giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Mattarella, la grazia alla Cia e la tortura che non è reato

Perché in Italia non viene varata una legge per sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale? La risposta arriva dal presidente della Repubblica che ha deciso la grazia per un agente della Cia e per l’ex segretaria dell’ambasciata Usa condannati in relazione al caso di Abu Omar, l’imam sequestrato nel 2003 dagli 007 americani, trasferito attraverso la base di Aviano e la Germania in Egitto dove fu torturato e sodomizzato.

La decisione non avrà effetti pratici perché i due graziati non sono detenuti ma ha un alto valore simbolico: nel nostro paese la tortura mai sarà reato. Mattarella in pratica dà ragione a chi ostacola il varo della norma perché “metterebbe in difficoltà le forze dell’ordine”. Del resto già il predecessore Napolitano aveva graziato il responsabile sicurezza della base di Aviano mentre gli uomini del Sismi, a iniziare da Nicolò Pollari, erano stati “graziati” dal segreto di Stato.

Mattarella basa la sua decisione sul fatto che Obama ha rinunciato alle extraordinary renditions. Cioè della serie “non lo facciamo più”. Intanto lo stesso Obama non ha chiuso come aveva promesso il carcere di Guantanamo, l’esatto contrario di uno stato di diritto.

Siamo ben oltre anche l’asservimento agli Usa, all’essere colonia. E’ la tortura legalizzata per sempre. La scelta di Mattarella copre quella che fu una operazione da terrorismo di stato, anzi di più stati, con la scusa della “lotta al terrorismo”, con tanti carissimi saluti all’ex culla del diritto. Qui è Italia, notte fonda. Per decisioni prese al Quirinale, prima da Napolitano che nel suo curriculum ha il sì ai carri armati a Budapest 1956, poi da Mattarella che è lì, anche se non si vede. Ogni tanto lo scongelano (frank cimini)

Virus negli smartphone e lettere dalla Questura, lo strano arresto del killer del magistrato

 

Trent’anni fa i servizi segreti consegnarono a un pentito un registratore per raccogliere la confessione di Domenico Belfiore sull’omicidio del magistrato torinese Bruno Caccia. Finì che anni dopo Belfiore venne condannato in Cassazione come mandante del delitto ma quelle registrazioni furono considerate inutilizzabili dalla Cassazione.

Ora, la Procura di Milano prova a stanare dalle polveri della storia uno dei presunti killer  del procuratore torinese con altri strumenti d’indagine non convenzionali: lettera anonime inviate dalla Questura e virus inoculati nei telefonini. 

Prima, dalla Questura di Torino sono partite delle missive destinate a una ristretta ‘rosa’ di 3 prescelti che riproducevano un articolo della ‘Stampa’ del giorno dell’agguato e con la scritta sul retro: ‘Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette. Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirippa. Mandanti Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”. L’obbiettivo era innescare, come poi in effetti è avvenuto, una discussione tra le persone citate nella lettera, tutte vicine al sospettato numero uno, Rocco Schirripa, arrestato oggi perché ritenuto l’uomo che freddò il magistrato torinese nel 1983 su mandato di Domenico Belfiore. “E’ stata la prima volta che ho usato questo stratagemma”, ha ammesso Ilda Boccassini in conferenza stampa.

Poi, per ascoltare quello che si dicevano, gli hanno inoculato negli smartphone dei virus informatici in grado di attivare il microfono e la videocamera dei telefonini. Una tecnica d’indagine molto invasiva, marchio di fabbrica di Hacking Team, che la Corte di Cassazione (sentenza 27100/2015) ha giudicato utilizzabilie solo se “l’intercettazione avviene in luoghi ben circoscritti e e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto“. Gli intercettati parlavano di quelle che definivano “cose delicatissime” solo sul balcone di casa Belfiore, pensando così di evitare le intercettazioni ambientali tradizionali atrraverso microspie negli ambienti domestici. Invece, ogni loro sospiro veniva carpito dai teleonini, tranne quando li spegnevano. “Solo in casa di Domenico Belfiore – evidenzia il gip nell’ordinanza – è stato attivato dalla polizia giudiziaria il microfono degli smartphone intercettati”. (manuela d’alessandro)

Il giudice fa una lezione di storia a De Benedetti per spiegare l’assoluzione di Tronchetti

Sì, potevano essere “potenzialmente” delle gravi offese da ‘lavare’ in un’aula di Tribunale. Ma per il giudice Monica Amicone le frasi ‘esplose’ da Marco Tronchetti Provera contro Carlo De Benedetti erano solo critiche legittime espresse nell’ambito di una “polemica aspra” tra due veterani del capitalismo.

