giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Mastrogiovanni, i medici condannati tornano in corsia perché manca la legge sulla tortura

 

Sette anni fa Francesco Mastrogiovanni, “il maestro più alto del mondo” (definizione dei suoi studenti) fu tenuto legato mani e piedi per 87 ore al letto di contenzione dell’ospedale di Vallo della Lucania, reparto psichiatrico. Oggi la corte d’appello di Salerno modificando parzialmente la sentenza di primo grado ha condannato insieme ai 6 medici anche gli 11 infermieri assolti dal tribunale in primo grado. Pene fino a 2 anni di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche ma cade l’interdizione dai pubblici uffici: gli imputati, condannati a vario titolo per omicidio come conseguenza del sequestro di persona e falso, torneranno in corsia.

Ed è questa la conseguenza più preoccupante alla fine di un iter giudiziario tortuoso e che come altre vicende sconta il fatto che l’Italia non ha mai ratificato la convenzione internazionale che prevede la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. In Parlamento da sempre non si riesce a fare un passo in avanti. I sindacati di polizia sono contrarissimi e la politica si adegua al volere di chi è intenzionato a continuare con certe pratiche.

La situazione di stallo ha poi ricevuto un autorevole avallo dal Quirinale che tra Napolitano e Mattarella ha dato la grazia a ben tre responsabili del sequestro dell’imam Abu Omar, vittima di una operazione di terrorismo di stato o meglio di più stati, torturato e sodomizzato.

Il caso Mastrogiovanni fa parte di un lungo doloroso elenco dove spiccano le torture inflitte ai manifestanti contro il G8 di Genova del 2001. Chi scrive queste poche righe lo fa per denunciare l’ennesima ingiustizia derivata dall’assenza di una norma sacrosanta a tutela dei cittadini, la protervia e l’arroganza del potere. Ma anche per ricordare un amico e compagno di sovversioni giovanili negli anni ’70 che ha pagato con la vita l’essere considerato “diverso”, “pazzo” dalle istituzioni totali che lui da anarchico aveva sempre combattuto (frank cimini)

Un mese per le nuove indagini sulla Piastra di Expo e ora Sala potrebbe essere convocato

 

La Procura Generale di Milano avrà un mese di tempo per effettuare nuove indagini sul più grosso appalto di Expo, quello sulla ‘Piastra’, ossia l’ossatura architettonica dove poi sarebbe sorta l’Esposizione Universale. Un’inchiesta che ‘rivive’ dopo che il pg Felice Isnardi ha avocato il fascicolo ai pm Paolo Filippini, Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi e ha  chiesto e ottenuto nell’udienza di stamattina dal gip Andrea Ghinetti la revoca della richiesta di archiviazione. Revoca concessa  dal gip senza nemmeno dare la parola ai legali dei 5 indagati perché così prevede la legge. A questo punto, Isnardi avrà trenta giorni, termine anche questo sancito dal codice, per effettuare, come ha spiegato al giudice, ulteriori “approfondimenti investigativi” sulla gara che la società Mantovani nel 2012 vinse con un ribasso del 42 per cento sulla base d’asta.

I tre pubblici ministeri, che avevano condotto le indagini all’epoca nel pieno dello scontro in Procura tra l’allora procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e il capo del pool anti- corruzione Alfredo Robledo, avevano chiesto l’archiviazione nelle settimane scorse perché “nonostante gli sforzi investigativi” non era stata “provata l’esistenza di tangenti” ma erano emerse “numerose anomalie e irregolarità amministrative”. Robledo, all’epoca della sanguinosa guerra con Bruti finita davanti al Csm e col suo trasferimento a Torino, aveva sostenuto che non era stata data a lui e ai tre pm la possibilità di indagare a fondo sulla Piastra. Tanto che, a un certo punto, l’indagine gli venne sottratta dallo stesso Bruti con la creazione della famosa ‘Area Omogenea Expo’.

