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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

“La cella liscia”, un e – book racconta la tortura nelle nostre carceri

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“La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta”. 

Arianna Giunti, giornalista del gruppo L’Espresso, racconta questo abisso sconosciuto dove viene rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o è semplicemente colpito da una crisi di nervi, nell’appassionato e documentato e-book “La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane”, edito da Informant.

La tortura viene praticata in Italia in quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento delle carceri che ancora dispongono di una cella liscia nella quale i detenuti sono costretti anche a fare i bisogni sul pavimento e a convivere con  gli scarafaggi. Un giorno Carlo, recluso al Mammagialla di Viterbo per reati di droga, spiega al padre durante un colloquio cos’è la cella liscia. “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano degli agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Ma tu, pur di non restare solo e impazzire, aspetti  quei momenti come una cosa bella”. Trasferito poi nel carcere di Monza, alla mamma una sera dice al telefono: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Carlo morirà pochi giorni prima del suo compleanno per circostanze che il padre, viste le oscure cartelle cliniche del penitenziario, non è mai riuscito a chiarire.

Non c’è solo la quotidiana violazione dei diritti umani nelle mura carcerarie al centro del libro elettronico ma anche un’indagine, arricchita da storie, che fa emergere l’impossibile ritorno alla vita, e soprattutto al lavoro, fuori dalle sbarre. Chi decide di ricominciare si scontra con un ostacolo insormontabile: il certificato penale immacolato richiesto dai datori di lavoro. Marcello supera in modo brillante un colloquio per diventare promoter in una grande azienda di surgelati. Quando il direttore delle vendite gli chiede di fornirgli il certificato, si spegne il suo sorriso. Racconta una bugia (“Per me sarebbe un lavoro troppo impegnativo”) e se ne va. Nel capitolo “marchiati a fuoco” Giunti mette in fila altre storie  simili a questa, abissi umani che lacerano il cuore e ritraggono il carcere italiano come un inferno con divieto perenne di uscita.  (manuela d’alessandro)

Categoria: carceri, recensioni