giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Pm contro pm. Non c’è pace in procura a Milano

Non c’è pace per la procura di Milano dove va in scena l’ennesima puntata della saga “pm contro pm”. Il sostituto procuratore Rosaria Stagnaro ha chiesto di lasciare l’indagine sul caso di Alessia Pifferi la mamma che lasciò morire di fame di sete la sua bambina a causa delle presunte gravi scorrettezze subite dal collega Francesco De Tommasi che a sua insaputa aveva messo sotto intercettazione le psicologhe del carcere di San Vittore indagate per falso e favoreggiamento. Indagata anche l’avvocato Alessia Pontenani difensore di Pifferi. Avrebbero tutte favorito una perizia psichiatrica “addomesticata”, ma su questo ci sono un sacco di polemiche.

Tocca al procuratore capo Marcello Viola decidere sulla richiesta presentata dal pm Stagnaro in una vicenda intricata destinata a lasciare il segno come già accaduto nel recente passato. Il problema è che i pm litigano tra loro, se ne dicono di tutti i colori per poi restare tutti insieme appassionatamente nello stesso ufficio.
E’ accaduto per Paolo Storari e Fabio De Pasquale nell’ambito del processo Eni-Nigeria che si erano confrontati duramente anche nell’aula del Tribunale di Brescia dove il procuratore aggiunto è sotto processo per non aver messo a disposizione delle difese una serie di atti importanti.

Storari aveva lamentato l’immediata mancata iscrizione tra gli indagati dell’avvocato Piero Amara e delle persone chiamate in causa in relazione alla famosa loggia Ungheria. De Pasquale avrebbe tergiversato per “tutelare” Amara considerato il testimone chiave dell’accusa nel caso Eni poi finito con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Storari e De Pasquale fanno ancora parte della stessa procura. Il Consiglio Superiore della Magistratura non è mai intervenuto con l’alibi dei processi penali in corso.

In questi anni di guerre interne alla procura l’unico a essere stato fatto fuori in quattro e quattr’otto fu il procuratore aggiunto Alfredo Robledo ma lì c’era da salvare la patria, vale a dire Expo 2015. Robledo voleva indagare, l’allora capo della procura Edmondo Bruti Liberati avrebbe fermato gli accertamenti dopo i primi arresti.

Matteo Renzi da presidente del consiglio ringraziò due volte la procura di Milano “per il senso di responsabilità istituzionale dimostrato”. Furono parole molto significative su quanto accaduto. Fondi e appalti assegnati senza gare pubbliche scegliendo “aziende in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione”. Una indagine aperta in relazione alle presunte omissioni fece il giro d’Italia delle procure per poi essere archiviata a Trento senza iscrivere tra gli indagati alcun magistrato.

Via il dente via il dolore. Robledo fu trasferito a fare il giudice a Torino. Allora il Csm ritenne di intervenire. Nella vicenda ebbe il suo peso il presidente Giorgio Napolitano che ricordò come prioritarie le prerogative dei capi delle procure. Da allora per evitare contrasti il Csm quando deve nominare i procuratori aggiunti rinuncia ai suoi poteri delegando di fatto la scelta ai capi degli uffici inquirenti. E vissero tutti felici e contenti.
(frank cimini)

Trojan, il gip di Napoli l’ha fatta fuori dal vaso

Elogio del trojan. Mai più senza trojan. È questo il messaggio che arriva dal giudice per le indagini preliminari di Napoli Antonio Baldassarre che ha firmato l’ordinanza con arresti in carcere e altre misure cautelari in relazione agli appalti e alle tangenti di Pozzuoli.

”Il filo conduttore degli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria è stato rappresentato dalle intercettazioni telefoniche, ambientali e mediante inoculazione di captatore informatico sui telefoni cellulari di alcuni indagati. A scanso di polemica che talvolta accompagna tale tipo di indagini è bene specificare sin da subito alcuni profili – argomenta il giudice – il primo è che nel caso di specie tale scelta investigativa si è rivelata fin da subito essenziale in relazione alla tipologia di reati in questione. È evidente e di comune esperienza che le indagini di tipo tecnico costituiscono l’unico strumento realmente efficace per accertare i reati a concorso necessario e comunque basata su una inevitabile condivisione dei propositi criminalità parte di tutti i protagonisti coinvolti che procedono nella medesima direzione”.

Il giudice insomma mette le mani avanti. Il trojan viene descritto come insostituibile. Questo nonostante diversi magistrati oltre a politici di diverso schieramento abbiano a più riprese ammesso l’eccessiva invasivita’ di tale strumento che finisce per abbracciare l’intera vita quotidiana dei soggetti coinvolti al di là degli accertamenti in corso.

