giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Il Procuratore c’est moi, riferite tutto a me su Expo

Bruti Liberati manda una circolare a tutti i pm, annunciando la nascita dell’Area Omogenea Expo “cui sono attribuite tutte le indagini che, a vario titolo, concernono direttamente o indirettamente l’evento”.  ”Appare necessario e urgente istituirla” – spiega – “in modo tale da assicurare efficace e pieno coordinamento dei procedimenti pendenti presso i diversi Dipartimenti di questa Procura”. 

Cosa significa “Area Omogenea Expo”?

Dalla lettura del documento si capisce bene cosa non vuole essere. Non è la creazione di un  pool di pubblici ministeri che si occupano del tema perché  ”non è opportuno  prevedere un organico proprio per l’Area Omogenea Expo”.  Un’altra cosa che si capisce bene è che Bruti rivendica con piglio deciso i suoi poteri in questo ambito. Eccoli, come li scolpisce nella circolare: ”il Procuratore della Repubblica riserva a sè stesso il coordinamento dell’Area Omogenea Expo”; ”i Procuratori aggiunti e il coordinatore Sdas riferiranno prontamente al Procuratore della Repubblica in ordine a tutti i procedimenti” su Expo; “le notizie di reato saranno trasmesse direttamente al Procuratore della Repubblica il quale provvederà all’assegnazione dei procedimenti ai sostituti assegnati ai diversi Dipartimenti, in ragione delle rispettive specializzzioni, tenendo conto altresì delle connessioni e /o collegamenti investigativi, nonché, se del caso, provvedendo ad opportune coassegnazioni, ove emergano diversi profili di specializzazione”.   Cosa sarà esattamente l’Area Expo lo capiremo nei prossimi mesi, per adesso sembra un ‘urlo’ di Bruti nella Procura lacerata per ricordare a tutti che il capo è lui, e al momento non pare abbia voglia di abdicare. (m.d’a)

 

Tao Scatenato fa tutto da solo
Falsifica un legittimo impedimento e si smaschera
Dieci mesi, per lui neanche le generiche

Un po’ pasticcione, ma l’audacia non gli manca mai. Per questo è il numero uno. Da avvocato o da imputato, poco cambia, Carlo Taormina mena sempre colpi micidiali. Qualche volta per se stesso. E’ Tao Scatenato.

Vi avevamo raccontato qui della sua recente condanna a dieci mesi. Tutto per un legittimo impedimento non esattamente legittimo, corredato da un piccolo falso. La storia è ancora meglio di quanto credessimo. Perché leggendo le motivazioni della sentenza, si scopre che il Taormina ha combinato tutto da solo: tenta un trucchetto, si accanisce contro un giudice e si smaschera da solo. E così rimedia la condanna.

L’8 maggio 2009 invia un fax al Gup di Milano Giorgio Barbuto con un’istanza di legittimo impedimento. Chiede il rinvio dell’udienza del 15 maggio, in cui sarà imputato per diffamazione ai danni dell’ex procuratore di Aosta Maria Del Savio (le loro strade si erano incrociate nell’inchiesta sul delitto di Cogne). Avvisa che gli sarà impossibile essere in udienza dovendo quello stesso giorno difendere, come unico difensore, un imputato per droga in Sardegna. E allega la citazione della Corte d’Appello di Cagliari.
Il 13 maggio Taormina “trasmetteva segnalazione al Presidente del Tribunale di Milano e al Presidente dell’Ufficio Gip nella quale evidenziava che il suo difensore – nel corso di un colloquio del 12 maggio – aveva percepito che il magistrato, che si era riservato di decidere in udienza, avrebbe potuto non ritenere valido l’impedimento addotto”. Il Tao-legale-imputato lamentava, si legge nelle motivazioni, “la particolare attenzione al processo che lo riguardava da parte del Gip e una ‘solerzia’ così accentuata da parte del magistrato che se avesse riguardato tutti i processi di Milano avrebbe consentito ‘l’eliminazione di ogni più pesante arretrato’”. Insomma Taormina calca la mano sul povero Gip Barbuto. Passa all’attacco: “l’atteggiamento del dott. Barbuto si configurerebbe in caso di celebrazione dell’udienza, illegittimo e inopportuno in quanto per un verso pregiudizievole per l’esercizio del diritto di difesa e per un altro non adeguato alla trattazione di una constroversia penale di non eccessivo rilievo, se non fosse che controparte del sottoscritto siano due magistrati”. Altra bordata. (Saggio è chi evita di attaccare un giudice per la sua solerzia nel celebrare un processo con altri magistrati in veste di parte civile). Ai due presidenti, allega di nuovo la citazione. Solo che questa volta compare un nome che invece non compariva in quella spedita al giudice Barbuto. Compare un codifensore di Taormina nel processo sardo. Mannaggia. E che è successo? Per il Tribunale di Milano, è successo che dell’originale era stata fatta una prima fotocopia oscurando il nome del codifensore. Mentre ai due presidenti era arrivato per fax l’originale. Fatto il confronto, svelato l’inganno. Continua a leggere