Gli indagati sono 5: gli ex manager di Expo Angelo Paris e Antonio Acerbo, l’ex presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita, e gli imprenditori Erasmo e Ottaviano Cinque.”Letta la richiesta di archiviazione – ha commentato l’avvocato Federico Cecconi, legale di Acerbo – non mi stupisco che si chieda un supplemento di indagini”.  Non è escluso che il pg convochi nei prossimi giorni l’allora commissario di Expo e attuale sindaco di Milano Giuseppe Sala (mai indagato). Agli atti ci sono le dichiarazioni dall’ex capo di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni: “Sono andato da Sala e ho spiegato i motivi per cui mi sembrava irragionevole l’offerta della Mantovani. Sala mi ha risposto che loro avrebbero proseguito con questo orrientamento perché non avevano tempo per accertare la congruità dei prezzi che erano stati stabiliti dalla Mantovani e per verificare se l’offerta era anomala o meno”. La legge stabilisce che le stazioni appaltanti, Expo in questo caso, possono ma non sono obbligate a valutare la congruità delle offerte che appaiono basse in modo anomalo. Alla domanda se avesse intenzione di convocare il sindaco, il pg Isnardi, magistrato di lungo corso autore delle prime indagini sui Ligresti, si è limitato a rispondere: “Non lo so”. Ma forse, a Expo lontano, è arrivato il momento di chiedere a Sala cosa accadde attorno a quel goloso appalto.  (manuela d’alessandro)

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La Procura impugna l’assoluzione dei No Expo, i due pesi e due misure

“Dove vedono e dove cecano”, recita il vecchio adagio. Che la procura ricorra contro le assoluzioni è considerato fisiologico, ma a volte il contesto fa la differenza. La procura di Milano ha impugnato la sentenza del gup che aveva assolto 3 manifestanti dall’accusa di devastazione in relazione al corteo del primo maggio del 2015. E’ lo stesso ufficio inquirente che aveva chiuso un occhio e l’altro pure sugli appalti dell’evento. Una circostanza pacificamente provata dal premier Matteo Renzi che in riferimento al “successo” di Expo ringraziava in ben due occasioni l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati per “il senso di responsabilità istituzionale”.

La moratoria delle indagini, che portava tra l’altro al proscioglimento del numero uno di Expo Beppe Sala dall’accusa di abuso d’ufficio con una motivazione tragicomica, non vale per le pietre tirate contro le vetrine delle banche. In 40 pagine la procura rimprovera al gup una errata applicazione della legge penale e il fatto di non aver valutato complessivamente e unitariamente gli elementi di prova.

Dura lex sed lex, ma solo per chi ha protestato contro la manifestazione simbolo del sistema paese di cui la magistratura evidentemente si sente parte integrante con tanti saluti all’obbligatorietà dell’azione penale. In questo caso la procura non demorde e fa finta di niente anche davanti alla lezione di diritto impartita dalla corte di appello di Atene che nel respingere l’estradizione di 5 anarchici ricordava il principio della responsabilità penale come personale e non collettiva.

“Giustizia di classe” si sarebbe detto in altri tempi, quando per esempio il neo procuratore di Milano Francesco Greco faceva parte della sinistra di Md, una sparuta pattuglia di magistrati (“pochi ma buoni”) distribuita tra Roma e Milano che contrastò la logica dell’emergenza battendosi con vigore anche contro i vertici della corrente. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e vale ma solo fino ad un certo punto la considerazione che si nasce incendiari e si muore pompieri. Non è così per tutti in verità. La legalità non è una questione di giustizia ma di potere. (frank cimini)

Il testo della decisione del giudice Dorigo che boccia il prof. Onida sul referendum

 

Nessuna violazione della sacra libertà del voto degli elettori. Il quesito referendario  sul quale dovremo esprimerci, a questo punto con certezza, il 4 dicembre, non fa una piega. Col rigetto dei ricorsi presentati dal professor Valerio Onida e dal pool di avvocati che già avevano fatto cadere il ‘Porcellum’, il giudice civile Loreta Dorigo esclude un intervento della Corte Costituzionale. 

