamenti con l’organizzazione di appartenenza. Secondo il collegio della terza sezione penale va evitato lo scambio di informazioni con altri soggetti facenti parte di una organizzazione terroristica. Le disposizioni stando ai giudici appaiono tutt’altro che discriminatorie verso la persona di Alfredo Cospito e non ci sarebbe alcuna violazione di articoli della Costituzione. Viene citata una sentenza della Cassazione del 2014 che giustifica il divieto causa esigenze di pubblica sicurezza.
Se ne può tranquillamente dedurre che è in primo luogo la giurisprudenza sul punto ad essere molto poco garantista. E i giudici se ne fanno scudo per lavarsene le mani. Di ricorrere alla Corte Costituzionale mandando gli atti dei procedimenti non se ne parla proprio insomma.
Lo stesso collegio nell’ordinanza conferma anche il divieto di corrispondenza tra detenuti ristrettì al 41 bis. I difensori Flavio Rossi Albertini e Maria Teresa Pintus hanno presentato ricorso per Cassazione spiegando che l’ordinanza tra l’altro appare senza sufficienti motivazioni. Gli avvocati ribadiscono la necessità di annullare i divieti.
Dagli argomenti e perfino dai toni e dal linguaggio utilizzato dai giudici emerge la conferma che il 41bis è peggio molto peggio di quello che era l’articolo 90 del carcere duro nei cosiddetti anni di piombo. L’articolo 90 infatti riguardava le sezioni e gli istituti carcerari mentre adesso con il 41 bis si pratica l’accanimento sui singoli reclusi. Lasciando perdere la grande differenza tra il fenomeno di allora e la repressione senza sovversione praticata al giorno d’oggi.
(frank cimini)

Anarchici, da domiciliari a carcere per colloqui “sospetti”

Gino Vatteroni, anarchico indagato nel processo “Scripta scelera”, dagli arresti domiciliari, sino a mercoledì 4 ottobre, è direttamente passato al carcere ad alta sorveglianza di Alessandria, con il trattamento riservato ai detenuti politici pericolosi, per istigazione a delinquere aggravata, priva di fatti concreti diversi dalla redazione di scritti sulla rivista “Bezmotivny” considerata dagli inquirenti antiterrorismo una sorta di “Metropoli” del terzo millennio.

Vatteromi è oggetto, con altri, di un’indagine della Digos della Spezia diretta dalla DDA di Genova per due anni, che i contribuenti hanno pagato per scoprire quanto tutti gli abbonati al giornale esclusivamente cartaceo, pubblicato e poi spedito con posta ordinaria e con i normali canali anche nelle carceri, potevano leggere. Questo giornale è stato chiuso spontaneamente dagli indagati per mancanza di soldi il mese prima degli arresti (8 agosto). Nessun fatto concreto, diverso dalla scrittura, contro cose o persone è attribuito agli indagati. Malgrado Procura DDA e Gip di Genova avessero ritenuto il gruppo una cellula sovversiva, il Tribunale della libertà ha stabilito che tale ipotesi di reato non era sorretta da gravi indizi di colpevolezza, negando sempre la custodia in carcere e confermando gli arresti domiciliari rinforzati (con divieto di contatti esterni) e alcuni obblighi di dimora, sugli altri reati (istigazione a delinquere aggravata, in primis) contestati. “Siamo tutti in attesa di leggere le motivazioni di tale provvedimento” dice l’avvocato George Botti.

Martedì 3 a Vatteroni è stata aggravata la misura e mercoledì 4, dagli arresti domiciliari con braccialetto, è stato collocato in carcere a Massa: gli sono state contestate delle violazioni alle prescrizioni cioè dei colloqui non permessi. Avrebbe parlato con due persone ritenute “sospette” per fatti accaduti ormai molti anni fa, violando le prescrizioni relative al provvedimento restrittivo. Poi da Massa alla casa di reclusione di Alessandria.
L’incensuratezza di questo cinquantaseienne e la ritenuta, da un collegio di tre magistrati, insussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il associazione sovversiva finalizzata al terrorismo evidentemente poco conta innanzi al fatto che Gino Vatteroni da una vita si professa dichiaratamente ed apertamente anarchico. Ad avviso di Procura e DAP del Ministero, l’esistenza di un’aggravante al reato di istigazione basta per l’alta sicurezza in carcere.
Il difensore farà appello al Tribunale del Riesame contro l’aggravamento della misura cautelare deciso da un gip che ha fatto copia e incolla con la richiesta della procura. Entrambi evidentemente “avvelenati” per essere stati smentiti dal Riesame che aveva cancellato il reato più grave. La rivista così tanto pericolosa per la sicurezza dello Stato e per l’ordine pubblico stava anche in bacheca in una pubblica via di Carrara, città da secoli sospetta perché centrale nell’attività anarchica. Insomma altra aggravante.
( frank cimini)

Morto Pacini Battaglia tacendo salvò la magistratura

Non era un magistrato ma la magistratura dovrebbe fargli un monumento da collocare davanti alla sede del Csm o dell’Anm. Con il suo silenzio salvò l’immagine e l’onore della magistratura e anche un paio di governi del centrosinistra. Intercettato dal Gico della guardia di finanza in una inchiesta di La Spezia aveva detto: “Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato” e ancora: “ Si pagò per uscire da Mani Pulite”.
A Brescia dove l’indagine fu trasferita l’ineffabile giudice decise che Pacini “aveva millantato”. Si trattava di salvare l’uomo simbolo di Mani Pulite e con lui l’immagine e l’onore di una intera categoria. Prevalse la ragion di Stato dopo che l’Associaziobe Nazionale Magistrati in un comunicato per la prima volta si schierò con l’indagato e non con i pm che indagava su di lui. Fu ovviamente anche l’ultima. Non sarebbe accaduto mai più.
Pierfrancesco Pacini Battaglia come spiegò nel teleprocesso Cusani l’avvocato Giuliano Spazzali “caro dottor Di Pietro entrò e uscì come una meteora dalle sue inchieste”.
Pacini fu il regista dell’inchiesta sui fondi neri dell’Eni. Arrestato e subito rimesso in libertà il 18 marzo del 1993 perché decise di “collaborare” con il mitico pool che considerò lui “l’Eni buono”. Al pari di Franco Bernabe’ al quale sempre al teleprocesso Cusani Di Pietro chiese: “Ma all’Eni l’abbiamo finita con la pratica delle società offshore o no?”. Il testimone rispose: “La stiamo finendo”. Cioè confessò in diretta televisiva la commissione di un reato il falso in bilancio. Non fu indagato. Era la giustizia due pesi due misure. Dove Sergio Cusani senza incarichi operativi e firme sui bilanci venne condannato a una pena doppia degli amministratori della Montedison.
Fu una grande farsa con la scusa di ribaltare l’Italia come un calzino.
(frank cimini)