Nelle 32 pagine di motivazione alla sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti del presidente d Pirelli, il giudice sostiene che “per ciascuna dichiarazione sussiste l’interesse sociale”, cioé quella che definisce  “l’attitudine della notizia a contribuire alla formazione alla formazione della pubblica opinione”.

Le motivazioni, con l’analisi delle dichiarazioni (in neretto) rese all’Ansa da Tronchetti nel 2013, offrono al magistrato l’imperdibile possibilità di farsi un viaggio nella storia economico – finanziaria dell’ultimo mezzo secolo.

“L’ingegner De Benedetti fu coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano”

Coinvolto e condannato, spiega il giudice, non sono la stessa cosa. “Il fatto che De Benedetti sia stato coinvolto nel crack risulta dall’avere egli rivestito la qualità di imputato nel procedimento di bancarotta derivato dalla dichiarazione di fallimento del Banco Ambrosiano, indipendentemente dal ruolo, maggiore o minore, che ha avuto nell’ambito del crack finanziario al quale l’espressione usata dall’imputato, di per sè neutra, non si riferisce affatto”.  L’imprenditore aveva invece definito “subdola” questa frase perché per il dissesto del Banco Ambrosiano era stato assolto in Cassazione.

“L’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci di Olivetti” 

Qui il giudice ci va pesante. “Ce n’è abbastanza per definire ‘discussi’ i bilanci di Olivetti senza incorrere in una falsa affermazione”. De Benedetti aveva definito invece la frase “senza senso e ingiuriosa perché tutti i bilanci erano stati approvati dalle relative assemblee”. Amicone sottolinea però che le “discussioni” di cui parla Tronchetti riguardano “l’esterno della società, l’opinione pubblica e il mercato” e, in particolare, i “diversi procedimenti penali” su quei bilanci, uno dei quali concluso con la condanna di De Benedetti”, che in aula smarrì la memoria su questa sentenza.

“De Benedetti fu allontanato dalla Fiat”

Il fondatore del gruppo ‘L’Espresso’ non se la deve prendere perché “allontanato non significa cacciato ed è un termine neutro”.  L’”istruttoria dibattimentale ha comunque dimostrato che De Benedetti “si allontanò per decisione unilaterale” in seguito a diverse vedute sulla gestione della società con l’avvocato Gianni Agnelli.

“Io e De Benedetti non parliamo la stessa lingua, come è normale possa succedere tra un cittadino italiano e uno svizzero”

Per il giudice siamo di fronte a “una canzonatura priva  di reale efficacia lesiva della reputazione del querelante che ne ha enfatizzato la portata aggressiva collegandosi all’allusione di un regime fiscale più favorevole”. (manuela d’alessandro)

Il testo completo delle motivazioni De Benedetti – Tronchetti

 

 

 

 

NoTav, non fu terrorismo. Teorema Caselli ko anche in appello

Finisce al tappeto anche in appello il teorema Caselli che aveva addebitato a 4 militanti NoTav di aver agito con finalità di terrorismo nell’azione contro il cantiere di Chiomonte la notte tra il 13 e il 14 maggio del 2013. La corte d’assise d’appello ha confermato la sentenza che in primo grado aveva assolto gli imputati dall’accusa più grave, condannandoli per i reati fine, tra cui il lancio di molotov contro mezzi militari, a 3 anni e 6 mesi di reclusione.

Già la Cassazione in due occasioni aveva escluso la finalità di terrorismo, adesso è arrivato pure il verdetto d’appello. Il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena stamattina aveva replicato alle arringhe dei difensori sollecitando i giudici a condannare gli imputati a 9 anni e mezzo. “Spetta a voi l’ultimo giudizio di merito” erano le parole del pg alle quali rispondeva l’avvocato Giuseppe Pelazza: “E’ come se avesse detto dopo di voi il diluvio, ma non c’è il diluvio, c’è il sole”.

Maddalena sempre al fine di convincere la corte d’assise d’appello, soprattutto i giudici popolari, citava la storia dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, morto dilaniato da un ordigno che stava collocnado su un traliccio di Segrate il 15 marzo del 1972. “Il Pg sembra avere un legame quasi coatto con gli anni ’70″ controreplicava sul punto Pelazza.