”Gli unici soggetti che sono a conoscenza delle attività delittuose commesse e in corso sono proprio quegli stessi che dei reati si giovano e ne percepisco i i profitti – continua il gip – Gli accordi che conducono a tali fattispecie sono per loro definizione riservati se non segreti, raramente vi sono testimoni disinteressati presenti ai fatti. Le vittime dei reati si rendono conto solo con ritardo ma raramente sono in grado di offrire elementi di conoscenza specifica sull’accaduto. Quindi è giocoforza necessario vincere la mutua e indissolubile riservatezza dei concorrenti nei reati. Per farlo è necessario proprio accedere alle loro conversazioni ai discorsi alle pianificazioni e al contenuto degli incontri riservati organizzati per poter acquisire quegli elementi che altrimenti non avrebbero modo di venire all’esterno”.

Insomma si tratta di un’ordinanza che irrompe nel dibattito politico sulla giustizia soprattutto a livello di intercettazioni orientandolo fortemente. Nel caso specifico il giudice delle indagini preliminari arriva addirittura ad affermare che vi possa essere una interpretazione alternativa delle conversazioni. Questo lo si vedrà in seguito. Ma l’ordinanza a resta singolarmente esplicita in termini di politiche giudiziarie. Sia consentito affermare che almeno un po’ il giudice l’ha fatta fuori dal vaso.
(frank cimini)

A Report la mafia a tre teste che in realtà non esiste

A Milano ci sarebbe una mafia a tre teste con la santa alleanza tra Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta utilizzando il capoluogo lombardo e zone limitrofe come una sorta di “laboratorio”. Era la tesi della procura che il giudice delle indagini preliminari Tommaso Pena nel novembre scorso aveva bocciato rigettando 140 richieste di misure cautelari su 154 (una sorta di record probabilmente non solo italiano) per associazione mafiosa.

Se questa prospettazione ritenuta infondata abbiamo visto l’altro ieri sera su RaiTre nella trasmissione Report un’intera puntata come se invece fosse tutto vero. La decisione del gip è stata ricordata solo con un brevissimo accenno di poche parole per dedicare tutto lo spazio alla “straordinaria scoperta fatta dai carabinieri e dalla procura”.

Sigfrido Ranucci non ha avuto neanche la bontà di ricordare che la procura di Milano pur avendo presentato ricorso al Tribunale del Riesame contro la decisione del gip Perna ha limitato l’impugnazione alla posizione di 70 indagati la metà di quanti voleva sanzionare origine. Insomma anche da parte dell’organo dell’accusa c’è stata l’ammissione di un flop quantomeno parziale. In attesa dell’appuntamento del Riesame che non è stato ancora fissato.

Report si comporta come se il network criminale fosse stato ritenuto consolidato. Nel ricorso la procura accusava il gip di aver fatto “copia e incolla” con il parere di un avvocato espresso in tutt’atra circostanza fuori dall’inchiesta. Il gip avrebbe ignorato e smentito “le più eterogenee evidenze investigative processuali dell’ultimo ventennio”.
I giornali solitamente a sostegno della procura operavano un massacro mediatico del giudice. Doveva intervenire il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia con un comunicato per sottolineare che il controllo del gip lunghi dall’essere classificato come una patologia evidenzia il principio dell’autonomia della valutazione giurisprudenziale”.

Ma di tutto questo nella puntata di Report non si parla. E in questa vicenda è stato del tutto assente il Csm sempre pronto ad aprire pratiche a tutela quando i magistrati vengono criticati dai politici. Ma quando ricevono attacchi dai colleghi e dai giornali va tutto bene.

Report insomma si ripete. Non ha mai preso atto che la storia della trattativa Stato-mafia era del tutto infondata secondo la Cassazione non perdendo occasione di riproporla. Come del resto non tiene conto degli esiti processuali del caso Moro di e si esclude che le Brigate Rosse fossero state eterodirette e avessero avuto complici occulti.
(frank cimini)

Il giudice “un po’ confuso” tifa Borrelli e Toni Negri

Come minimo deve avere un po’ di confusione in testa Marcello Degni il giudice della corte dei Conti che sui social critica l’opposizione per non aver costretto il governo di centrodestra all’esercizio provvisorio e che ora rischia sanzioni da parte dei colleghi.

Nelle sue esternazioni da un lato evoca Francesco Saverio Borrelli che alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nel gennaio del 2002 pronunciò il famoso triplice “resistere” con riferimento al governo Berlusconi e dall’altro lato posta elogiando la prima pagina del Manifesto in morte di Toni Negri “maestro attivo”. Poi cita il filosofo padovano sul “comunismo come manifestazione gioiosa collettiva etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà dei confini e della politica”.

Per Degni Toni Negri è un intellettuale raffinatissimo. La contraddizione nell’elogiare sia Borrelli sia Negri. Il carceriere e il carcerato si potrebbe osservare, ricordando per esempio che Borrelli da giudice condannava per terrorismo senza prove “perché non poteva non sapere considerando la sua statura intellettuale” l’avvocato comunista Sergio Spazzali.