Kabobo, schizofrenico anche perché emarginato
Così il gup spiega la condanna a 20 anni

“Non si può dire che la malattia ‘abbia agito al posto’ dell’imputato” Adam Kabobo. Non c’era una mano immaginaria a guidarlo, costringendolo a uccidere tre persone a colpi di piccone. Quella mano non c’era neppure nella sua testa confusa. E se per “il sentire comune” il comportamento del giovane ghanese potrebbe essere considerato pura “follia”, non si può parlare di “automatismo della malattia”. Almeno così ritiene il gup di Milano Manuela Scudieri, che ha condannato Kabobo a 20 anni di carcere (più misura di sicurezza) in rito abbreviato, riconoscendogli una parziale incapacità di intendere.

E però, le cose non sono così semplici, il magistrato non può far finta che Kabobo, difeso dagli avvocati Benedetto Ciccarone e Francesca Colasuonno, fosse un cittadino come tutti gli altri, interamente imputabile per il suo comportamento violento, anzi “efferato”. Non può farlo, e infatti è chiamato a decidere sulla base di perizie specialistiche e del complesso degli atti di indagine, non delle dichiarazioni dei politici, non delle interviste rilasciate dagli avvocati, come altrove si vorrebbe.

E allora, la “condizione di emarginazione sociale e culturale” di Adam Kabobo, scrive il gup, è stata “valutata quale concausa della patologia mentale riscontrata, nel riconoscimento della seminfermità mentale”. La “condizione di stress derivante dalla lotta per la sopravvivenza ha inciso sulla patologia” di Adam Kabobo, “aggravando la sintomatologia delirante e allucinatoria e la comprensione cognitiva”. Il giudice condivide la perizia psichiatrica, la quale chiarisce che il ghanese voleva “uccidere e con l’occasione farsi catturare per soddisfare i propri bisogni primari”. Insomma avrebbe ucciso tre persone anche per farsi arrestare, e finire in un carcere italiano, dove notoriamente vitto e alloggio sono da hotel a cinque stelle.

Kabobo ha ucciso tre persone innocenti, senza una ragione comprensibile a noi comuni cittadini. Sulla base di indagini accurate, tenendo conto anche di quanto sostenuto dalle difese e dai legali dei famigliari delle vittime, il giudice ha fatto le sue considerazioni. Matto? Sano? Brutto e cattivo? Adesso l’idea potete farvela anche voi:

