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Sono passati molti anni ormai e le storie sono molto diverse, ma per chi conosce la vera storia di Mani pulite non quella raccontata dalle gazzette della Repubblica delle procure è impossibile non reagire con un sorriso amaro.
Fabio De Pasquale è stato condannato per non aver depositato prove a favore degli imputati del processo Eni-Nigeria. Rifiuto di atti d’ufficio. Le motivazioni tra 45 giorni e i gradi successivi di giudizio chiariranno le sue responsabilità.
Il presidente del Tribunale che lo ha condannato è Roberto Spanò colui che da giudice delle indagini preliminari alla fine degli anni ‘90 decide che non c’era neanche bisogno del vaglio dibattimentale. Antonio Di Pietro uomo simbolo della magistratura di allora era puro come un giglio di campo.
Davanti alla richiesta di processarlo l’Associazione Nazionale Magistrati fece un comunicato con cui per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima.
Di Pietro che viveva a scrocco degli indagati del suo ufficio tra Mercedes telefonini con bolletta pagata prestiti a babbo morto restituiti dentro scatole di scarpe non si poteva toccare.
Non era processabile per evitare che venisse fuori la farsa della rivoluzione politico giudiziaria, la presunta lotta alla corruzione che c’era anche prima del 1992 ma che le procure in testa Milano facevano finta di non vedere.
De Pasquale si era scontrato con Di Pietro perché questi interveniva sui suoi fascicoli. Un indagato di De Pasquale latitante si consegnò a Di Pietro. De Pasquale ebbe la notizia dalla telefonata di una giornalista. Il capo della procura San Francesco Saverio Borrelli si schierò dalla parte di Tonino da Montenero di Bisaccia. Di Pietro aveva il paese nelle sue mani. Poveri noi, detto ancora oggi per allora. (frank cimini)