Insomma l’accusa non è riuscita a sfondare dopo aver giocato tutte le carte possibili e immaginabili. Ha ottenuto, va ricordato, che la finalità di terrorismo è servita a far trascorrere a questi e altri imputati  più di un anno di detenzione in regime di alta sorveglianza, una sorta di 41bis di fatto, l’articolo del regolamento carcerario erede dell’articolo 90 dei cosiddetti “anni di piombo”.

La posta in gioco andava al di là del singolo processo. Caselli, ex pg dopo essere stato già una volta a capo della procura con scambio di ruoli con Maddalena in una sorta di facciamo quello che ci pare senza che il Csm dicesse nulla, intendeva bollare come “terrorismo” qualsiasi azione di resistenza non passiva. Anche a costo di trattare il danneggiamento di un compressore bruciacchiato come il rapimento Moro. Caselli, ora in pensiome, non c e l’ha fatta, nonostante l’aiuto del pg tra pochi giorni pure lui in quiescenza arrivato personalmente in aula a perorare la causa dell’emergenza infinita diventata prassi normale di governo.

Insieme a Maddalena escono sonoramente sconfitti i Caselli boys, i pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino, coordinatori dell’inchiesta e rappresentanti dell’accusa in corte d’assise. Il primo, destrorso vicino ai Fratelli d’Italia, il secondo ex militante della federazione giovanile comunista, insieme appassionatamente in una sorta di arco costituzionale della repressione.

Sicuramente l’accusa ricorrerà ancora in Cassazione. Lor signori non demordono. E invece tanto furore investigativo potrebbero dedicarlo agli appalti dell’alta velocità che sembrano gli unici onesti e trasparenti in un’Italia ad alto tasso di corruzione. Purtroppo il Tav, come del resto Expo, fa parte del “sistema paese”. E allora non si indaga, con calorosi saluti all’obbligatorietà dell’azione penale e all’indipendenza della magistratura, principi da strombazzare nei convegni e nei comunicati stampa. Insomma, il vero terribile problema era il compressore (frank cimini)

Google batte indagato nella prima sentenza italiana sull’oblio dopo la Corte europea

Google batte indagato nel primo verdetto sul diritto all’oblio dopo la sentenza con cui nel maggio 2014 la corte di giustizia europea ne aveva ampliato i confini stabilendo che i cittadini possono pretendere la cancellazione delle informazioni “che offrono una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio della reputazione e riservatezza”.

Un avvocato svizzero chiede al Tribunale civile di Roma che il motore di ricerca ‘deindicizzi‘ 14 link nei quali si parla del suo coinvolgimento in un’indagine su ex della banda della Magliana e su alcuni religiosi.

Nel ricorso, il legale sottolinea che in questa vicenda giudiziaria non è mai stata pronunciata una condanna a suo carico e chiede, oltre alla rimozione dei link, la condanna di Google a una somma non inferiore ai 1000 euro. Il diritto alla privacy, avevano sancito i giudici europei, va comunque bilanciato caso per caso col diritto di cronaca e l’interesse pubblico a conoscere i fatti.

Il giudice romano Damiana Colla respinge la richiesta di cancellazione perché l’indagine è ancora in corso, mancando la produzione di documenti che ne attestino la chiusura, come sentenze o archiviazioni (“il trascorrere del tempo ai fini della configurazione del diritto all’oblio si configura quale elemento costitutivo”) e presenta “un sicuro interesse pubblico”; inoltre, il ricorrente “è avvocato in Svizzera, libero professionista, circostanza che consente di ritenere che questi eserciti un ‘ruolo pubblico’ proprio per effetto della professione svolta e dell’albo professionale cui è iscritto, laddove tale ruolo pubblico non è attribuibile solo al politico ma anche agli alti funzionari pubblici e agli uomini d’affari, oltre che agli iscritti agli albi”.

Ma c’è di più. Il ricorrente non può neppure lamentarsi della falsità delle notizie riportate cercando il suo nome nel motore di ricerca “non essendo configurabile alcuna responsabilità da parte di Google, il quale opera unicamente come ‘caching provider’ (…) avrebbe dovuto agire a tutela della propria reputazione e riservatezza direttamente nei confronti dei gestori di siti terzi sui quali è avvenuta la pubblicazione del singolo articolo di cronaca, qualora la notizia non sia stata riportata fedelmente, ovvero non sia stata rettificata, integrata o aggiornata coi successivi risvolti dell’indagine, magari favorevoli all’odierno istante (il quale peraltro deduce di non aver riportato condanne e produce certificato negativo del casellario giudiziale”).

(manuela d’alessandro)