motivazioni sentenza kabobo

Domani processo a Erri De Luca, assolvetelo in nome della libertà

Il 5 giugno dunque si terrà davanti al gip di Torino un’ udienza preliminare contro un apprezzato e valente scrittore italiano che ha scatenato, da più parti, nutrite e variegate manifestazioni di solidarietà. Trattasi di Erri De Luca, accusato dalla locale Procura di istigazione a delinquere (art. 414 Cp) per avere pronunciato,mesi orsono, le seguenti parole: “La TAV va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa” . L’art. 414 del Codice penale è reato inserito nel titolo V del Codice Penale “dei delitti contro l’ordine pubblico” e prevede una pena fino a 5 anni di reclusioneper chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più delitti.Rivendicando la libertà sancita dall’art. 21 della Costituzione che stabilisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, lo scrittore ha dichiarato: ”Se mi condannano per istigazione alla violenza non farò ricorso in appello. Se dovrò farmi la galera per avere espresso una opinione, allora la farò”. Continua a leggere

‘Pistole e palloni’, gli anni ’70 nel racconto della Lazio campione.
Una squadra di “pazzi, selvaggi e sentimentali”.

Guy Chiappaventi, giornalista di La7 romano e laziale che si proclama insofferente agli spigoli della nostra città, da qualche anno si aggira col suo taccuino per i corridoi del Palazzo di Giustizia con l’aria sorniona di chi viene da un altro pianeta. Ora, leggendo il suo libro ‘Pistole e Palloni’ (Editore Castelvecchi),  intravvediamo finalmente da quale pianeta sia calato e, dobbiamo ammetterlo, una storia così a Milano, almeno in quella sportiva, non potrebbe mai essere stata scritta. Guy offre ritratti luminosi, dal portiere Felice Pulici al mister Tommaso Maestrelli,  dei ragazzi che vinsero il primo scudetto nella storia della Lazio il 12 maggio 1974, mentre lui era in prima elementare e l’Italia diceva sì al divorzio e all’aborto col disappunto di Pasolini, le cui riflessioni incorniciano non per caso i momenti più intensi di questo libro.  Sono le parole dell’intellettuale, comunista e omosessuale, a disegnare i confini del ‘campo’ in cui giocò quella squadra di “irregolari”, machista e missina, che per la prima volta nel dopoguerra strappò il tricolore al nord, e dove “le teste erano calde, andavano di moda le pistole e i paracadute, le partitelle di allenamento finivano a schiaffi, gli spogliatoi erano divisi per clan”.

“Io giravo con la pistola, una 44 magnum. Poteva servirmi in certi casi. Ma non l’avevo presa per autodifesa, alla Lazio eravamo quasi tutti armati. Con le armi ci passavamo i ritiri all’Hotel Americana”. Questo è Giorgio Chinaglia che per Pasolini era un centravanti “goffo e delirante”, per i tifosi un amatissimo “re Luigi XIV degli anni settanta”, in grado di poter battersi il petto con la foga che lo spingeva in area di rigore, urlando: “La Lazio? C’est moi.”

Tanti di quei giocatori ammiravano Giorgio Almirante ed esibivano pose neo – fasciste, pur senza essere consapevoli della matrice storica dei loro comportamenti, proprio negli anni del  ’riflusso’ che spegne il ’68 e porta dritto alla lotta armata.  L’ossessione della polvere da sparo bruciò il volo di Luciano Re Cecconi, l’angelo biondo a cui un gioielliere con una revolverata tolse la vita a 28 anni perché per scherzo inscenò una rapina nella sua bottega. Di quella squadra di “pazzi, selvaggi e sentimentali” spezzata da tali rivalità che i giocatori si cambiavano in due spogliatoi fisicamente distinti (quelli che stavano con Chinaglia e gli ‘altri’)  molti ebbero una sorte nera, dalla mezzala Frustalupi,  morto in un incidente stradale all’allenatore Maestrelli, il più dolce di tutti che sapeva come ammansire le sue belve e finì in una bara a un passo dalla panchina dell’Italia.  Tanti finirono risucchiati in inchieste giudiziarie, calcio scommesse, falsi in bilancio, passaporti truccati.  Long John Chinaglia è stato folgorato da un infarto in America da latitante, il 16 settembre di un anno fa. (manuela d’alessandro)