Il comportamento del giudice Degni ricorda l’indicazione di voto che diede Rossana Rossanda alle elezioni del 1984, “Toni Negri alla Camera e Pci al Senato”. In quel caso la contraddizione era ancora più evidente perché eravamo nel pieno delle polemiche sul caso “7 aprile” con il pm Piero Calogero che aveva preparato i testimoni nei locali della federazione padovana del partito comunista italiano.

Ancora Degni dice che quando passa in via Fatebenefratelli pensa sempre a Pinelli voltato dalla finestra, alla ballata che recita “Calabresi e Guida assassini che un compagno avete ammazzato quella lotta non avete fermato la vendetta più dura sarà”.

Impossibile non domandarsi se questo giudice più che maggiorenne e vaccinato ormai alla soglia della pensione si renda conto della confusione che fa sulla storia politica del paese nel tentare di mantenere insieme i suoi miti.

Con le sue esternazioni di oggi è ancora di più con quelle passate che riemergono riesce a togliere dall’imbarazzo (eufemismo al massimo grado) il governo per il “botto” di Capodanno nel biellese. Insomma il giudice Marcello Degni avrebbe bisogno di riflettere, di studiare, di informarsi e soprattutto di pensare a quello che dice perché non se la può certo cavare spiegando che quanto afferma sui social sarebbero pensieri personali i quali non c’entrano con l’attività di giudice. La toppa è peggio del buco.
(frank cimini)

Moro, le bufale senza fine. Domenica su Report

“Aldo Moro non può essere stato ucciso in via Montalcini e poi portato in via Caetani”. Questo dice Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni, nella puntata di Report che andrà in onda domenica prossima 7 gennaio di cui è stato anticipato il contenuto in un trailer che riguarda la presentazione del libro scritto dall’ex ministro Vincenzo Scotti e dall’economista Romano Benini sulla politica di Aldo Moro.

”Sorvegliata speciale” è il titolo. “Le reti di collegamento della Prima Repubblica” il sottotitolo del pomo che racconta l’avversione degli Stati Uniti e soprattutto di Henry Kissinger per la politica di Moro. Scotti spiega che il segretario di Stato americano era nettamente contrario a che Moro assumesse responsabilità specialmente in relazione a Israele e Medio Oriente. Cose trite e ritrite sulle quali si discute da ormai mezzo secolo ma che servono per riproporre tutta la dietrologia possibile e immaginabile sulla strage di Via Fani e sul caso Moro.

Le perizie che dimostrerebbero che Moro non fu ucciso in via Montalcini di cui parla Ilaria Moroni non esistono, non hanno nulla da spartire con gli atti di ben cinque processi. Ma la dietrologia non finisce mai, le bufale continuano.

E per la fondazione Flamigni, dal nome dell’ex senatore Sergio Flamigni che fu l’antesignano dei misteri inesistenti, le bufale sul caso Moro si sono rivelate da sempre un affare a causa della consistente mole di finanziamenti pubblici dal ministero della Cultura.

40 mila euro il 9 gennaio del 2019, 38 mila euro il 15 aprile, 2000 euro il 15 ottobre. Vanno aggiunti 40 mila euro il 20 maggio dall’istituto centrale per gli archivi, 3491 euro il 7 agosto dall’Agenzia delle Entrate. Dal ministero 49.157 euro il 22 giugno, 8300 euro il 29 dicembre. Poi ancora altri soldi successivamente.

Per carità tutto regolare, tutto secondo la legge. Il primo febbraio del 2021 l’archivio viene trasferito presso lo spazio Memo per gentile concessione della Regione Lazio con visita e complimenti del governatore Zingaretti.

Dietrologia e complottismo vengono incoraggiati. Ogni 16 marzo ogni 9 maggio a dire che bisogna cercare la verità è per primo il Presidente della Repubblica e del Csm a discapito dei processi dive sono state escluse responsabilità diverse da quelle delle Brigate Rosse.

Si tratta di esiti processuali ignorati dalle commissioni parlamentari e dalla procura di Roma che continuano la caccia alle streghe. Tra gli intervistati da Report c’è l’ex procuratore generale Luigi Ciampoli che si vanta di aver indagato lo psichiatra Steve Pieczenik inviato in Italia dal dipartimento di Stato Usa . L’accusa era di concorso nell’omicidio Moro. Non si sa che fine abbia fatto. Adesso c’è il pm Eugenio Albamonte a continuare la caccia e non ha ancora deciso cosa fare dell’inchiesta chiusa da tempo sul ricercatore indipendente Paolo Persichetti, che il gip aveva definito “indagine senza reato e chissà mai se ci sarà”.

La sensazione è che questa dietrologia, nel paese dove la Cassazione ha appena accusato il centro sociale Askatasuna di “pensare alla lotta armata”, serva non tanto per il passato quanto per governare oggi agitando un fantasma che con la realtà attuale c’entra zero.
(frank cimini)