giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Derivati, banche assolte dopo aver “risarcito” il Comune di Milano

La corte d’appello di Milano ha ribaltato con un’assoluzione la sentenza che in primo grado aveva condannato 4 banche estere per truffa ai danni del Comune di Milano in relazione a un’operazione su contratti derivati.

La sentenza arriva dopo che a processo in corso le banche Ubs, Depfa, Deutsche Bank e JPMorgan avevano rinegoziato l’operazione, in cambio della revoca di costituzione di parte civile del Comune, facendo affluire nelle casse dell’ente pubblico 455 milioni. Formalmente non è un risarcimento ma di fatto lo è. Evidentemente gli istituti di credito avevano messo nel conto di poter essere condannate. E così fu in primo grado, un milione di euro di multa e la confisca di 89 milioni. Tutto cancellato oggi dai giudici di appello “perchè il fatto non sussiste”. Continua a leggere

Pm Esposito indagato, sullo sfondo c’è il caso Ruby?

Strana storia quella che coinvolge Ferdinando Esposito, il pm milanese figlio di Antonio, uno dei giudici della Cassazione che nell’agosto 2013 ha confermato la condanna a 4 anni per la vicenda Mediaset a Silvio Berlusconi.

Un avvocato, Michele Morenghi, lo accusa di essersi  fatto prestare da lui migliaia di euro e avergliene chiesti altri con insistenza per pagare l’affitto e afferma di averlo accompagnato ad Arcore il 22 maggio 2013. Le carte dell’inchiesta non le conosciamo ma tra le ipotesi che possiamo azzardare è che la Procura sospetti che Esposito si spacciasse come una sorta di ‘talpa’ al Cavaliere e a Minetti, di cui era amico tanto da finire nei guai per una cena con lei, per l’inchiesta Ruby. Stando a quanto scrive oggi il Corriere della Sera, il giovane Esposito sarebbe accusato di concussione per le pretese economiche avanzate nei confronti del legale ma anche di millantato credito, accusa che potrebbe essere spiegata proprio con l’idea ‘talpa’. Morenghi il 10 febbraio scorso è stato anche sentito come testimone da Bruti e da Boccassini che poi hanno spedito le carte a Brescia, competente per i presunti reati dei magistrati. Continua a leggere

“La cella liscia”, un e – book racconta la tortura nelle nostre carceri

“La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta”. 

Arianna Giunti, giornalista del gruppo L’Espresso, racconta questo abisso sconosciuto dove viene rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o è semplicemente colpito da una crisi di nervi, nell’appassionato e documentato e-book “La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane”, edito da Informant.

La tortura viene praticata in Italia in quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento delle carceri che ancora dispongono di una cella liscia nella quale i detenuti sono costretti anche a fare i bisogni sul pavimento e a convivere con  gli scarafaggi. Un giorno Carlo, recluso al Mammagialla di Viterbo per reati di droga, spiega al padre durante un colloquio cos’è la cella liscia. “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano degli agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Ma tu, pur di non restare solo e impazzire, aspetti  quei momenti come una cosa bella”. Trasferito poi nel carcere di Monza, alla mamma una sera dice al telefono: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Carlo morirà pochi giorni prima del suo compleanno per circostanze che il padre, viste le oscure cartelle cliniche del penitenziario, non è mai riuscito a chiarire.

Non c’è solo la quotidiana violazione dei diritti umani nelle mura carcerarie al centro del libro elettronico ma anche un’indagine, arricchita da storie, che fa emergere l’impossibile ritorno alla vita, e soprattutto al lavoro, fuori dalle sbarre. Chi decide di ricominciare si scontra con un ostacolo insormontabile: il certificato penale immacolato richiesto dai datori di lavoro. Marcello supera in modo brillante un colloquio per diventare promoter in una grande azienda di surgelati. Quando il direttore delle vendite gli chiede di fornirgli il certificato, si spegne il suo sorriso. Racconta una bugia (“Per me sarebbe un lavoro troppo impegnativo”) e se ne va. Nel capitolo “marchiati a fuoco” Giunti mette in fila altre storie  simili a questa, abissi umani che lacerano il cuore e ritraggono il carcere italiano come un inferno con divieto perenne di uscita.  (manuela d’alessandro)