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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Steccanella recensisce la Boccassini story

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Mi sono letto in soli due giorni le 341 pagine del libro che ha fatto tanto discutere chi invece quel libro non l’ha letto e si è basato su anteprime di stampa quanto mai fuorvianti.
La prima annotazione “a caldo” è che per poter scrivere un’autobiografia che ti viene voglia di leggere tutta d’un fiato, e senza essere un’attrice famosa, un calciatore o un front man di una rock band, bisogna avere vissuto una vita come quella della Boccassini, vita che lei stessa dichiara di essere stata quella che voleva vivere, anche se, aggiunge a pag. 341, il suo racconto “non piacerà a tutti, soprattutto a molti miei colleghi”.
La seconda annotazione sempre “a caldo” è che si tratta di un potentissimo J’accuse senza sconti al mondo della magistratura presso cui ha operato per 40 anni, perché non si salva quasi nessuno, ivi compresi molti miti mediatici che per anni hanno monopolizzato giornali e TV come eroici paladini dell’antimafia o dell’anticorruzione, e che dal racconto di fatti e aneddoti che li hanno personalmente riguardati ne escono davvero a pezzi, come peraltro ex Ministri, Capi della Polizia, Onorevoli e Senatori.
Perché il libro è principalmente un racconto di fatti, dettagliati e difficilmente smentibili, seppure intervallati a considerazioni personali che l’autrice non manca di inserire, anche in questo, le va dato atto, senza ipocrisie o prudenze da galantuomini del ne quid nimis, per citare quella categoria manzoniana tanto invisa al Cardinal Federico.
E’ come se, dopo avere maniacalmente evitato di rilasciare qualsiasi dichiarazione alla stampa, l’ex PM avesse voluto, una volta raggiunta la pensione, togliersi tutti i sassolini accumulati in oltre 40 anni di professione in una volta sola, e non mettere più piede in quel Palazzo dove aveva trascorso gran parte della propria vita.
Ovviamente trattandosi di personaggio viscerale e privo di mezze misure, ma lei di questo non ne fa mistero, sono molti i passaggi del libro che destano perplessità in chi ha diversa sensibilità in tema di devianza, carcere, repressione, forze di polizia e persino gabbie in aula “mi erano del tutto indifferenti ma turbavano i sonni del presidente del tribunale dell’epoca”, scrive a pag. 302.
Come è fuor di dubbio che la sua comprovata conoscenza del fenomeno mafioso non riveli altrettanta autorevolezza laddove si estende a indagini su antagonismi politici, dove si leggono considerazioni più da vulgata come “compagni che sbagliano” “misteri sul sequestro Moro” et similia.
Quelli che lei chiama “danni collaterali” nel capitolo numero 11, per me sono invece gli imputati ingiustamente incarcerati nei tanti blitz (di due di loro ne ho esperienza diretta), a tacer del processo Ruby, la cui nota conclusione viene liquidata in due righe a pag. 306 con “la sentenza fu ribaltata in secondo grado e il presidente del collegio Enrico Tranfa si dimise in aperta polemica con quella decisione. La Cassazione confermò l’assoluzione”.
E così pure, alla fine della lettura del libro, sembra di ricavare la conclusione che in Italia ci siano stati solo un magistrato e un giornalista capaci, Giovanni Falcone e Giuseppe D’Avanzo, il che peraltro personalmente mi trova poco d’accordo nel secondo caso, perché di certo non sento particolare nostalgia delle sue celebri “dieci domande”, ma è indubbio che sulla dottoressa Boccassini queste due persone abbiamo avuto un’influenza anche personale notevole, e che la loro prematura morte, seppur per ragioni diverse, l’abbia segnata nel profondo.
A proposito del criticatissimo racconto del suo rapporto con Falcone, va sottolineato che la Boccassini si limita a dire di averlo amato profondamente lei mentre lui amava la propria moglie, per cui non vedo dove sia l’oltraggio al morto, e del resto oggettivamente non poteva omettere il racconto di un amore che ha segnato a tal punto la sua vita non solo professionale, ma anche privata, da non essere più stato sostituito né in un campo né nell’altro.