Il referendum riguarda tante materie diverse, che problema c’è? Nessuno, per il magistrato secondo il quale lo ‘spacchettamento’ delle domande snaturerebbe l’essenza del referendum perché “l’elettore, libero di scegliere su ogni singolo quesito, finirebbe in tal caso per intervenire quale organo propulsore dell’innovazione costituzionale”. Invece è la stessa Costituzione ad attribuire alle “maggiori forze politiche del Paese” il compito di riformarla lasciando al popolo  ”un potere d’intervento del tutto eventuale e residuo”. Anzi, per il giudice  la nostra carta fondamentale va sottratta da quelli che definisce “estemporanei interventi diretti del corpo elettorale”.

L’emerito presidente della Consulta Onida si becca pure il rimprovero di non essersi accorto che gli stessi ‘padri costituenti’ si espressero “a favore di un intervento di revisione assai ampio”. Per esempio, il buon Costantino Mortati  “che esclude in radice una possibilita’ di revisione costituzionale consentita solo in relazione ad un singolo, o a pochi articoli per volta, configurando, persino, la possibilita’ di una revisione con un contenuto di totale stravolgimento degli assi portanti dell’ordinamento costituzionale”.

La domanda sull’abolizione del Cnel (sulla quale tutti gli italiani eccetto i componenti del Cnel medesimo sono d’accordo) non c’entra con tutte le altre a cominciare dal bicameralismo disegnato dal ddl Renzi – Boschi? Pazienza. “L’eventuale lateralità di una sola disposizione non pare sufficiente a eradicare l’unitarietà progettuale di revisione”. (manuela d’alessandro)

 

provvedimento giudice su ricorso Onida

Lo Stato contro il Bel René
questa volta è il Viminale a pagare

 

Questa volta il ‘cattivissimo’ René e la sua bella, Antonella, si prendono una piccola rivincita sullo Stato. Lui la mano non proprio leggera della giustizia l’ha conosciuta con gli ergastoli definitivi e la perdita della semilibertà in seguito al famoso episodio “cesoie e mutande” sgraffignati al supermercato. Lei un po’ di carcere se l’è fatto nel 2013, con 21 giorni di custodia cautelare al termine dei quali ha denunciato di essere stata colpita ingiustamente.

Portati davanti a un giudice civile, a Roma, dall’avvocatura generale che rappresentava niente meno che il ministero dell’Interno, hanno vinto loro. E ora il Viminale dovrà pagare anche le spese legali. Premessa: lo Stato dal 1978 cerca di farsi risarcire da Vallanzasca per la morte di Bruno Lucchesi, agente della stradale colpito a morte a Montecatini dopo l’evasione dal carcere di Spoleto del bandito della Comasina. Qualche decina di milioni di lire di allora si sono trasformati in un debito da 425mila euro che Renato non ha mai saldato. Qualche anno fa Vallanzasca cede i diritti per lo sfruttamento della sua avventurosa storia di sangue. Ne vengono fuori due libri e il film di Michele Placido “Gli angeli del male”. Inizialmente Vallanzasca firma una scrittura privata in cui si impegna a cedere i diritti a titolo gratuito, poi ne firma un’altra, insieme alla moglie Antonella D’agostino, che revoca le disposizioni precedenti. L’accordo vale 400mila euro. Nel 2009 i due danno conto per iscritto di averne già ricevuti 278mila dalla Cosmo Production. Ma chi incassa? Antonella. Tanto che rumors parlano di qualche dissapore tra marito e moglie. Oggi il ministero degli interni chiede al Tribunale di dichiarare che quel denaro appartiene di fatto a Vallanzasca, in modo da poterglielo pignorare per intero in virtù della sentenza Lucchesi. Vallanzasca non si costituisce in udienza. Lo fa invece, attraverso gli avvocati Ivana Anomali e Ciro Cofrancesco solamente Antonella. La quale dichiara che quei soldi sono frutto del suo lavoro alla sceneggiatura e che il bel René non c’entra un bel niente. E che, purtroppo, quel denaro l’ha comunque già interamente speso per mantenere l’anziana suocera (cosa non si fa per una suocera, del resto, ndr) e per le “esigenze del consorte”. Il giudice le dà ragione: non una lira andrà al ministero. Che anzi dovrà sborsare le spese legali. Fanno 5.800 euro, signor Viminale.