Mi è piaciuta molto la parte in cui si racconta nel suo privato di donna che fino ad oggi era stato tenuto rigorosamente schiacciato dall’immagine della PM virago alla quale, va detto, nulla ha mai fatto per sottrarsi.
Le sue intense e durature amicizie con persone totalmente estranee all’ambiente del tribunale, il suo rapporto con Napoli, la città dove è cresciuta e si è formata, i figli, i fratelli, la madre, e anche aneddoti divertenti, come l’incontro con Nanni Moretti prima dell’uscita del “Caimano” e in generale la sua passione per il cinema e per la mostra di Venezia, dove confermo personalmente di averla più volte incontrata e che, solare e simpatica, sembrava davvero un’altra persona rispetto a quella che talvolta mi capitava di incontrare in tribunale per ragioni professionali.
Mi è piaciuta anche la parte in cui confessa debolezze e paure, i suoi primi giorni in Sicilia in un albergo orrendo e isolato da tutto, l’uso di orecchini sempre diversi o la scelta di certi abiti a seconda dell’occasione, l’appellativo di “agave” che le riserva lo psicologo Kantzas, e ho trovato fantastico leggere a pag. 300 “sono sempre stata considerata una bella donna (e sono assolutamente d’accordo!) per certe caratteristiche quando ero giovane e per altre quand’ero più adulta”.
Fa anche una certa impressione leggere che indagini che hanno sconvolto il Paese (dalla Dumo Connection alla strage di Capaci e dai processi al cavaliere al processo Infinito che rivelò le infiltrazioni della ‘ndrangehrta in Lombardia) siano state condotte sostanzialmente da lei sola senza grandi apparati “in alto” e con la sola collaborazione fidata di forze di polizia, “il PM è l’avvocato della Polizia”, aveva detto Falcone al momento dell’approvazione del nuovo codice e lei lo ha applicato alla lettera.
Per cui se c’è stato un PM che ha davvero separato la propria carriera da quella di un giudice senza bisogno di grandi riforme è stata lei, che infatti riserva ai giudici, come agli avvocati, un ruolo davvero modesto nel libro, quasi non fossero parti necessarie al processo.
Però questo libro merita di essere letto al di là di quello che si possa pensare di chi l’ha scritto, perché volendo fare un’analogia (ovviamente solo metodologica) con un personaggio più volte nominato nel libro, se Buscetta era stato il primo mafioso a raccontare come funzionava la mafia dal suo interno, l’ex PM Boccassini è il primo magistrato a raccontarci come funziona la magistratura dal suo interno, e tutta, da Milano e Roma e dalla Sicilia a Catanzaro.
La pessima abitudine di “lavare i panni sporchi in famiglia” con lei è saltata tutta d’un colpo non appena ha fatto ritorno a quella che era invece la sua vera famiglia e agli adorati nipotini, ai quali può riservare, lo scrive lei stessa, quelle attenzioni che il suo lavoro aveva sottratto ai figli, e quanto ai recenti “casi” Palamara e Procura di Milano vi lascio intendere quali siamo i lapidari commenti.
Quasi glissa via con malcelato fastidio, visto che lei si era dimessa da ogni corrente a far tempo dal lontano 2010 intuendone le gigantesche falle e subendo per questo l’esclusione da ogni “potere”, come dimostra il dato eclatante che non sia mai stata presa in considerazione per la Commissione antimafia dove pure sono passati (lei non lo scrive ma si intuisce “cani e porci”).
Lei, a differenza di Buscetta ovviamente, non è affatto “pentita” di quello che ha fatto, ma il suo j’accuse non è meno potente, e questo libro rivela coraggio e non, come pure ho letto, voglia di ribalta, quella, se l’avesse voluta, se la sarebbe presa quando migliaia di cronisti assediavano il suo ufficio a qualunque ora del giorno mentre lei li chiudeva fuori dalla porta.
Oppure, facendo una qualsivoglia carriera dirigenziale, come centinaia di suoi colleghi dal curriculum assai meno prestigioso, e invece il libro si chiama stanza numero 30 perché da quella stanza del quarto piano – dove io la incontrai per la prima volta nel 1990 – non si è mai mossa, tranne che per andare tre anni in Sicilia a catturare “gli assassini di Giovanni”.
Avvocato Davide Steccanella